Ministri, sottosegretari e portaborse cominciarono ad affluire verso le undici del mattino nel salone dei Cherubini - così chiamato per gli angioletti in rilievo della boiserie - dopo essersi lasciati perquisire da due uscieri, in un cicaleggio di "carissimo", "amico mio", "caro collega". Subivano questo piccolo affronto con bonarietà, sia perché non escludeva nessuno, sia perché si sentivano tutti più sicuri. Prima che fosse stato deciso, per accordo unanime, di far perquisire i partecipanti, più di una riunione, infatti, aveva dato luogo a risse cruente. Come di consueto le rivoltelline in argento, i pugni di ferro e i nuovissimi tagliacarte a serramanico vennero deposti sulle consolles dorate. Il ministro alla Difesa Onorio Brandoni, claudicante dalla nascita, destò grande interesse con il nuovo bastone animato, la cui lama di novanta centimetri portava inciso l'atto di contrizione. Si dovette insistere prima che accettasse di separarsene e lo fece solo dopo che l'onorevole Spanò ebbe lasciato il cane lupo alle cure di un commesso. Raggiunto l'accordo i due si baciarono sulle guance ed entrarono nella sala a braccetto, facendo sospettare, a molti convenuti, qualche patto segreto.
Venerio Bertini, presidente del Consiglio, alto e corpulento, si accertò, con un lento ed esibito girar della testa, che tutti fossero al loro posto. Sedette lui stesso, tossì, si raschiò la gola, estrasse un fazzoletto bianco dal taschino, lo spiegò con cura e ci sputò. Guardò con attenzione l'espettorato, ripiegò accuratamente il fazzoletto e prima di riporlo ci si appannò le mani. Si versò un bicchiere da una bottiglia d'acqua minerale che tutti sapevano piena di vino bianco, si sciacquò la bocca, deglutì e dichiarò aperta la riunione. I presenti si assestarono meglio nelle sedie e si accinsero a combattere il torpore che in breve avrebbe appesantito i loro occhi. Di regola il presidente parlava con voce lenta e pacata, interrotta da frequenti pause. Credeva che quel tono di voce fosse più autorevole e che le pause accentuassero l'aspettativa, ma quasi sempre il suo eloquio aveva un effetto soporifero.
«Amici e colleghi carissimi, la fase che stiamo attraversando non è facile, ne siamo tutti consapevoli, nevvero. Minaccia una politica condivisa e maturata lungo alcuni lustri, nevvero, efficace nella sua continuità innovativa. Oggi ci troviamo a dover affrontare, se posso usare un verbo così forte, qualche discordia, qualche incomprensione reciproca, nevvero. O forse sarebbe meglio dire qualche caduta di concordia, qualche sfasamento di parallasse nell'ottica dell'intercomprensione. Oso affermare, nevvero, che ritengo indispensabile, a mio giudizio, come spero lo riteniate anche voi, che questa unione momentaneamente imperfetta, pericolosamente contigua a ciò che potremmo chiamare disunione, nevvero, torni a diventare unione e che, rinnovata, non si disunisca. È d'uopo che asperità operative concorrenziali e inquinanti vengano smussate, onde rilanciare una politica comune nella quale la lealtà faccia aggio sulle pur legittime aspirazioni competitive di tutti noi, nevvero.»
Si raschiò la gola, sputò nel fazzoletto, scrutò il risultato, rimise il fazzoletto nel taschino e gettò sugli astanti uno sguardo che voleva fosse paternamente severo.
L'argomento affrontato era scottante, tanto che l'introduzione non aveva avuto il consueto effetto soporifero. Prima che il presidente potesse riprendere intervenne con irruenza il ministro alla Difesa, Onorio Brandoni, che fino a quel momento aveva manifestato la sua impazienza facendo saltellare la gamba difettosa.
«Caro, carissimo Venerio, ma quali asperità concorrenziali dei miei coglioni. Qui si tratta di provocazioni volute. Accordi violati, accuse sui giornali, linciaggio morale mio e degli amici che rappresento. Vere pugnalate alla schiena. Ma stai attento Venerio carissimo. Il vostro è autolesionismo, cupio dissolvi. Distruggete noi e distruggerete tutto. Se volete questo, ebbene, muoia Sansone con quel che segue.»
