Provenza, estate 1936

Villa Collina, nei pressi di Le Baux en Provence, si era nuovamente animata di quel chiasso controllato che solo gli artisti amici di Rosa sapevano produrre.
L'estate del 1936 doveva però rimanere indimenticabile.
Era arrivata la bella stagione e come ogni anno aveva portato con sé caldi odori d'erbe medicinali, lunghe giornate assolate, frutti saporiti e gli amici di mia sorella.
Mio padre stava in giro per il podere tutto il giorno, prevedeva una grande annata per il Bandol ed era impegnato a controllare lo stato di maturazione della sua preziosa uva; se anche non avesse avuto quest'impegno, si sarebbe assentato ugualmente, se non per sfuggire agli artisti, per stare lontano da mio fratello Carlo.
Mia madre si lamentava e gioiva di quest'invasione, innocua solo all'apparenza, che le dava la possibilità di sfiancarsi sui fornelli e dimostrare la propria perizia culinaria.
L'arrivo di Carlo e degli amici di Rosa, per me, ultimo nato della famiglia Collina, era fonte d'ispirazione per le fotografie e causa prima di divertimento.
Il mio era un hobby costoso, ma mio padre se lo poteva permettere e intendeva assecondarlo.
Il primo ospite ad arrivare era, come ogni anno, Claudio; dopo un viaggio in treno periglioso ed estenuante, approdava dalla lontana Rimini a casa nostra, con il suo carico di colori ad olio, pennelli, tele e cavalletti. Lo precedeva un sentore d'acquaragia che, sosteneva la mamma, il simpatico docente d'inglese doveva utilizzare come lozione dopobarba, al fine di tenere alla larga i cani.
L'ormai quarantenne pittore romagnolo, infatti, insegnava l'idioma d'Albione in un liceo privato per mantenersi e tremava come una foglia al vento all'approssimarsi di un cane.
«Animali invadenti e volgari.» Definiva spesso i migliori amici dell'uomo, e proclamava: «Non ho la minima intenzione di fraternizzare con delle bestie che, per prima cosa, quando s'incontrano, si annusano i quarti posteriori.»
Per noi tutti era un vero lavoro tenergli lontano Lenin, il pastore abruzzese che faceva la guardia al podere, il quale pareva avere una sorta di naturale simpatia per il pittore cinofobo.
Qualche giorno dopo Claudio arrivava alla villa Carlo. Carlo era il primogenito di noi fratelli, fonte di gioia per i nostri genitori fino a quando non aveva abbracciato la causa fascista. Da quel momento, pur non essendo stato vittima d'ostracismo, era entrato di diritto nel mirino delle battute caustiche e delle osservazioni di nostro padre che, da vecchio simpatizzante socialista, per quanto facoltoso borghese, aveva dovuto portare la propria famiglia in Francia, dopo la Marcia su Roma.
Puntualmente, Carlo giungeva in villa, scaricava il suo bagaglio e si metteva alla ricerca di Claudio, sapendolo già arrivato; di solito lo trovava alle prese con un paesaggio o una natura morta, si avvicinava di soppiatto e gli assestava una robusta pacca sulla spalla gridando: «Razza romagnola! Razza robusta! Come il nostro Duce!»
Quindi si allontanava sotto lo sguardo costernato del pittore che, in caso di mia presenza, si aggiustava premurosamente gli occhiali, mi fissava dritto negli occhi, e chiedeva conferma: «Ho forse l'aria di essere un bovino?»
Al mio cenno di diniego sbuffava, rantolava leggermente, osservava se attorno non ci fosse, per caso, Rosa, e riprendeva a infierire sulla tela con energiche pennellate.
Giorno dopo giorno arrivavano tutti quanti gli altri. Non erano sempre gli stessi, spesso avevamo delle sorprese, come quella volta che Juan, il poeta catalano, corrispondente di Rosa, si presentò accompagnato da un amico russo: Andrej.
