La biblioteca "Lupo della steppa" presenta:
Noi toscani... di Daniela Piegai

 

Noi toscani, come i siciliani e come i francesi, siamo convinti di essere una razza a parte: più razionali, più intelligenti, più ironici di tutto il resto del mondo. E al diavolo la coerenza, abbiamo anche un fondo magico, retaggio degli aruspici etruschi (forse perché...ci sono più cose in cielo e in terra, di quante non ne sognino i filosofi... ma anche Harry Potter può andare bene).
Ultimamente ci hanno provato anche i padani a dare ad intendere che sono speciali, ma ci credono solo loro.
In realtà ci sono dei maledetti toscani un po' tonti e dei bergamaschi estremamente acuti, ma l'immaginario collettivo, che è una brutta bestia tipo ISTAT, rifiuta deciso l'idea del bergamasco intelligente, esattamente come rifiuta l'idea del napoletano ordinato e non creativo, e del bolognese stoico e morigerato: l'umanità, nel suo insieme, è un discreto impasto di luoghi comuni.
Noi: noi abbiamo digerito i romani, i longobardi, i visigoti, gli imperi, i regni, le signorie. E perfino la repubblica. E siamo qui che guardiamo il mondo dall'alto di un colle, come abbiamo sempre fatto.
E lo sbeffeggiamo. Ma solo in privato: in pubblico non si infierisce, o, se lo si fa, lo si fa con grande tolleranza, perché in fondo ci dispiace per tutti quelli che non hanno avuto la ventura di nascere qui.
Ma dicevo del fondo magico. Ecco: mi trovavo verso la siepe di bosso, quasi in fondo al giardino medievale, dietro l'orto dei semplici. Al solito c'era una intera tribù di merli che zampettava tra la ghiaia, le cornacchie stavano appollaiate nei cespugli più bassi a contemplare sdegnosamente i merli, e ogni tanto un passerotto curioso, mantenendosi ai margini del gruppo di uccelli più grandi di lui, cercava di capire se c'era qualcosa di interessante da beccare. Tutto normale, apparentemente.
Io leggevo un libro, una meraviglia di edizione con pagine di carta spessa e la copertina plastificata che sembrava fatta di vetro, tant'era lucida e robusta, e ogni volta che giravo le pagine, i pennuti, allarmati, si alzavano in volo tutti insieme, per tornare a posarsi dopo qualche secondo.
Seccata da quel continuo andirivieni, a un certo punto mormorai: - E state un po' fermi, per piacere!
Mi ci vollero almeno cinque pagine, per accorgermi che non volavano più. Anche i toscani di pianura, naturalmente, guardano il mondo dall'alto. Via: erano immobili, pietrificati in posizioni bislacche.
Mi era successo una volta, in un gennaio strano, al lago, di vedere improvvisamente alzarsi il vento e congelare le onde nella posizione che avevano in quell'istante preciso, così che la superficie era assolutamente immobile, ma le creste delle onde la facevano sembrare in tempesta. Ecco, i merli, il passerotto, le cornacchie, erano immobili nello stesso modo, congelati nelle posizioni di chi sta per spiccare il volo.

Siccome siamo più razionali del resto del mondo, cercai una spiegazione logica al fenomeno, ma non riuscii a trovarla.

Siamo più intelligenti, quindi provai a trovare il bandolo di quella anomala matassa, e non lo trovai.

Siamo i più ironici, ma anche il tentativo di farci sopra un po' di sana ironia, fallì in partenza.

Non restava che la magia.
- Abracadabra - mormorai come una preghiera.