Mentre Brandoni parlava il presidente aveva ascoltato con apparente pazienza. Teneva verticalmente tra le dita una matita e ne appoggiava alternativamente le estremità sul piano del tavolo. Diceva che gli serviva per restare calmo ma non si erano mai avute prove convincenti che l'esercizio fosse efficace. Dopo una breve pausa di silenzio, durante la quale i convenuti più esperti si erano guardati con qualche ammiccamento anticipatorio, Bertini strinse la matita tra le mani e la spezzò. Si alzò, sedette, si alzò ancora e accompagnandosi con grandi manate sul tavolo si mise a gridare che non sopportava le interruzioni, che Brandoni aveva la mania di persecuzione, che lui era stanco: se non lo volevano più poteva dimettersi e tornare a fare il professore. Parlava spesso di questa possibilità come se gli conferisse l'alone di un invidiabile prestigio accademico, ma tutti sapevano che, prima di entrare in politica, aveva solo insegnato stenografia in una scuola privata.
Come al solito intervenne a calmarlo il ministro agl'Interni, onorevole Arturo Candiani, soprannominato il Reverendo. Ex-gesuita aveva conservato nell'aspetto e nel modo di fare alcune caratteristiche dell'uomo di chiesa. Di diritto sedeva alla destra del Presidente ed anche per questo era il primo che cercava di placarne gli scatti d'ira durante le riunioni, il che gli aveva meritato un secondo soprannome: Sedativo.
«Su, su, Venerio, non fare così gli disse pacatamente, spingendolo a sedersi con un'affettuosa ma ferma pressione su una spalla - Non potremmo mai sostituirti. Tu sai com'è impulsivo il nostro Onorio, ma sono certo che nelle sue parole non c'era niente di personale. Venierone, non fare il coglione» aggiunse sottovoce affinché gli altri non sentissero.
L'autorità che emanava dal Reverendo, alto, magro, vestito di nero, strabico in modo sconvolgente, e la consapevolezza del potere che aveva nel partito, ammansirono come sempre il presidente del consiglio che si rimise seduto. Per riacquistare la voluta pacatezza celebrò nuovamente il rito dello sputo nel fazzoletto bianco, poi riprese il discorso: «Una diagnosi approfondita della situazione non può prescindere, nevvero, dalle posizioni fondamentali che mi accingo a rimarcare, espresse dai gruppi che sostengono il mio, cioè il nostro governo. E cioè: posizioni comuni uguali, posizioni comuni diverse, posizioni differenziate ma convergenti, posizioni analoghe divaricanti ma compatibili, e posizioni obiettanti che talora si appalesano come critiche irriducibili.»
«Caro Venerione, ormai dovresti sapere che d'irriducibile non c'è niente, almeno per chi ha le palle» osservò il ministro alla Giustizia Antonio Spanò, fino a quel momento rimasto con il testone chinato sulla pancia intento a pulirsi le unghie con un puntale d'avorio. Sollevò la testa e si eresse un po' sulla poltrona; l'addome, risvegliato dal movimento, generò un gorgoglio che espandendosi e salendo per le viscere sfogò in un rutto mal soffocato. Prima di ogni seduta Spanò faceva colazione (o merenda se era pomeriggio) alla bouvette del palazzo con due panini al burro e un gran caffellatte; quasi sempre, per la voracità e la fretta, il tutto gli si bloccava a mezza strada e riprendeva a scendere rumorosamente qualche tempo dopo, ad ogni movimento.
Profittando di un accesso di tosse del presidente, il ministro Spanò proseguì. «Le carceri ci sono, i tribunali anche. Fino ad ora non ne abbiamo approfittato. Siamo stati fin troppo liberali, direi quasi magnanimi. Non abbiamo chiesto né processi né condanne. Eppure molte delle azioni contro di noi si possono perseguire penalmente. Forse è arrivato il momento di farlo.» Poi, mentre con il puntale passava ad esplorare gli interstizi dei denti, reclinò la testa sul ventre e si riassestò sulla poltrona, producendo rumor di risucchi e sfiati.
L'intervento del ministro alla Giustizia irritò ancora l'onorevole Brandoni. «Ma quali palle, io palle ne ho da regalare, caro Spanò carissimo ed eminentissimo giustiziere nostro. Ma sapete benissimo che processi e condanne sono come le ciliege. Una tira l'altra. Comincia così e vedrai dove andremo a finire tutti. Sono stato anni al tuo posto e conosco perfettamente il compito della giustizia, come lo conoscete voi. Tenere in sospensiva, sempre in sospensiva. Mai far cadere neppure una pietruzza. Tocca la pietruzza ed è la frana. È passata da tempo la dottrina della giustizia attiva. La vera giustizia, quella che serve a salvaguardare la nostra civile convivenza, deve essere sospensiva, una stalattite, un blocco di marmo, un sistema di controforze in dinamica immobilità come direbbe il presidente. Perciò non farti venire idee stravaganti. Tu potrai disporre dei processi, ma credi che il ministro alla Difesa non abbia qualcosa anche lui?»