Se Juan era un rumoroso chiacchierone, Andrej era la personificazione del silenzio, salvo quando estraeva la sua lucente fisarmonica. Nel momento in cui lo strumento usciva dalla sua custodia foderata di velluto rosso, gli occhi di Andrej scintillavano, le sue lunghe braccia cingevano la fisarmonica e un rumoroso singhiozzo usciva da quella gola silente.
Un paio di movimenti sinuosi del corpo e la ballata aveva inizio.
Inutile dire che si trattava sempre di canzoni tristissime e tragiche, versi che narravano storie d'amori impossibili e travagliati, che terminavano invariabilmente con il decesso di uno o, meglio ancora, entrambi gli innamorati.
Andrej cantava in russo, Juan traduceva in italiano misto spagnolo, aggiungendo un'enfasi teatrale che rendeva le storie ancora più strazianti; spesso lo spettacolo terminava con l'arrivo di Lenin, attratto dalle sinistre melodie, che si metteva a ululare con tono lugubre, causando la fuga di Claudio, le risa di Carlo e l'ira di Andrej che apostrofava il povero pastore con imprecazioni russe, terminanti, invariabilmente con un: «Dannato cane bolscevico! Tu odi l'arte!»
È superfluo sottolineare come, un po' tutti, fossimo segretamente grati a Lenin per aver interrotto quei lamentosi gorgheggi.
Un'altra presenza costante era quella di Greg e Jemima, coppia di presunti poeti scozzesi, come li definiva mio padre. Costoro, lungi dall'essere sposati, figuravano come tali, a tutto vantaggio di mia madre, che difficilmente avrebbe digerito la loro unione fuori del matrimonio.
Non che mia madre fosse una perbenista, tutt'altro, solo, aveva un'idea ben precisa su come dovevano andare le cose nella vita e quali tappe fossero imprescindibili per poter considerare una cosa come ben fatta.
Greg e Jemima erano dunque conviventi, si aggiravano per l'Europa, sempre ospiti di amici e conoscenti, al fine di: «Conoscere il mondo, per poterne liricamente parlare.» Dicevano loro.
Potevano essere altresì definiti: «Due incorreggibili scrocconi.» Come sosteneva mio padre.
Nell'agosto del 1936 questa colorata combriccola popolava Villa Collina.
Il gruppo poteva essere variabilmente rimpolpato dai frequentatori abituali del podere, maestranze, mezzadri, lavoratori a giornata, che abitavano nelle vicinanze e che, all'occorrenza aiutavano i nostri dipendenti nei lavori di routine più impegnativi. Questa pattuglia di rumorosi contadini si muoveva come una formazione di formiche predatrici, lasciando dietro a sé un corposo sentore d'aglio e tabacco.
Dopo i primi giorni dedicati all'acclimatazione e all'attesa dei ritardatari, Rosa e i suoi amici, si dedicavano, alternativamente, a lunghe sedute di confronto artistico, misto a pettegolezzi sugli assenti, e a progettare - e realizzare - le più stravaganti gite e scampagnate che si potessero immaginare.
Spesso anche io, Carlo e la mamma, li accompagnavamo motivati da obiettivi differenti: io trovavo sempre il modo di scattare qualche buona foto, la mamma poteva tenere d'occhio Rosa, raffreddando gli ardori di eventuali pretendenti non graditi, e Carlo tentava in ogni occasione di dimostrare la superiorità fisica, se non intellettuale, della gioventù italica.
Rimase memorabile la gita che prevedeva di passare un paio di giorni in piena Camargue.
Dopo un'intera giornata passata a fare preparativi partimmo, ognuno con il suo equipaggiamento, come se si fosse trattato di attraversare una remota regione dell'Africa Australe.
Le nostre due vetture si avviarono: davanti la Lancia di papà, guidata da Carlo, trasportava Rosa, la mamma, Jemima e Lenin; seguiva lo sferragliante furgone Citroen, guidato da Juan, al cui fianco sedeva Greg, che trasportava me, Andrej, Claudio e la totalità delle masserizie nell'ampio cassone posteriore.