Continuava a non succedere nulla: i pennuti erano immobili nelle loro precarie posizioni, e fissavano il vuoto con tondi occhi a bottone. Quasi simili ai miei, probabilmente, quanto a espressione.
Incerta, mi alzai e provai ad andare vicino ai pietrificati: non si mossero neppure quando provai ad accarezzarne uno, con la punta del dito che scivolava piano sulle morbide piume del capino. Solo gli occhi sembravano in un certo senso più tondi, più grandi, come se al di là della pupilla un animaletto terrorizzato cercasse di capire.
Ero terrorizzata anch'io, devo dire.
Un invisibile raggio verde? Che poi, se era verde, forse non poteva essere invisibile.
Un'astronave che invadeva lo spazio terrestre e bloccava le forme di vita per studiarle meglio? Ma, diavolaccio, e io, allora? O forse bloccava solo le forme di vita superiore, e loro, chiunque essi fossero, erano simili ai merli, e quindi li avevano identificati come la forma dominante nel nostro pianeta? Certo che non era un'ipotesi lusinghiera, essere considerata al di sotto delle cornacchie.
L'influenza aviaria fulminante che li paralizzava? Forse avrei dovuto chiamare le ASL?
Adesso non ricordo esattamente tutte le strampalate idee che mi attraversarono il cervello, ma ricordo perfettamente che non ce n'era una che reggesse.
Il sole era luminoso, in alto, la giornata era dolce, il giardino profumava, il libro che stavo leggendo era ordinatamente appoggiato sulla sedia a sdraio, col segno sulla pagina in cui avevo smesso di leggerlo, ma la realtà si era deformata in una direzione che non sapevo interpretare. Una specie di bolla assurda, un'escrescenza in cui le normali leggi non funzionavano, e io non avevo strumenti né per interpretare né per "aggiustare" quello che stava succedendo.
Poi, piano piano, cominciai a pensare che forse ero io che non funzionavo. In fondo esiste quella che comunemente viene definita la realtà, ed esiste chi la percepisce.
Forse era la mia percezione ad ESSERE ALTERATA. E questo mi terrorizzava anche di più.
Raccolsi il libro, e mi avviai verso casa, lasciandomi alle spalle il branchetto di volatili che parevano statuine di sale. E intanto mi guardavo cautamente in giro, cercando prove sull'affidabilità della mia percezione. Ma sembrava tutto normale.
In casa c'erano i miei turbolenti nipoti: era per sfuggire alla loro amata presenza che mi ero rintanata a leggere in fondo al giardino.
- Zia, zia, possiamo cercare le cose in cantina? - era Pietro il rosso, che me lo chiedeva, in tono pressante: aveva sempre l'aria di sottintendere che se non riceveva l'assenso richiesto, sarebbe morto di dolore. Ragazzetto interessante, mi sarebbe piaciuto vederlo a diciott'anni, alle prese con le prime ragazze.
- Ti prego, ti prego, ti prego... - e questo era Giovanni, il fratellino biondo, più delicato, ma non meno seduttivo, nelle sue tattiche. In un angolo, per terra, tra matite e fogli sparsi, la piccola Agnese disegnava intenta, con i lisci capelli chiari che le spiovevano sul visino.
Non ero nelle condizioni di negare qualcosa a qualcuno. Borbottai un "sì" poco convinto, e andai di sopra a chiudermi in camera, e a meditare sul mio cervello partito.

Da lontano (lontano dal branco di volatili, intendo) la faccenda cominciava ad assumere contorni meno sinistri: forse mentre credevo di leggere mi ero addormentata, e avevo avuto una specie di sogno-allucinazione.
Ma certo che doveva essere andata così. E ne avrei avuto la prova, se fossi tornata in fondo al giardino. Ma chissà perché, non ne avevo una grande voglia. E se li avessi ritrovati immobili, come li avevo lasciati?
Stava calando la sera, la luminosa sera di settembre, e avrei avuto forse un'altra mezz'ora di luce, non di più. Dovevo decidermi.
Camminando come una vecchia paralitica, a passetti brevi e incerti, fermandomi ogni poco, arrivai alla siepe di bosso.
Erano ancora lì.
Mi appoggiai al rugoso pino centenario che rende ombroso quell'angolo di giardino, e cercai di respirare con calma, per non svenire. E fu allora che notai dei piccoli lampi di luce, come dei riflessi.
Alzai gli occhi verso l'alto: appeso ai rami del pino dondolava una specie di latta rotonda su cui si rifletteva l'ultimo sole.
E poi improvvisamente fu buio, mentre io cercavo disperatamente di capire che ci faceva quella roba appesa lassù.
Bene, per vedere cos'era dovevo tornare a casa e prendere la grande pila ricaricabile che tengo a portata di mano per quando manca la corrente.