Il presidente del Consiglio, irritato dal consueto riferimento metaforico alla sua mancanza di coraggio, si riprese la parola e urlò, impaperandosi: «Fottuti cazzoni, parlatemi lasciare!» Al contempo afferrò il martello per i richiami e avventò un colpo feroce assai vicino alla mano del ministro alla Difesa. Brandoni lo schivò scartando sulla sedia ma la gamba difettosa lo tradì. La spinta del suo peso, mal distribuita, fece rovesciare la sedia e cadendo il ministro, batté la testa contro uno dei cherubini che sporgevano da una cassapanca in noce. Rimase intontito per qualche secondo, poi si rialzò a fatica, aiutato dal ministro alla Sanità, un anziano pediatra radiato dall'albo per violenza a pazienti minori. Temendo di finire in galera, l'onorevole Alvaro Bianchi era passato dalla cura dei malati alla politica, dove, benché balbuziente, aveva fatto strada. Raggiunta la sua prima meta, l'immunità parlamentare, aveva profittato di un periodo nel quale si auspicavano ministri competenti nelle materie dei loro dicasteri (o tecnici) come dicevano alcuni) e non aveva più abbandonato quella poltrona.
Aiutò Brandoni a sistemarsi nuovamente sulla poltrona, gli raccolse il bastone e rassettò la giacca. L'intontimento pareva passato ma il ministro alla Difesa aveva cominciato a inveire e lamentarsi con un filo di voce «O povero me, povero me, maledetti, mi volete ammazzare» . Per un poco seguitò a borbottare sottovoce, poi tacque.
« Ma signori, amici, colleghi, vi prego» esortò a voce più alta del solito il funereo ministro agli Interni, battendo sul tavolo un crocifisso dal quale non si separava mai. Piuttosto pesante, ricavato dal metallo di un obice, era un ricordo del servizio prestato come cappellano militare ed a rigore avrebbe dovuto lasciarlo all'ingresso perché poteva essere usato come arma. Le estremità del braccio trasversale della croce erano acuminate e in qualche raro accesso d'ira il Reverendo, battendolo sul tavolo come un martello, le aveva infitte nel legno. Mai nessuno, però, aveva osato contestargli il diritto di tenersi quel sacro ricordo anche durante le riunioni più delicate. «Fratelli miei, amici carissimi» proseguì; date ascolto al nostro Venerio. Sapete bene che il momento è difficile. Noi che portiamo il peso e gli onori siamo invidiati e contestati come se portassimo solo gli onori. Lo sapete bene quanto me. Anche all'interno dei gruppi un tempo più omogenei latet anguis in erba, si annida ora la serpe dell'invidia, pur se coperta dalla più nobile pelle del dissenso. Persino gli alleati di Rinnovamento, massimamente affidabili e cauti, sussurrano di volere qualche rimpastino, qualche innovazione.
«È dallo scorso inverno che cercano di fottere il governo» interloquì l'onorevole Romitelli, ravviandosi i capelli che portava molto lunghi. Si dilettava di scrivere poesie che pubblicava a spese del ministero, e aveva il vezzo o il vizio di parlare in versi. «Non ho mai problemi d'ispirazione» spiegava; «ma talvolta mi accorgo che ho difficoltà nel trovare le rime. Ecco perché cerco di mantenermi in allenamento continuo».
«Allora parlate voi, se non volete ascoltare il presidente del consiglio, parlate voi» strepitò Bertini «Resto qui, nevvero, solo perché è mio dovere, nevvero.» Poi, rivolgendosi al Reverendo, «Ti prego Arturo, spiega tu, chiarisci. Ricorda a tutti qual è la situazione, nevvero, se non l'avessero capito. Non voglio perdere ancora la calma, nevvero. Il medico mi ha detto più volte che la mia salute non lo permette».

Tutti sapevano che la perdita della calma e la salute erano un alibi, perché, quando si trovava in difficoltà, il presidente preferiva che parlasse il Reverendo.
Questi si concentrò brevemente, chiudendo gli occhi e poggiando la fronte sulla punta delle dita, sempre guantate di nero per un eczema che risaliva agli anni di seminario. Poi si alzò e, girando lentamente la testa a destra e a sinistra gettò d'intorno un'occhiata che forse avrebbe dovuto essere severa ma che ebbe di certo il solito effetto sconcertante a causa della spiccata convergenza delle pupille.