Papà ci osservò partire, il toscano spento appeso alla bocca e una mano che si grattava la sommità lucida del capo, come faceva ogni volta che era perplesso.
Il viaggio non sarebbe stato lungo se, di comune accordo, non avessimo previsto una tappa a metà strada per un sano spuntino e per permettere a Lenin di espletare le sue funzioni fisiologiche.
Fu così che, adocchiato un uliveto secolare, ci fermammo in un turbinare di polvere impalpabile e scendemmo a preparare la mensa. Per indole e per missione, Carlo cominciò a distribuire incombenze e corvée a tutti i membri della comitiva.
La mamma e le due ragazze raggiunsero un folto cespuglio, dietro al quale sparirono a turno con aria da carbonare che si apprestano a partecipare a un ritrovo di congiurati.
Greg, Juan e Claudio s'imbarcarono nella notevole impresa di erigere una sorta di padiglione con funi, pertiche e tela cerata, per riparare i commensali dal sole.
Lenin ed io ci allontanammo alla chetichella, sapendo che da quel bailamme non sarebbe venuto nulla di buono. Andrej saltellava come un tarantolato, sulle sue gambe da opilionide, e gridava avvertimenti e consigli ai tre amici i quali reagivano, ognuno alla propria maniera. Juan imprecava in spagnolo versando litri di sudore, Claudio, viola in volto, sibilava promesse di non farsi mai più coinvolgere in avventure del genere, mentre Greg aveva rispolverato il suo dialetto scozzese per sottolineare, senza timore di reazioni, l'imperizia altrui.
Le indicazioni imperiose di Carlo sovrastavano questa frenesia, arroventando gli animi.
Il sole alto bruciava il terreno sassoso che riverberava come neve nel mezzogiorno mediterraneo; le cicale accordavano i loro strumenti, offrendoci una sinfonia fragorosa, ora da monte, ora da valle, in base alla mutevolezza del vento.
Dopo mezz'ora di fatiche, imprecazioni e sudore, la tenda era stata fissata e mia madre, accompagnata da Rosa e Jemima, come un'ape regina con le sue ancelle operaie, si era graziosamente accomodata all'ombra e dispensava panini e frutta alla sua corte di accompagnatori.
Claudio, volendo nutrirsi in santa pace, si era chiuso nella Lancia e, assediato da Lenin che ambiva a un pezzo del suo sandwich al prosciutto, aveva lasciato solo un sottile spiraglio nel finestrino.
«Deve essere un caldo da impazzire là dentro.» Sostenne Rosa alzandosi per portargli un bicchiere d'acqua fresca.
«Macché caldo!» Intervenne Carlo. «L'uomo italiano non teme il caldo e se beve, beve vino!» Detto questo uscì dall'ombra del telone, barcollò per un attimo, trafitto dal solleone e raggiunse Claudio nell'abitacolo, brandendo un fiasco di vino paterno.
Attraverso i cristalli dell'auto osservammo incuriositi la pantomima dei due uomini: mio fratello cercava di convincere il pittore a bere un po' del robusto vino di casa Collina, mentre questi si schermiva con gesti nervosi della mano e della testa.
Tutti noi eravamo a conoscenza dell'astemia di Claudio e, da tempo, ce n'eravamo fatti una ragione; solo Carlo continuava a insistere che era solo una questione d'abitudine, e che con un po' di sforzo, anche l'amico insegnante avrebbe imparato a reggere il vino.
Sorprendentemente la ebbe vinta Claudio e Carlo si ritirò in buon ordine, senza commenti, probabilmente già abbastanza contento di essere uscito dall'auto, senza dovere giustificare la breve permanenza.
«Non vuole bere.» Sostenne, tornando, «Dice che non ha sete.»
In realtà il povero pittore, una volta ripartiti, lontano dagli sguardi di Carlo, si attaccò alla fiasca dell'acqua come un pellegrino che abbia attraversato la penisola del Sinai a piedi.