A casa, per quanto fossi stravolta, mi resi conto che qualcosa non andava: i nipoti erano troppo silenziosi, ed era già ora di cena: di solito chiedevano a gran voce se potevano avere patatine fritte o qualcosa del genere. E poi non si vedevano da nessuna parte: dove erano finiti?
Li chiamai in giro per le stanze, ma non rispondeva nessuno. Ossignore, e ora chi la sentiva mia sorella?
Gli uccelli congelati, il cervello che non funzionava, latta rotonda sui pini, e ora anche i nipoti spariti: certo non era una giornata da oscar.
Mi sedetti sui gradini davanti al portone di ingresso. - Eccomi! - annunciò mia sorella allegra, rientrando dal paese - I ragazzi sono già a tavola?
- No: non riesco a trovarli...
- Come non riesci a trovarli, cosa vuol dire, da quando non li vedi, che accidenti è successo - mitragliò lei immediatamente agitata.
- Senti, non lo so dove sono, ma l'ultima volta li ho visti un'oretta fa, forse meno: non possono avere avuto il tempo di allontanarsi molto.
- Cosa stavano facendo?
- Agnese disegnava, e i maschi mi hanno chiesto il permesso di frugare in cantina.
- Non glielo avrai dato, spero!
Già: la nostra casa era molto antica, e le cantine erano una specie di labirinto semicrollato che risaliva probabilmente all'impero romano. Una parte era restaurata e puntellata, e ci tenevamo una congerie incredibile di roba fino dai tempi dei bisnonni, mentre la parte non bonificata era chiusa da una parete di cartongesso, ormai tutta fessurata, e non era difficile oltrepassarla. Quindi i ragazzi avevano sempre avuto la proibizione di andare laggiù da soli. Ma io, sotto l'impressione dei merli e delle cornacchie, avevo mandato le mie gioie in un luogo pericoloso, e adesso me ne rendevo conto.
Ci precipitammo in cantina.
- Pietro! Giovanni! Agnese! - ma non rispondeva nessuno.
E poi un rumore soffocato: veniva dalla cassapanca. Frenetica mia sorella sollevò il pesante coperchio, e apparve Agnese, tutta rossa per le lacrime: - Mi hanno chi chi chiuso dentro - singhiozzò - perché io volevo gu gu guardare il guerriero! So so sono cattivi!
- Quale guerriero, amore mio? - chiese mia sorella stringendola in un abbraccio - e dove sono adesso Pietro e Giovanni?
Scalpiccio di passi, al piano di sopra, e poi per le scale ripide della cantina, ed ecco, cauti, affacciarsi il rosso e il biondo: - Mamma? Sei tornata?...
- Già.
- Non abbiamo fatto niente!
- Ho detto qualcosa?
- No, ma si capisce.
- Cosa si capisce?
- Siete mo mo molto cattivi! - ululò Agnese, al sicuro tra le braccia di mia sorella.
Decisamente tutte quelle emozioni erano troppe per una sola giornata: - Non sai cosa mi è successo - mormorai a mia sorella, forse sperando che abbracciasse e proteggesse anche me.
- Non lo voglio sapere - sospirò lei con aria esausta.
Andammo di sopra: la cucina era desolata, il desco vuoto, i ragazzi affamati, ma per fortuna non reclamavano, data la coscienza non tranquillissima.
Imbastimmo una parvenza di cena.

Più tardi io riprovai a intavolare con mia sorella il discorso su cosa mi era capitato:
- Vieni, ragioniamo un poco. - (Già, noi, in Toscana, per dire "parliamo" si dice "ragioniamo", e anche questo la dice lunga su chi ci crediamo di essere).
- Prima mettiamo a letto i ragazzi - rispose lei, e ci dedicammo al tenero rituale di tutte le sere: spugna e sapone per ripulirli della giornata, e poi, lustri, rosei e profumati, l'ultimo bacetto della buonanotte, sonnacchiosi come orsetti in letargo.
- Io, però, il guerriero lo voglio guardare... - mormorò Agnese cadendo nel sonno.
- Il guerriero? - rise mia sorella: erano talmente vivaci, i nostri tre briganti, e la sera erano così stanchi, che cominciavano a sognare quasi prima di chiudere gli occhi. O almeno è quello che pensammo allora.

Le raccontai dei merli, del passerotto e delle cornacchie; passai poi al pezzo di latta rotondo che brillava sul pino, e lei mi consigliò di farmi un bel sonno.
- Senti, non sono esaurita, davvero. Andiamo insieme in fondo al giardino, prendo la pila, e vedrai!

Ci avviammo insieme, io agitata e lei preoccupata per la mia salute mentale.
Alla luce bianca della pila, gli occhi tondi degli uccelli immobili sulla ghiaia, brillavano come piccole stelle. In alto, tra i rami del pino, il pezzo di latta rifletteva la luna.
Restammo un pezzo a contemplare l'impossibile.
- Abracadabra - riprovai io. Ma come la prima volta, non funzionò.
- Ragioniamo - esortò lei. E voleva dire proprio "ragioniamo", non "parliamo". Ma anche questo non ci portò da nessuna parte.
E il giardino, intorno, profumava perdutamente di fine estate, proprio come se quella fosse stata una fine estate normale. E noi lì, bambine sperdute, senza neppure un Peter Pan che ci portasse al sicuro nell'isola che non c'è.
Decidemmo di dormire, e di controllare la mattina seguente, a mente fresca, se le stranezze continuavano.