«Vulgare amici nomen, sed rara est fides, così Fedro immortale ci ricorda che molti si dichiarano amici ma che la fedeltà è rara. E se coloro che si dichiarano amici ci contestano e talora calunniano, sì, devo usare proprio questa parola, come potremo resistere ai nemici? Gli effetti di questo corrodere le mura da dentro e percuoterle dall'esterno sono già evidenti. Ecco una prova, un esempio di quanto si stia indebolendo l'autorità di cui godiamo, quella soggezione che la gente ha, che deve assolutamente avere, nei nostri confronti. Non più di due giorni fa, entrando al ministero, proprio al mio ministero in cui disciplina e rispetto dovrebbero essere intrinseci, ebbene, il guardaportone di servizio, che stava mangiando che so io, qualche cosa, qualche sciocchezza...» - «Focaccette farcite, focaccette farcite, sempre focaccette mangiano le tue guardie...» suggerì il ministro alla Giustizia.
«...Ebbene, non solo non ha smesso di mangiare, non solo non ha dato il minimo segno d'imbarazzo, ma animus meminisse horret, ha finto di non vedermi. Questo episodio, se pensiamo a cosa la mia pur modesta persona rappresenta, denuncia il disfacimento verso il quale sta andando il nostro prestigio, cioè il nostro potere. Ma longius progredior con l'elenco dei segni nefasti.» Il ministro s'interruppe per sfilarsi un guanto e grattarsi la mano contro lo spigolo del tavolo. La tensione lo aveva accaldato, aumentandogli il prurito, come accadeva sempre. E come sempre per il prurito e la preoccupazione le pupille gli erano quasi scomparse alla radice del naso. «Dopo avermi ascoltato, se conservate ancora un po' di buon senso non potrete non rendervi conto che dobbiamo assolutamente risalire la china. Non possiamo andare avanti in questo modo se non vogliamo andare indietro. Iam proximus ardet Ucalegon, come disse il divino Virgilio. Gli Ucalegoni che bruciano sono molti e sempre più vicini.»

A quel nome, per un attimo, l'attenzione dei presenti si pietrificò, poi si frantumò in molteplici segni di nervosismo. Apparvero cornetti di varia foggia e misura e chi ne era privo fece i suoi scongiuri secondo la scuola d'appartenenza. Il grosso ministro alla Giustizia si afferrò ostentatamente il cavallo dei pantaloni senza rinunciare a far le corna con la mano libera, il sottosegretario all'Istruzione fece tre giri intorno alla poltrona, mentre il suo ministro si toccava la capsula d'acciaio che gli ricopriva un molare.
Il presidente Bertini ebbe un soprassalto.
«Ma Arturo, vergine santissima, te lo abbiamo detto tante volte, nevvero. Facci la grazia di smettere con questo nome nefasto. Ogni volta che citi quel maledetto incendio succede qualche disgrazia, nevvero.»
«Fin dalla prima volta, quando ammazzarono due funzionari del tuo ministero. E la morte del povero segretario di Onestà Liberale? Era tra noi quando gli dicesti che stesse attento al suo, eccetera eccetera. E nello stesso pomeriggio il povero Martini si sparava. Pochi mesi fa la disgrazia dei portalettere. Ti ricordi? Tre padri di famiglia che andavano a distribuire il materiale per la propaganda elettorale di Romitelli. Finirono in un burrone, l'auto prese fuoco e non riuscimmo a recuperare neppure i pacchi di volantini. Pro-prio il giorno prima, lo rammentiamo tutti, avevi detto che, eccetera eccetera, brucerà quando meno ce lo aspettiamo.»
«Ormai lo dovresti sapere che porta male, nevvero. O lo fai apposta?»
«La capacità di portare sfortuna, caro Bertini, sarebbe una delle mie più grandi soddisfazioni. Se avessi la malasorte al mio servizio, certamente non avremmo più nemici» replicò il ministro agli Interni dopo essersi versato un bicchiere di bianco dalla bottiglia presidenziale «Ma non cadiamo negli infantilismi. Purtroppo sappiamo che quelle sciagure sono state provocate da qualche amico in occasionale disaccordo con noi. Non virtute hostium sed amicorum perfidia decidi, ebbe a dire Cornelio Nipote.