Dopo altre tre ore di macchina e due strade sbagliate ci ritrovammo in riva al mare, alla foce del Rodano. Il sole era alto, il mare, azzurro intenso, era calmo come uno stagno alpino e la spiaggia bassa si stendeva a perdita d'occhio, una sottile lingua di sabbia rossiccia.
Avevamo attraversato una vasta zona punteggiata di cespugli di tamerici che spiccavano con i loro fiori rosa su un mare d'erbe stoppose che mostravano macchie di gialle incensarie e ciuffi violetti di menta selvatica.
Immediatamente dopo il paesaggio si trasformava in una pianura lunare, nella quale ogni oggetto e ogni pianta erano ricoperti da un sottile strato di sale; dopo qualche chilometro ancora incontrammo le candide montagne di prezioso sale che svettavano nel cielo, con un riverbero accecante che impediva di fissarle a lungo.
«Prima o poi dovrò venire a dipingere in questo posto.» Dichiarò Claudio, osservandomi mentre scattavo qualche foto, speranzoso di aver azzeccato diaframma e tempo d'esposizione.
«Dovrai farlo certamente.» Lo incoraggiò Andrej, non senza una punta di ironia, «Così potrai iniziare il tuo periodo bianco. Se non è già cominciato...»
Il sorriso del russo, lo capii con il passare del tempo e con la sopraggiunta malizia d'adulto, sottolineava la presunta inattività sessuale del timido professore riminese.
Claudio scrollò le spalle, bofonchiò qualcosa, poi si rivolse a me, «Dovrai insegnarmi a usare una di quelle macchinette, un giorno o l'altro. Forse saranno davvero loro a soppiantare la pittura tra le arti figurative, e io non intendo farmi trovare impreparato. Ah no, davvero...»
«Con piacere!» Risposi, entusiasta, e mi misi di gran lena a impartirgli i primi rudimenti.
Arrivammo alla spiaggia e tutti quanti c'impegnammo nel montare le tende.
L'idea del campeggio era venuta a Rosa e, nonostante i tentativi profusi da mamma per dissuaderla, cercando di farle valutare la comodità e lo charme di un albergo tipico, l'idea del bivacco aveva preso corpo.
D'altra parte, in quel periodo mia sorella era particolarmente attratta dalla poesia romantica ottocentesca e vedeva nel contatto con la natura la realizzazione dell'ideale arcadico del ritorno alla mitica età dell'oro. La cosa mi faceva sorridere, al pensiero dell'accoglienza che riservava a qualunque essere vivente, non mammifero, che si fosse permesso di entrare nell'ampio raggio della sua sfera vitale.
Rosa era solita pretendere l'eliminazione anche di stupende farfalle multicolori che tutto avevano, fuorché l'aspetto minaccioso o repellente.
«Non è che fanno schifo, guai mai.» Si difendeva dopo l'ennesimo, increscioso, abbattimento, «Solo che sbattono le ali così in fretta, poi volano in modo caotico: non sai mai dove si dirigeranno. Sono così, così... imprevedibili. Ecco, imprevedibili.»
Era del tutto impossibile far entrare in quella poeticissima testolina che le farfalle volano, normalmente; che è nella loro natura e che, normalmente è anche loro interesse non andare a sbattere contro oggetti o persone.
Insomma, la fauna del delta non era a conoscenza del mito dell'Arcadia e, in quei due giorni, si impegnò a dimostrare la propria ignoranza.
Allorché tutte le tende furono montate, la piccola cucina da campo approntata e i bagagli messi al sicuro, ognuno si dedicò alle proprie attività preferite.
Claudio ed io c'inoltrammo tra la vegetazione palustre, alla ricerca di qualche buona inquadratura e di qualche ispirazione poetica; Lenin ci uggiolò dietro finché non ci perse di vista, io non potevo nemmeno pensare di farmi carico del cane di famiglia e dell'amico cinofobo.
