Il capitano Anders fissò un punto, oltre i vetri. Un vento furioso, carico di umidità, fischiava tra i tetti lucidi di Edimburgo, annunciando tempesta. Nella stanza si era fatto silenzio, nell'attesa che lui parlasse. La guerra era finita da un anno ormai: era tempo di chiudere anche quell'ultima inchiesta. Il capitano si raddrizzò sulla poltrona imbottita, raccolse le idee per una frazione di secondo, poi cominciò a raccontare.

«Faceva freddo, era quasi la mezzanotte del tre gennaio, e noi tenevamo la posizione. Io, il Capitano McCullen e il Maggiore Sommers, al comando di due compagnie avanzate della Divisione Highland. Ormai lo slancio dei tedeschi era scemato; ma sapevamo che gli Yankees se l'erano vista brutta, quindici giorni prima. Un gran brutto Natale, quello del '44, ve lo ricordate. E dire che il Maresciallo Montgomery ci aveva promesso di essere a Berlino, al passaggio delle renne di Santa Claus. Inutile recriminare: eravamo stati lenti in Normandia, e ancora più lenti nella battaglia di Francia, ma i crucchi non avevano perso di certo la voglia di combattere e quindi non era solo colpa nostra.
A metà dicembre si pensava che i nazisti non avessero più nemmeno le patate per la zuppa e, una volta di più, ci avevano stupiti. Dove abbiano trovato tutti quei carri armati, ancora adesso non lo capisco. Ma questa è storia che sapete: l'offensiva tedesca attraverso le Ardenne aveva colto impreparati tutti quanti, ma aveva travolto le divisioni americane disposte lungo quel fronte. Noi, più a nord, siamo stati solo sfiorati dalla marea. Per loro sfortuna o cattiva organizzazione i tedeschi disponevano di poco carburante e, dopo una decina di giorni, la loro spinta si era esaurita. Si trattava di ricacciarli indietro: Patton da sud, con i suoi carri armati, e Monty con le nostre divisioni da nord e da ovest, avevano il compito di fare piazza pulita; ma i crucchi non erano briciole, non avevano alcuna intenzione di farsi spazzare via.
Ce la misero tutta per resistere e, anche se avevano perso quasi tutto il loro equi-paggiamento pesante nella ritirata di qualche giorno prima, ogni tanto organizzavano qualche sporadica controffensiva, più per coprire la ritirata del grosso delle truppe, che con intenti strategici. Si trattava di scrolloni senza futuro; lo sapevamo e non ci preoccupavano più di tanto. Poi, sulla neve, senza mezzi meccanici, non è che si possa fare tanta strada; e se c'era qualcosa che mancava ai tedeschi erano i mezzi meccanici.
Ma la notte del tre gennaio le cose andarono diversamente: le nostre due compagnie, a ranghi ridotti, non più di un migliaio di uomini, erano rimaste isolate dal grosso del battaglione a causa di una forte nevicata. All'improvviso venimmo in contatto con delle unità di una divisione SS, non saprei dire quale. Era buio, faceva freddo e la neve cadeva fitta. All'inizio ci fu un prolungato scambio di fucileria, quando le due parti presero coscienza l'una dell'altra, poi, improvvisamente, incominciarono a piovere colpi di mortaio. I proiettili si piantavano fitti e sinistramente silenziosi nella neve, spargendo la morte nel sottobosco. I nostri ragazzi non erano in grado di opporre nulla a questo fuoco. Avevamo in dotazione solo le armi individuali e una decina di mitragliatrici di squadra, nulla insomma, per organizzare un efficace fuoco di controbatteria.