Ebbene sì. Continuavano.
Anzi, se proprio vogliamo essere precisi, erano aumentate: in cima al pino, c'era altra roba. Non si distingueva bene perché l'albero era molto fronzuto, ma indubitabilmente si era aggiunto qualcos'altro al pezzo di latta del giorno prima.
Costernate, io e mia sorella guardavamo in alto, e poi il nostro sguardo ricadeva in basso, verso il piccolo branco di uccelli immobili, e non sapevamo cosa fare.
Tornammo verso casa frastornate. I ragazzi si erano svegliati e cinguettavano come sempre, pieni di aspettative per la giornata.
Veloci lavacri, pettine sui capelli umidi, magliette e pantaloncini, latte e biscotti: automaticamente facevamo le stesse cose di tutte le mattine.
- Oggi me lo fate guardare il guerriero? - chiese Agnese con aria ansiosa ai fratelli.
Loro la fulminarono con un'occhiataccia, e lei si mise la manina sulla bocca, guardando me e mia sorella con aria colpevole.
- Si può sapere cos'è questa storia del guerriero, che va avanti da ieri sera?
- Niente! - risposero i due maschi all'unisono.
- Come, niente?
- È una storia che le abbiamo raccontato... - disse vago Pietro. E Giovanni ribadì: - Una storia... raccontato...
- È inutile che fate il gatto e la volpe. Voglio sapere che storia è. - fece severa mia sorella.
- È un guerriero bravo, ma non lo deve sapere nessuno, se no gli fanno la bua... e noi non lo dobbiamo dire... - disse Agnese mettendo il ditino sulla bocca e sul naso in segno di silenzio.
- Cretina! - Esclamarono con rabbia i due ragazzi - L'hai appena detto, e avevi promesso di stare zitta!
- Non si dice "cretina" - mormorò mia sorella meccanicamente, e intanto cercava di capire che diavolo stava succedendo. Ci mancava solo un guerriero, al quadro.
Qualcuno bussò sui vetri della portafinestra. Saltammo per aria come se fosse esploso qualcosa.
- Nervosette, eh? - ghignò il postino mettendo dentro la testa. Avevamo fatto le elementari insieme, e ci si conosceva da una vita.
- Senti, caro, dacci la posta e sparisci, ché non è giornata!
- Vado, vado: capisco subito quando non sono gradito!