Mamma, Jemima e Greg si apprestarono a preparare la cena, mentre Rosa, in preda a un delirio creativo si era ritirata nella sua tenda a scrivere.
Carlo era riuscito a trascinare Juan e Andrej in una spedizione di pesca nei bassi fondali. I tre si allontanarono promettendo una pesca miracolosa, degna di Pietro, brandendo canne, lenze e fiocine, mentre mio fratello mimava il lancio dell'attrezzo mortale al grido di «Soffia! Soffia!» Il pathos era tale che aveva preso anche a claudicare leggermente.
Melville sarebbe stato fiero di lui.
Nell'affrontare la palude Claudio ed io ci muovevamo con circospezione, poiché non volevamo spaventare gli animali. I miei bermuda non correvano pericolo, mentre l'amico pittore si era dovuto rincalzare più volte i pantaloni di cotone, la cui piega era andata perduta irrimediabilmente durante il viaggio in auto.
Sbucammo in un largo specchio d'acqua, libero dalla vegetazione, sul quale si muovevano una miriade di uccelli. Gentili e allampanati fenicotteri rosa solcavano lentamente la radura, dragando con il loro grande becco il fondo limaccioso, alla ricerca di qualche succulento gamberetto; aironi, immobili come statue di porcellana, si spostavano con millimetrici trascinamenti, evitando il procedere ondulante delle avocette.
Altri uccelli acquatici, che non riuscivamo a identificare, facevano da corte a questi principi della palude.
«Incredibile come la natura abbia creato tanta diversità.» Disse sognante Claudio. «Degli uccelli rosa... stupefacente!»
Mentre scattavo qualche foto misi al corrente Claudio delle caratteristiche dei fenicotteri. «Sono rosa perché mangiano un tipo particolare di gamberetto. Se smettono di mangiarlo diventano bianchi.»
Il pittore mi squadrò stranito, valutando se lo stessi prendendo in giro, «Dici davvero, Libero?»
«Certo.»
«Nulla è per sempre come appare.» Sussurrò, parlando più a sé stesso che a me, come se avesse violato chissà quale segreto di madre natura.
Rimanemmo una mezz'ora a rimirare la danza che si andava compiendo davanti ai nostri occhi, prima di accorgerci che si era fatto tardi e che era ora di rientrare.
Arrivammo alle tende e ci sembrò di giungere nei pressi di un ospedale da campo. Acuti lamenti salivano dall'accampamento e un movimento frenetico era già visibile a buona distanza.
Preoccupati e ansiosi, accelerammo il passo fino ad arrivare, quasi scapicollandoci, a osservare la scena che parve subito alquanto comica.
Sdraiati sulle stuoie, Carlo, Juan e Andrej, riverberavano come aragoste appena bollite e borbottavano lamenti che parevano provenire dalle viscere della terra. Attorno ai tre sventurati danzavano premurose mamma, Rosa e Jemima,
indaffarate a fare spugnature, spalmare unguenti e detergere ustioni.
Greg supervisionava la cottura della cena, presentandosi come un buon attendente di campo alla mamma, riferendo tutto quanto stava accadendo tra pentole e fornelli.
Fu subito evidente, dai mozziconi di frase che giungevano fino a noi, che i tre «pescatori» si erano presi una brutta scottatura.
«Che razza d'idea, ragazzi, togliersi la camicia a quest'ora...» Redarguiva la mamma.
«Tutta colpa di Juan, è stato lui a convincermi...» Si difendeva Andrej.
«Non potevamo essere da meno di Carlo, che figura ci facevamo? Che uomini siamo?» Replicava Juan.
«Ecco, appunto, che uomini siamo?» Si lamentava Andrej.
«Io, in ogni caso, sono stato l'ultimo a bruciarmi.» Sosteneva, orgoglioso, mio fratello.
«State zitti! Razza di siocci!» Li sgridava Jemima con il suo accento britannico.