I tedeschi devono aver realizzato che c'era la possibilità di conseguire un buon successo tattico, infatti cominciarono ad alternare assalti di fanteria con delle efficaci scariche delle squadre mortaisti: il loro comandante sapeva il fatto suo e conduceva l'azione con perfetto sincronismo. Sotto il fuoco continuo il Maggiore Sommers mandò le staffette a me e al Capitano McCullen, con l'ordine di riunire le due compagnie e organizzare un fronte di resistenza. L'ovvio obiettivo era quello di sventare gli assalti tedeschi almeno fino all'alba, sperando in un miglioramento delle condizioni meteo e nell'intervento dell'aeronautica a spazzare via le artiglierie del nemico. Sfidando i colpi continui, e nella confusione della nevicata, riuscimmo a concentrare le nostre truppe e a realizzare un perimetro difensivo di qualche centinaio di metri. Il tempo non passava e l'alba, a gennaio, è sempre lenta ad arrivare quando è nuvolo poi, le cose vanno anche peggio.
Il nemico continuava a bersagliarci con i mortai e a saggiare le nostre difese con repentini ed energici assalti di fanteria. Quelle dannate SS si facevano sotto con un furore fanatico che ancora adesso fatico a comprendere; in ogni caso i nostri ragazzi resistevano. Il problema era che stavamo finendo le munizioni infatti, isolati dal grosso del battaglione, gli uomini avevano a disposizione soltanto le dotazioni personali, o poco più.
Non nascondo che quella era proprio il tipo di situazione che non eravamo preparati ad affrontare: dopo sei mesi passati continuamente all'attacco, ben approvvigionati, con l'appoggio continuo di aviazione e tank, né i soldati, né gli ufficiali erano pronti a combattere sulla difensiva. Tant'è, le cose stavano volgendo al peggio: continuavamo a perdere uomini, molti morti, ma soprattutto moltissimi feriti. Sentivamo chiamare il medico in continuazione, in mezzo alle esplosioni e al ringhio delle armi automatiche.
Il dottor Irvine, mi raggiunse, sulla linea del fuoco, per informarmi che aveva esaurito tutte le scorte di medicinali e mi fece capire che se avessimo voluto trattare una resa con i tedeschi, quel momento non era il peggiore. Prendemmo atto della situazione. Mancavano tre ore all'alba e le nostre mitragliatrici avevano smesso di battere il sottobosco già da tempo; molti ragazzi, finite le munizioni, avevano inastato le baionette e stavano rintanati nelle loro buche, in attesa di reggere l'assalto che, inevitabilmente, pensavamo sarebbe arrivato da lì a poco.
Io avevo esaurito i colpi del mio sten e mi rimaneva solo la pistola, appesa al collo, infilata sotto un'ascella, per paura che il meccanismo d'azione del tamburo si ghiacciasse; avevo piantato la baionetta nel terreno vicino a me, e stavo addossato a un larice spoglio, scrutando la foresta, aspettando il nemico.
Le MG 42 dei tedeschi improvvisamente smisero di sparare, i mortai tacquero e per qualche minuto ci fu solo il silenzio nella boscaglia, ipnotico. Io guardavo i miei uomini e loro guardavano me, con occhi allarmati e interrogativi. Passai l'ordine di stare all'erta e di sparare, chi poteva, solo a colpo sicuro. Osservai i miei soldati e provai compassione e orgoglio nello stesso tempo: non ce n'era uno solo che non avesse ricevuto una ferita, più o meno grave, ma erano tutti lì, spaventati, ma determinati a resistere. Certo, se i tedeschi avessero attaccato in quel momento, le possibilità di reggere l'urto sarebbero state minime nulle.
All'improvviso sentimmo un grido, poi un altro e un altro ancora. Fu un urlo corale, un grido collettivo, un rombo. Ricordo che mio padre mi aveva descritto un suono del genere, parlando dell'urlo che i soldati emettevano tutti assieme, all'uscita dalle trincee, durante la Grande Guerra. Non lo avevo mai sentito, ma lo riconobbi.
Il sottobosco si mosse, la neve sembrò alzarsi da terra e correrci incontro. Rimasi inebetito per qualche istante, poi questa massa bianca, informe, cominciò a sparare. Centinaia di lampi si accesero in quella valanga che ci veniva addosso: erano i tede-schi, con le loro divise invernali che, sollevatisi da terra, ci stavano per sbriciolare.