Nel nostro realismo, anzi, nel nostro pragmatismo, anzi, nel nostro laicismo pragmatico, o pragmatismo laico, sempre, beninteso, nel significato politico del termine, convinti che la politica debba essere realpolitik o non essere, siamo giunti a violare gli accordi presi tra noi, a ignorare i pegni concessi e i vincoli imposti dalle convenienze reciproche. Con le nostre contese, i tranelli, le rivelazioni, stiamo rendendo l'uso del nostro potere e il controllo di quello altrui sempre meno solidi.
Anche la gente comune se n'è resa conto. Prima o poi perderà perfino quell'ammirazione per la nostra accortezza che ci ha aiutato così tanto a farci rispettare. La nostra immagine sta diventando insignificante, mediocre, una schifezza.
Anni fa nessuno avrebbe osato sparlare di noi, e, soprattutto, non saremmo mai venuti a saperlo. Ecco, invece, un elenco di certe nostre debolezze che ormai sono sulla bocca di tutti. Esse mi vengono riferite non con il rispetto e la fredda oggettività di chi ha il dovere d'informarmi, ma con l'impudenza di chi gode nel citarle e magari nel colorirle.
L'amico Romitelli, ministro alle Poste e Telegrafi, è chiamato Rima Baciata. Macelloni è accusato urbi et orbi di avere i piedi così olezzanti che nel bilancio del suo ministero esiste la voce 'sali profumati e talco per il signor ministro'. Nei soliti circoli giurano che è stato nominato ministro all'Agricoltura e Foreste perché in quella funzione partecipa a manifestazioni che si tengono più spesso all'aperto.
Il presidente del consiglio è noto soprattutto per il continuo scatarrio, tanto che a Roma lo chiamano Spurgo-Nevvero.»
«E te ti chiamano Malocchio, nevvero, lo Sciupasuore, nevvero, il Guercio Proibito...» gridò il presidente battendo un colpo sul tavolo ad ogni soprannome. Tutto poteva sopportare dal Reverendo meno che di essere messo alla berlina pubblicamente.
«Ed anche il Reveprendo, Dio, Patria e Fanghiglia, la minchia di Dio, Eczema agl'Interni» proseguì Spanò, dopo un gorgoglio premonitore e una risata fragorosa.
«Tu stai zitto perché non ti ho ancora nominato, Rubasigilli, Rutto di Stato, Trippa e Pandette.... Ma non arrabbiamoci, amici carissimi, restiamo calmi. Parlo per il bene comune, me lo hai chiesto tu, caro presidente. Se avete paura della verità non si commetta al mar chi teme il vento, come dice Metastasio.
Tornando all'oggetto del mio discorso, vorrei farvi capire come il fatto che certe debolezze siano motivo di pubblico ludibrio, è gravissimo. Vuol dire che il popolo ha perso il rispetto, non ci teme più. Allora prevedo il peggio. E non si tratta certo di dover sopportare che qualcuno seguiti a mangiare la sua pizza invece di salutare. Sapete bene a cosa alludo, anche se non osate parlarne.
Eppure lo conoscete l'assillo, ma che dico assillo, l'incubo, il vero incubo che ci opprime sempre di più, via via che ci avviciniamo ai nuovi conteggi. Non vorrete farmi credere che l'immagine orrenda della sconfitta assalga soltanto me, il ministro Arturo Candiani. Io, che pure ho lo spirito più forte e la più serena fede nella Provvidenza? Non capita forse a tutti voi che la notte, quando le vostre difese sono indebolite dal sonno incipiente, quest'incubo si svegli dentro di voi, vi assilli, vi faccia rivoltare nel letto sudati, con il respiro affannoso e il cuore palpitante? Non è per voi un incubo sconvolgente la vittoria degli altri ai prossimi conteggi? Non lo sapete anche voi che se gli altri vincono noi non serviremo più, diverremo inutili e in quanto inutili il potere ci verrà sottratto in mille modi, subdoli o espliciti, tutto insieme o gradualmente, a poco a poco, finché, comunque, non ne conserveremo più un granello. Non avremo più deleghe né mandati. Perderemo l'autorità, il prestigio, il denaro, e forse anche la sicurezza fisica.»
Il Reverendo, che nella concitazione aveva dimenticato i detti latini, s'interruppe con un singulto. Con gli occhi storti e la persona funerea sembrava un profeta di sventura ma anche il risultato in anticipo della medesima.
