L'impossibilità di poterlo legare a me aveva sprigionato nel mio animo un sentimento contraddittorio e nel contempo perfettamente coerente. Si conformava davanti a me l'immagine di una donna che ama disperatamente e con disprezzo, come se dopo aver cercato per lungo tempo una definizione per quel suo stato, ora dovesse necessariamente riconoscerlo come amore.
Quella donna era in me e io ero quella donna.
Finché eravamo stretti nell'intimità fisica, quasi mi annoiavo con lui, lo sentivo assente a sé stesso, come se stessi abbracciando il vento ma, non appena non c'era, percepivo la sua presenza con amarezza. Si imponeva violentemente nei miei pensieri il desiderio di rendere mio quell'essere inafferrabile e la noia assumeva le sembianze del dolore. La coscienza di non poterlo possedere mi spingeva alla ricerca assetata di un metodo per costringerlo ad essere quello che non era.
Nell'assenza esisteva e l'amavo di un amore dispettoso.
Un sentimento che cresceva proporzionalmente alla consapevolezza della sua non appartenenza a me. Il capriccio di una bambina che vuole ciò che non può possedere e che desidera il suo giocattolo nella misura in cui sa di non poterlo comprare ma, quando lo ha tra le mani, non lo vuole più.
Quella bambina era in me e io ero quella bambina.
Naufraga tra le onde dell'inesistenza di un amore vero, non potevo liberarmi dell'ossessione di renderlo mio. Non potevo disfarmi della volontà di appartenergli ad ogni costo, combattendo contro il ghiaccio di una indifferenza che mi congelava quando ero con lui e mi bruciava quando non lo era.
Il vizio di un uomo che non riesce a smettere di fumare, che nei momenti di noia tiene tra le dita una sigaretta e non appena la spegne, già percepisce la necessità di accenderne un'altra.
Quell'uomo era in me e io ero quell'uomo.
Quell'amore era in me ma io non l'amavo.


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