Svuotai l'intero caricatore del mio revolver e percepii che i miei ragazzi avevano fatto lo stesso con le loro armi. Avevano sparato, fino all'ultimo proiettile, nella massa informe, rotolante, che era in procinto di spazzarci via.
Ognuno di noi, tutti quelli che erano in grado di tenersi in piedi, brandiva la propria baionetta, il proprio pugnale, il proprio coltello, determinato a vendere cara la pelle; nella coscienza di aver ben poche possibilità di spuntare un buon prezzo.
All'improvviso, qualche metro prima di raggiungerci, l'onda bianca rallentò, barcollò, si fermò, ondeggiante, in un brontolio di imprecazioni e grida confuse.
Vidi chiaramente gli uomini in prima fila sbarrare gli occhi e cercare di voltarsi per fuggire, impediti da quelli che li seguivano, che cercavano ancora di avanzare. C'era negli sguardi di quei soldati un terrore incomprensibile, valutando la forza di chi avevano di fronte.
Poi iniziarono a cadere, come fulminati, prima alcuni, poi sempre più numerosi; franavano al suolo, ruotando su sé stessi, come se li stessimo colpendo con le nostre armi.
Ma non era così, avevamo finito i proiettili.
Cosa stava accadendo?.»

Il Generale fermò la matita con la quale aveva giocherellato fino a quel momento e appoggiò il mento sui pugni chiusi, protendendosi sulla scrivania, verso il Capitano Anders. Osservò con la coda dell'occhio il colonnello medico che era al suo fianco e riportò l'attenzione sull'ufficiale scozzese.

«Mi girai, so che non mi crederà, come non mi hanno creduto i suoi colleghi prima di lei, ma alle nostre spalle erano disposti, in fila per due, centinaia di arcieri, in cotta di maglia ed elmo metallico. Questi guerrieri stavano scaraventando sui tedeschi migliaia di frecce, facendone strage».
«Lei è stato l'unico a vedere questi rinforzi?», domandò l'ufficiale medico.
«No. Molti soldati e sottufficiali si sono voltati e hanno visto quello che ho visto io». Anders fece una pausa, diede un colpo di tosse e riprese.
«Se non fosse stato per l'intervento di quegli arcieri, oggi non sarei qui davanti a voi, a parlarne. Loro hanno messo in fuga i tedeschi, salvandoci appena in tempo».
«Lei si è fatto un'idea di chi potevano essere questi angeli salvatori?»
Il Capitano aveva già sentito talmente tante volte quel tono, tra il canzonatorio e lo scettico, che non ci faceva più caso; avrebbe comunque continuato a portare avanti la sua versione dei fatti. L'unica versione dei fatti.
«Sì, ricordando la livrea dei mantelli, credo fossero gli arcieri di Enrico V che, come ad Azincourt, per la seconda volta, hanno salvato gli inglesi in difficoltà sul continente».
Anders prese a giocherellare con il sottile bastone fuori ordinanza, vezzo concesso per tradizione a tutti gli ufficiali britannici. «Sì, ricordo bene le vesti rosse e blu, con i gigli di Francia e i leoni d'Inghilterra».
Gli ufficiali superiori si guardarono l'un l'altro, poi il medico si alzò e si avvicinò alla poltrona del Capitano.
«Lei sa che questo colloquio è del tutto informale, vero?». Anders annuì. «Le spiegherò cosa accadde nella foresta delle Ardenne, quella notte tra il tre e il quattro gennaio del 1945. I tedeschi, in piena ritirata, tentarono di coprire la loro fuga con l'ennesimo contrattacco tattico. Era già successo prima, come ha confermato lei stesso, ma in quella notte i crucchi ci andarono con la mano pesante: supportarono la controffensiva con il lancio di granate a gas; un gas allucinogeno. Però gli andò fatta male».