Richiamati così crudamente a un'eventualità che cercavano d'esorcizzare non parlandone mai, ministri, sottosegretari e portaborse, tetri in volto e quasi afflosciati nelle poltrone non avevano neppure abbastanza spirito per gli scongiuri di routine .Il ministro alla Difesa aveva reclinato la testa tra le braccia e respirava affannosamente. Un silenzio di tomba era sceso nella sala. Si udiva soltanto l'ansimare del ministro e il «toc, toc, toc» provocato dalla sua gamba difettosa che, saltellando, faceva battere il piede sul pavimento. Nel silenzio quel rumore sembrava rimbombare e il respiro pareva sempre più simile a un rantolo. L'attenzione di tutti si rivolse verso di lui e un commesso gli si avvicinò. Onorio Brandoni aveva smesso di agitarsi ma non aveva sollevato la testa dal tavolo, e quando gli venne chiesto se desiderava qualcosa non rispose. Pensando che si fosse addormentato, il commesso lo scosse delicatamente e la testa del ministro si piegò da un lato, mostrando un filo di sangue che gli colava da un'orecchia. Il ministro alla Sanità ed altri accorsero, lo chiamarono, lo scossero, gli slacciarono la cravatta, lo trasportarono su un divano, ma s'accorsero presto che non c'era niente da fare: Brandoni era morto. Cadendo dalla sedia per schivare la martellata del presidente si era spaccato il cranio contro un cherubino di noce.
Imprecazioni, invocazioni e qualche bestemmia palesarono il disappunto dei convenuti per un evento così inopportuno. Il senatore Dimaggio, vicesegretario alla zootecnia, di solito pacato e tollerante, si scagliò contro l'onorevole Candiani, gridando quello che quasi tutti pensavano: «Maledetto cacasentense, te lo avevamo detto che portavi male con quel nefasto incendio. Non fallisci un colpo! Per ora è toccato a Brandoni. E speriamo che basti.»
«Il peggio è che nessuno crederà alla sfortuna, a un caso disgraziato. Diranno che l'abbiamo ammazzato per rimettere il ministero sul mercato» recriminò il ministro delle Poste e Telecomunicazioni. Come poeta Romitelli si vantava di avere una grande capacità d'intuizione e questa volta l'intuizione era convincente. Il suo timore s'impossessò rapidamente dei colleghi provocando un ribollire di frasi ed esclamazioni preoccupate: Oh mio dio! Diranno che siamo assassini. Ci voleva anche questa. Maledetto zoppo, era meglio se cadeva per strada.
In piedi, leggermente curvo, con le mani appoggiate sul tavolo quasi a sorreggersi, il Reverendo aveva smesso di parlare, e attendeva che il suo silenzio si trasmettesse ai convenuti. Tutti sapevano che soltanto lui avrebbe potuto valutare nel modo migliore l'incidente e suggerire la via per uscire da una situazione così imbarazzante. Così i commenti cessarono lentamente, finché nella sala non si udì che un ultimo colpo di tosse del presidente.
L'onorevole Candiani, si raddrizzò e guardò i colleghi con gli occhi ancora più guerci, poi prese a parlare.
«Se vogliamo analizzare questo inaspettato e non sollecitato evento con la freddezza e l'equilibrio di cui siamo capaci quando abbandoniamo contrasti e rancori, dobbiamo valutarlo secondo due criteri diversi ma entrambi giustificati, anzi doverosi» disse con voce suadente, anche se la frenesia con la quale si grattava la mano guantata con il crocefisso tradiva preoccupazione e nervosismo.
«Come colleghi e amici del defunto l'incidente non può che addolorarci, anche se spesso le sue osservazioni erano pregne di un'acidità nei nostri confronti che le rendeva ingiuste e sgradevoli. Ed è altrettanto vero che, per quanto riguarda la nostra immagine, dovremmo considerare assai inopportuno che il triste evento sia accaduto proprio in questa sede.»
«Se l'amico presidente riflettesse di più e martellasse di meno,» proseguì «non ci saremmo trovati in un frangente così spigoloso. D'altro canto, ricordando i problemi sorti con l'onorevole Brandoni e le reciproche incomprensioni, direi che il destino e la divina provvidenza ci sono stati amici. Potrei addirittura avventurarmi a dire, caro Venerio, divino ausilio percutisti.. Con ragionevole ottimismo potremmo dire che si è trattato di un colpo fortunato, che Dio ci perdoni. Non sembra anche a te Venerio?»
Rassicurato dalle considerazioni lusinghiere sulla martellata, il presidente riprese coraggio. Si alzò, fissò i colleghi con sguardo che riteneva severo, sputò nel fazzoletto, lo piegò accuratamente e lo rimise nel taschino.