- Il guerriero l'abbiamo trovato in cantina - spiegò un quarto d'ora più tardi Pietro, di fronte alla minaccia di essere chiuso in camera tutto il giorno, se non raccontava come stavano le cose.
Mia sorella mi lanciò un'occhiata di fuoco.
- La zia non c'entra - intervenne il mio cavaliere biondo, Giovanni - c'eravamo andati anche prima. Il permesso l'abbiamo chiesto dopo, per avere la scusa di tornarci anche quando c'eravate voi in casa.
- Ecco, siamo scesi giù, e abbiamo sfondato un angolino della parete...
- Un angolino piccolo. - intervenne di nuovo Giovanni.
- E c'erano un sacco di topi...
- È anche per questo che vi diciamo di non andare là sotto - disse mia sorella, approfittando per far capire loro tutti i rischi che si potevano correre in quel luogo.
- Ma i topi erano tutti finti: non si muovevano neppure se li toccavi, figurati se potevano morderci! - fece Pietro con aria da gradasso.
- Li avete toccati?! - chiese inorridita e incredula mia sorella.
- E non si muovevano? - domandai io, che cominciavo a intravedere dei legami con i merli e le cornacchie.
Così, piano piano, venne fuori tutta la storia.
Nella parte semicrollata delle cantine, i ragazzi avevano scoperto una specie di vano, con una scala che scendeva in quello che doveva essere stato un antico cimitero (mia sorella rabbrividiva).
- C'erano scatole di pietra - aveva detto Giovanni - col coperchio che non si apriva perché era pesante. E poi c'era un guerriero tutto vestito da guerriero, che ha aperto gli occhi, quando siamo entrati, e respirava strano. Ma dopo si è svegliato per bene, ha buttato lo scudo per terra, e ci ha detto di portarlo sopra un albero, senza guardarlo mai.
Io e mia sorella ci demmo un'occhiata: ecco cos'era il pezzo di latta sul pino.
- E poi? - Chiese lei.
- E poi il guerriero si è spogliato, ha posato per terra la spada, la camicia di ferro, l'elmo, e ci ha chiesto vestiti normali.
- Abbiamo preso quelli di papà... - confessò imbarazzato Giovanni, chinando la testa.
Mia sorella chiuse gli occhi, un'espressione di profonda sofferenza sul viso: suo marito era morto da quattro anni, in un assurdo incidente ad un semaforo, e lei non si era ancora ripresa. Le cose che erano appartenute a lui erano ordinatamente riposte in una stanza, dove nessuno aveva il permesso di entrare. A ben pensarci, la nostra sembrava la casa di Barbablù, con un sacco di posti proibiti.
Pietro mormorò: - Sai, mamma, io ogni tanto ci vado, perché c'è l'odore di papà, là dentro, e mi sembra di vederlo...
Restammo zitti un poco, ognuno immerso nel suo personale dolore. Poi mia sorella mise una mano sulla spalla a quel suo ragazzo rosso: - Va bene, di questo parleremo poi. Ora diteci del guerriero.
E io che ero balzata ad alcune conclusioni, chiesi: - In che lingua parla, il guerriero?
I ragazzi mi diedero un'occhiata incerta: - Ecco... zia...lui dice le cose dentro la testa... non parla come noi.
- Dentro la testa? - mia sorella aveva gli occhi spalancati, e i miei dovevano essere sempre di più somiglianti a quelli delle cornacchie e dei merli: assolutamente rotondi, con una spaventata pupilla nel mezzo.
Oh, noi toscani siamo i più razionali, i più intelligenti, i più ironici, i più magici, mi ripetevo come un mantra: ma sicuramente io ero riuscita male.
Avevo sempre voluto la vita leggera, senza genitori che sparivano, malattie, problemi, morti improvvise, senza dolori insopportabili. Mano a mano che gli eventi negativi si affollavano nella mia vita, io li aggiungevo all'elenco, e adesso ero in grado di capire, che l'avrei voluta anche senza guerrieri.
- Mi dispiace. - suonò una voce nella mia mente.
Alzai la testa di scatto, poi guardai gli altri, per vedere se anche loro l'avevano sentita, ma nessuno, a parte me, aveva l'aria di Giovanna d'Arco che sente le voci.
- Di solito sono in grado di comunicare solo con i bambini - continuò la voce - ed è una sorpresa anche per me poter entrare in comunicazione con te.
Lo sapevo che ero riuscita male! Ecco la prova definitiva.
- Non tornare dove eri ieri - continua la voce - lo scudo è pericoloso: se lo guardi ti immobilizza. Per questo ho detto ai ragazzi di appenderlo in alto: non avevo pensato ai riflessi che hanno colpito gli uccelli, quando tu hai mosso il libro con la copertina lucida.
Beh, se non altro questa è una spiegazione, ma ha un vizio di fondo, parte da una serie di dati impossibili: scudi che pietrificano (Gorgone, se ci sei, batti un colpo), e guerrieri che parlano direttamente in testa.
D'altra parte, anche Schliemann era partito da un poema che tutti consideravano una invenzione, e aveva scoperto la realtà che lo aveva ispirato. Così, forse, lo scudo della Gorgone esiste davvero, ed esiste anche il guerriero telepatico, dal momento che i ragazzi lo hanno visto, e che ora lo sento anch'io.
- È così - conferma lui nel mio cervello.

Bene: esistono più cose... e oltre ai babbani ci sono anche i magici... e Peter Pan ha la mappa dell'isola che non c'è, e adesso ce l'ho anch'io. Per chi non lo sapesse, è in Toscana, che è anche più incantata di quanto non pensino i turisti.
Abbiamo messo via tutte le cianfrusaglie di ferro del guerriero, così che non possano pietrificare nessuno, nemmeno per sbaglio. E noi siamo qui, e la vita non è leggera (forse non lo è mai), ma quando c'è il sole dorato, e il profumo del giardino che si unisce al profumo del passato, mai definitivamente passato, e i ragazzi da addormentare, la sera, come tiepidi orsetti, può essere molto dolce.

In questa biblioteca ospitiamo altri racconti di Daniela Piegai

Indietro