Anders guardò il colonnello senza espressione; questi proseguì. «Invece di stordirvi, questo gas vi ha infuso un vigore e una foga, quasi mistica; vi ha fatto vincere il terrore, uscire dalle vostre buche, e affrontare il nemico all'arma bianca; proprio come antichi guerrieri. Da questo la vostra allucinazione collettiva riguardante gli arcieri di. di Azincourt. Mi ha seguito?».
«Perfettamente. Ma avete visto le salme dei tedeschi rimasti sul campo di battaglia, la mattina dopo, quando sono arrivate le truppe meccanizzate?».
«Sì, ho visionato le fotografie di alcuni cadaveri. L'analisi conferma la nostra teoria, l'unica accettabile: i soldati germanici osservati da noi, quelli non uccisi da proiettili, voglio dire, sono morti per ferite inferte da oggetti acuminati, come le vostre baionette e i vostri pugnali. Non abbiamo trovato sul campo di battaglia una sola freccia, mi creda».
«Le credo, Colonnello». Anders accennò ad alzarsi. «Ho il permesso di andare, ora che la questione è stata chiarita? Signor Generale?».
«Certo, vada, vada pure, Capitano Anders, l'inchiesta è formalmente chiusa, e congratulazioni per la decorazione che ha ricevuto, se l'è meritata tutta, mi creda».
«Grazie, signore».
Il Capitano si mise sull'attenti, infilò li bastone sotto il braccio sinistro, e scattò in un secco saluto militare. La Victoria Cross brillò sul petto dell'ufficiale, quando questi si voltò e uscì impettito dall'ufficio, sotto lo sguardo benevolo degli ufficiali superiori.
Mezz'ora dopo, Anders entrò al pub del Corvo Nero. Fece tintinnare i boccali esposti sul bancone con la punta del suo bastone e ordinò: «Mick, una mezza pinta di birra, per favore!».
«Arrivo subito», rispose il gestore, aggrappandosi alla spina.
Il Capitano avanzò nel locale, salutò un paio di avventori abituali, e si diresse al suo solito tavolo, vicino al bersaglio delle freccette. Due uomini stavano giocando nell'atmosfera fumosa, prendendosi bonariamente in giro a ogni lancio.
Quando lo videro gli fecero un cenno di saluto; lui agganciò il berretto d'ordinanza all'attaccapanni, si slacciò la cravatta sotto la divisa, e ricambiò il saluto.
«McCullen, Sommers; chi vince?».
«Al solito, il Maggiore», rispose McCullen. «Ma lo lascio vincere, per rispetto del grado, ovviamente».
Anders sorrise. «Sono appena stato dal Generale».
«A proposito di questa?», domandò Sommers, indicando la decorazione che cam-peggiava anche sulla sua giacca, appoggiata allo schienale della sedia.
«Già».
«E che ti ha detto?».
«Ha messo fine alla faccenda. Non ci crede. Questa volta c'era anche un medico, che mi ha spiegato tutto. Signori! Abbiamo sofferto di allucinazione collettiva! Eravamo come drogati e pensavamo di essere degli antichi guerrieri in lotta per respingere i barbari».
Anders si alzò e, brandendo il suo bastone, si atteggiò a duellante, come a sfidare gli amici; questi afferrarono ognuno il proprio e si misero in guardia, sghignazzando.
«Colleghi! Siamo una manica di allucinati ubriaconi, come si conviene a un gruppo di veri scozzesi!», sollevò il boccale di birra, con un cenno di saluto.
Mise il bastone davanti agli occhi, ne strappò il manico e lo lanciò, rabbioso, verso il bersaglio, seguito da quelli dei suoi due compagni d'armi.
«Cari amici, dobbiamo farci curare». I tre uomini proruppero in una lunga risata che fece voltare molti avventori. «E dimenticare la Storia che abbiamo tra le mani».
Indicò il bersaglio.
Nel sughero erano infisse tre frecce, di antica fattura, recanti i colori rosso e blu di Enrico V.


Data invio: