La biblioteca "Lupo della steppa" presenta:
La sirena di Daniela Piegai

 

Ho la febbre e non riesco a dormire: vedo cose che si agitano accanto al mio lettino, e non so distinguerle.
- Mamma.... - chiamo.
Mamma arriva e mi dice che non c'è nulla e mi accarezza i capelli. Avverto il solito vuoto incerto e doloroso pressappoco tra lo stomaco e la pancia, e per dargli un nome, perché mi faccia meno male, lo identifico con una cosa precisa: - Mamma, dov'è papà? - le chiedo.
- È andato via, lo sai.
E io ripercorro intero il rito delle domande: - Non ci vuole più bene?
- Me lo chiedi sempre, e io ti rispondo come sempre: l'amore a volte finisce. È il destino... - sospira lei.
Il suo tono non mi piace: suggerisce che ci siano vincitori e vittime, e che tutto sia già deciso in anticipo, senza possibilità di scelta.
- Non lo voglio, il destino!
- Se preferisci possiamo chiamarlo Fato - dice cercando di farmi ridere.
A scuola, insieme ai sinonimi e ai verbi, ho studiato il genere dei nomi, così la seguo sulla stessa strada: - Forse mi piace più al femminile - le dico - le fate, almeno, hanno la bacchetta magica.
E poi non ho più voglia di giocare con le parole: le coperte mi pesano, provo a toglierle, e mamma per tenermi tranquilla mi legge una favola, una stupida favola di una sirena regina del mare che, solo perché si innamora di un uomo, baratta il suo regno per diventare una donna mortale. Due goffi piedi, una comune voce da moglie, e la terra: solida, sempre uguale.
La febbre mi porta su ondate irrequiete di un oceano in tempesta, blu e verde e schiumoso. Perle di quella schiuma mi scivolano sulla fronte.
- Sei tutta sudata - dice mamma.
- È il mare - rido.
- Stai delirando.
- No, è il mare... - e piango, adesso, (e le lacrime sono salate come il mare), perché ho capito che devo scegliere, proprio come la sirena, e nessuno mi aveva avvertito; e c'è come un peso, opprimente, che mi trascina verso una sola direzione, perché ogni volta che una sirena ha abdicato, ha reso più difficile a chi veniva dopo scegliere il mare.
- Mamma - dico - perché non canti?
E lei canta qualcosa, con una tiepida voce da moglie abbandonata. Con me sulle spalle non riuscirà a dimenticare mai nulla.
E poi si alza sui suoi due piedi per andare a farmi una spremuta, ma io levo la mia voce che adesso è capace di rompere i cristalli, e la finestra si sbriciola, e scivolo fuori, sull'onda tempestosa della febbre, nella notte blu e verde: mamma aveva già messo in conto che me ne sarei andata, me l'ha detto tante volte: - Ti sposerai, e avrai un bell'abito bianco e andrai lontano.
Non avrò un pallido abito di tulle, ma luminose, forti scaglie iridescenti, e anche se sarà altrettanto salato, il mio oceano non sarà mai più quello delle lacrime, e la mia voce attirerà i marinai, e giocherò con la luna, e la terra la lascerò a chi se ne accontenta, solida, sempre uguale, e io muterò insieme al mare così che nessuno potrà riconoscermi e seguire le mie tracce e tendermi trappole.

Mi immergo e nuoto e poi risalgo verso l'abbagliante confine che vela il mondo di sopra, mescolo mare e cielo tuffandomi con i delfini.
- Coloro che hanno coda di pesce e voce di incanti - dico ai gabbiani - si prendono gioco del destino, prima di gettarlo via. Chi lo vuole un destino? Mai prendere sul serio un marinaio, se si vuole restare sirene. - E canto, con voce di sirena e coda di pesce.
Se avrò una figlia, le sarà più facile scegliere il mare.

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