«Sono in pieno accordo con l'amico Candiani. Questa disgrazia del tutto casuale, nevvero, ha anche qualche aspetto positivo» disse. «Tuttavia» proseguì «ci troviamo con un problema in più, nevvero, quello della sostituzione, magari di un interim. Data la difficoltà per trovare una soluzione in concordia e lo stato d'animo di tutti noi, nevvero, per il momento, credo preferibile sospendere brevemente la seduta. Qualcuno di noi ama il tressette col morto» aggiunse, ammiccando al ministro Macelloni, appassionato giocatore - ma non sia mai detto che si tenga una verifica col morto, nevvero. E si concesse una risatina.

***

La riunione venne sospesa. I commessi portarono il cadavere nella cappella del palazzo, mentre funzionari e segretari si dedicarono ad assolvere le formalità necessarie per passare in giudicato il decesso. Ministri e sottosegretari colsero l'occasione per appartarsi in conversazioni informali, per un caffè, per servirsi dei gabinetti.
Mezz'ora dopo, tutti, meno uno, prendevano nuovamente posto intorno al tavolo. Adempiuti i consueti raschiamenti di gola e nettati gli occhiali con la cravatta, essendo ormai inutilizzabile il fazzoletto, il presidente riprese la parola.
«Il ministero del povero Brandoni è troppo importante per non riassegnarlo al più presto, nevvero. È facile prevedere pressioni anche dall'opposizione e da chi la sostiene, affinché il decesso del titolare non freni quell'importante volano economico, nevvero.
Converrà scegliere un amico che dia garanzie innanzitutto a noi, ma anche alle controparti. Non mi sembra facile, nevvero. Penso che individuare fuori dal nostro gruppo una persona sulla quale concordare prenderebbe molto tempo. Pertanto, considerata la mia attuale posizione, senza falsa modestia, nevvero, e nello spirito di servizio cui sono sempre stato fedele. potrei assumere io stesso un interim così impegnativo, nevvero. Propongo di non perdere giorni preziosi in defatiganti ricerche, ma di mettere subito ai voti la proposta: 'Il presidente del consiglio dei ministri assume ad interim la carica di ministro alla Difesa, lasciata inopinatamente e tragicamente vacante dal molto rimpianto onorevole ministro Onorio Brandoni'.»
Con movimento lento e autorevole Candiani sollevò una mano per chiedere la parola. «Caro presidente, forse quello che dirò potrà dispiacerti ma amicus Plato sed magis amica veritas. Innanzi tutto mi sembra di avere più titolo di te a ricoprire l'incarico alla Difesa. Per due anni sono stato ordinario militare, mentre tu eri nella sussistenza e sei divenuto a fatica caporalmaggiore. Per di più ti sei fatto anche un po' di prigione per aver dirottato tre carri di fieno del Terzo Lancieri di Verona alle vacche del tuo futuro suocero. Fosti così sprovveduto da farti pescare subito. Figurati se riusciresti a cavartela in un ministero tanto delicato. Quando qualche amico deve dare un giudizio su di te, dice che sei fedele. Soltanto fedele. E nessuno aggiunge niente di più. Caro Venerio, è per questo che ti abbiamo fatto nominare presidente del consiglio. Perciò presiedi e lasciaci lavorare.»
Gli occhi di Candiani, saettanti nelle direzioni più inaspettate, confusero talmente Bertini che dimenticò di reagire con la dovuta indignazione. Ci fu un momento in cui credette addirittura che il Reverendo parlasse ad un altro e voltò la testa per vedere a chi si rivolgeva. Molte volte l'ex-gesuita era riuscito a far passare delle mozioni confondendo gli oppositori con le sue acrobazie oculari. Il ministro alla Giustizia, che stava sbocconcellando una brioche, approfittò del momento di silenzio. Finì di trangugiare, si protese sulla tavola facendo violenza all'ingombro della pancia, gorgogliò, sfiatò e con voce rauca: «Al conteggio allora, al conteggio» gridò «facciamo il conto dei voti e vediamo chi ne ha di più. Ai più, di più». Rafforzò l'invito con una manata sul tavolo e si riabbandonò contro lo schienale della poltrona.
Negli ultimi tempi c'erano state così tante fluttuazioni, separazioni, partenogenesi, osmosi tra partiti, gruppi, correnti e sodalizi che quasi nessuno aveva più in mente quale fosse la geografia esatta del continente politico. Ma se Spanò proponeva il rituale "ai più di più" era probabile che il suo gruppo fosse il più forte. Di fronte al pericolo che il ministro alla Giustizia si prendesse anche l'interim della difesa, Bertini si riprese dalla malia nella quale lo avevano gettato gli occhi del Reverendo; dando mostra di acutezza inaspettata proclamò, con voce stentorea, che quantità non voleva dire qualità. Se il dicastero della Difesa fosse passato alla corrente di Spanò, numerosa sì, ma di furfanti, il partito e i suoi amici non sarebbero riusciti a ricavarne più niente.