«Ma guardate come vi siete ridotti...» Li rimproverava Rosa, spalmando una crema lenitiva sulla schiena di Carlo, il quale faceva sforzi erculei per evitare di lamentarsi troppo.
Claudio ed io ci guardammo e facemmo una silenziosa sghignazzata, prima di entrare nel cerchio delle tende e palesarci al reparto grandi ustionati.
«Com'è andata la pesca? Non vedo l'ora di mangiare qualcuna delle vostre prede.» Domandai sotto lo sguardo bonariamente arrabbiato della mamma.
«Oh, perbacco!» Esclamò con affettazione Claudio, «Se foste dei pittori, mi verrebbe da dire che siete entrati nel vostro periodo rosso.»
Greg non poté resistere più a lungo e proruppe in una fragorosa risata, dall'altro del paiolo fumante.
«Dimostrare la vostra mascolinità! Si può fare una cosa più stupida, indipendentemente dal sesso, di mettersi a torso nudo, al sole, senza alcuna protezione?» Li rimproverò la mamma, sciacquando per l'ennesima volta il panno delle spugnature.
«Soprattutto voi due!» Aggiunse Rosa all'indirizzo di Andrej e Juan.
Il russo si lamentò, con un uggiolio prolungato che fece alzare le orecchie a Lenin, mentre Juan ricacciò in gola un improperio.
«Ma perché, soprattutto loro due? Che hanno loro due di più mascolino?»
S'inalberò Carlo.
«Proprio nulla da dimostrare, vista la loro relazione!» Sbottò Rosa.
Fu come se qualcuno avesse adagiato un panno ovattato sull'intero delta del Rodano; anche gli animali della laguna si zittirono e le onde risalirono per un attimo, con lentezza e senza schiuma, sulla fine sabbia della spiaggia.
La mamma si voltò attorno, scrutando i nostri visi con aria sospettosa; Carlo si era sollevato in ginocchio, sfidando l'aggrinzirsi della pelle arrossata.
Noi tutti ci guardavamo l'uno con l'altro, senza proferire parola.
«Ma smettila con tutte queste sciocchezze, Rosa. Non prenderti gioco di questi ragazzi che stanno soffrendo!» Intervenne con prontezza Claudio, volgendo in scherzo una situazione che stava per diventare spinosa.
Tutti tirarono un forte sospiro di sollievo all'allentarsi della tensione, compresa la natura circostante. Claudio, con notevole prontezza di spirito, aveva risolto l'imbarazzante siparietto creato da mia sorella.
Se solo la mamma avesse subodorato che Andrej e Juan avevano una relazione omosessuale, avrebbe faticato non poco a mantenere inalterati i rapporti con i due simpatici artisti; per non parlare di Carlo.
Non che la mamma fosse una perbenista bacchettona... beh, forse, in effetti, su quest'argomento un po' lo era.
Curati gli ustionati e gustata la cena che era stata preparata da Greg, con la decisiva supervisione di mamma, ci apprestammo a goderci una fantastica serata in riva al mare. Il cielo stava assumendo il colore delle ali di un martin pescatore, mentre il mare, incredibilmente calmo, scintillava di blu e di verde nonostante l'acqua non proprio limpida a causa del delta.
Io potei sgranocchiare il croccante che ci portavamo sempre appresso in occasioni del genere, mentre tutti gli altri si approvvigionavano da un'anonima fiaschetta che conteneva la grappa prodotta da mio padre.
Comparve un pacchetto di sigarette inglesi che fu lasciato a disposizione di tutti, accanto alla grappa, e ben presto dal nostro accampamento si levarono sottili nubi di fumo, come segnali di pellirosse.
Le braci delle sigarette s'illuminavano nella sera che calava veloce, mentre la conversazione, incontrollabile, imboccava strade sconosciute e imprevedibili.
«Marcel mi ha scritto da Parigi.» Iniziò Rosa, sfoggiando la sua rete di conoscenze come un pavone la sua ruota, «Ha detto che il tempo è brutto e quindi l'ideale per le sue poesie uggiose.»