L'insinuazione era grave. Il ministro alla Giustizia si alzò in piedi, rovesciando la poltrona nella foga, e cercò di agguantare Bertini per il collo. Temendo l'allargarsi della rissa Arturo Candiani si alzò e dette due o tre colpi di crocefisso contro un armadio vuoto, che rimbombò fragorosamente. Nelle situazioni d'emergenza il metodo serviva a riportare la calma e anche quella volta funzionò.
«Calma, colleghi ed amici, calma, in nome di dio. Dobbiamo pensare all'interesse di tutti piuttosto che a quello personale. In una cosa Bertini ha ragione. Dobbiamo fare presto. Dimenticate che cosa ci angosciava poc'anzi? Quale pericolo stiamo correndo? Forse che abbandonandoci alla rissa sarà più facile mantenere il potere? Concordia parvae res crescunt, discordia maximae dilabuntur. La discordia rovina anche le cose più grandi. Non facciamoci irretire da questo inaspettato problema, tragico per il nostro povero amico scomparso eppure modesto per noi, se lo paragoniamo alla spada di Damocle che ci minaccia. Tuttavia ogni soluzione proposta per sostituire il defunto collega è suscettibile di conseguenze che dobbiamo prevedere, articolare e approfondire. È necessario scegliere la soluzione che ci lascerà più tranquilli, in modo da poterci poi concentrare sul che fare affinché l'opposizione non prevalga. Dobbiamo far presto ma con giudizio. Adelante con juicio. Pertanto ritiro la mia candidatura e chiedo un'adeguata pausa di riflessione sia per lasciar decantare le emozioni del momento, che possono offuscare la nostra capacità di giudizio, sia per capire cosa pensano gli altri.»
Dal silenzio generale Bertini si rese conto che tutti i convenuti erano d'accordo.
Martellò sul tavolo, anche se questa volta non ce ne sarebbe stato bisogno, e suggerì di aggiornare la seduta tra una settimana.
I ministri si alzarono, raccolsero i documenti e li riposero nelle borse. Molti di loro prima di lasciare il palazzo passarono a ritirare le bagatelle pericolose e i cani mordaci che avevano lasciato entrando. In un angolo dell'atrio rimaneva abbandonato il bastone del ministro alla Difesa, tanto ammirato quando il povero Brandoni ne aveva mostrata la lama istoriata. Il primo ad allungarvi le mani fu Romitelli, che declamò soddisfatto: «il bastone è fatto apposta pel ministro della posta». L'aveva appena sfiorato che l'onorevole Bertini lo afferrò per il braccio. «Col cazzo che ti prendi il bastone. Caso mai spetta di diritto al presidente del Consiglio, cioè a me. Non per interesse personale ma per il rispetto dovuto alla mia carica». Romitelli non amava sentirsi le mani addosso e colpì il presidente con una gomitata nello stomaco, facendogli lasciare la presa. Profittando della colluttazione Spanò afferrò il bastone e cercava di scivolare via inosservato. Forse vi sarebbe riuscito se l'onorevole Macelloni, che frequentava ambienti in cui una lama nascosta poteva sempre far comodo, non lo avesse sgambettato, facendolo barcollare.
I valletti e i questori si accingevano a intervenire quando l'onorevole Candiani si intromise con tutta l'autorità della sua statura, dell'aspetto funereo e del reale prestigio.. Tolse a Spanò il bastone e lo consegnò al capo dei questori.
«Lo metta in guardaroba» gli disse «e guardi che ci resti perché torneremo a prenderlo la prossima settimana.»
Nessuno si accorse che aveva strizzato un occhio al capoquestore. Una strizzata d'occhio del Reverendo, infatti, era comprensibile solo a pochi intimi, tra questi il capo dei questori che era suo cognato.
Poi si rivolse ai colleghi: «Suvvia» li placò «il bastone animato fa parte integrante del dicastero della Difesa. Lo assegneremo insieme ad esso».
Restò nella sala a riordinare le sue cose, ma quando tutti furono usciti entrò nel guardaroba, cercando di non farsi notare. Prese il bastone, guardò da vicino il pomolo in avorio lavorato, lo accarezzò; sfilò la lama, l'esaminò con cura, provò più volte ad estrarla e rinfilarla.
Poi nascose il bastone sotto il cappotto e si avviò verso l'uscita.


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