«Ottimo! Speriamo anche in un nubifragio che gli impedisca di uscire a recitarle ad alta voce nei parchi pubblici.» Commentò Juan sogghignando.
«Altrimenti potrebbe leggerle ad Agate. Sicuramente potrebbero spingere la nostra amica bavarese a compiere il passo fatale che ci promette nelle sue composizioni ormai da cinque anni!» Aggiunse Andrej.
Greg sbuffò, «Non parlatemi di tempo brutto o inizio anch'io a scrivere sonetti drammatici. Sono fuggito dall'Inghilterra per trovare il sole e il buonumore.»
«Se leggi una poesia di Marcel, ti passa il buonumore! Altroché clima britannico.»
«Ho letto meraviglie dei nuovi colori a olio della Winsor & Newton: pare abbia messo in vendita una nuova gamma di pigmenti ed essiccanti davvero fantastica.»
Claudio interruppe il pettegolezzo come un diamante taglia il vetro.
Si voltarono tutti nella sua direzione, sconcertati dal suo intervento.
«Ma che c'entra con il discorso sulla poesia?» Domandò Jemima.
Claudio si guardò la punta dei piedi, espirò una boccata di fumo, «Solo che non mi trovo a mio agio con tutti questi pettegolezzi. Un conto è criticare, va bene anche burlarsi di qualcuno, se è presente. Ma prima di gettare la prima pietra, meglio guardare la trave che abbiamo nel nostro occhio.»
Ci fu un silenzio imbarazzato che fu rotto dall'intervento di mio fratello:
«Cos'è? Una citazione dalla Rivista del Muratore?»
Tutti quanti esplosero in una fragorosa risata, alla quale si unì Lenin con un portentoso ululato che fece sobbalzare il nostro amico pittore.
La chiacchierata riprese, rimanendo su toni leggeri e farseschi.
Solo io mi accorsi che Rosa si era avvicinata a Claudio e gli aveva sussurrato qualcosa all'orecchio. Credo che la loro storia d'amore sia iniziata in quel momento.
Sì, fu un'estate fantastica quella del 1936.
Fu fantastica anche perché fu l'ultima: la storia incombeva con le sue brutture e le sue tragedie.
Juan e Andrej, pochi mesi dopo partirono per la Spagna, si arruolarono nelle file repubblicane, richiamati dal mito della bella morte. Morte che trovarono in novembre, a Madrid, sotto le bombe della Legione Condor; una morte davvero poco bella.
Jemima e Greg si sposarono prima di partire per l'India, dove diedero il loro aiuto in un campo profughi finché il fisico li sorresse, per cedere infine al tifo.
Carlo partì volontario per l'Africa Settentrionale e, preso prigioniero nel 1942 ad El Alamein, non tornò. Ci fu comunicato dalla Croce Rossa che si trovava a bordo del Laconia quando la nave fu silurata nei pressi dell'isola d'Ascensione nel settembre del '42. Fu una brutta storia che segnò profondamente i miei genitori.
Io? Io scatto ancora foto e giro il mondo rubando momenti alle vite altrui.

Ora smetto di scrivere.
Fuori nevica, in questo Natale anni ottanta. L'ennesimo Lenin sonnecchia vicino ai miei piedi e dovrò tenerlo lontano da Claudio che, seduto dall'altra parte del tavolo, nonostante l'età, non ha ancora superato la paura dei cani.
Nipoti e pronipoti, abbandonata la televisione, mi stanno chiamando a gran voce: Rosa sta portando i tortellini in tavola, aiutata dalla figlia.
Sopra la mensola del camino, una foto di gruppo scattata nell'estate del 1936 mostra visi sorridenti e una splendida, assolata, Camargue; osservo la stampa con occhio critico e riconosco il talento non ancora del tutto espresso, poi, andando verso la sala da pranzo, borbotto: «Ci sapevo già fare, con l'obiettivo... fin dal '36.»


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