La biblioteca "Lupo della steppa" presenta:
Le ali di Amelia di Daniela Piegai

 

Mi ha sempre dato un senso di oppressione la folla. Uomini e donne che ti premono da tutte le parti, ti tolgono lo spazio e il respiro, ti intasano il naso con i loro odori di colonia, sudore, dopobarba, dentifricio, naftalina (in certi mesi in cui si tirano fuori i cappotti dalle profondità degli armadi quattro stagioni), borse della spesa in cui gli acquisti vivono di vita propria, e persino le fragole, se mescolate alle cipolle, producono effluvi di spazzatura.
Non ho mai sopportato le stanze chiuse, in inverno, con l'aria ferma e limitata, l'orizzonte chiuso, le tende abbassate sulle finestre a tappare ogni possibile spiffero, le chiacchiere insulse.
Ho odiato ferocemente, con tutte le mie forze, le vie che si snodano tra case alte e ti impediscono di vedere il cielo.
Spesso le nostre più grandi passioni nascono dalle fobie e dai sogni che ci portiamo dentro dall'infanzia.

Io volevo essere leggera. Leggera e trasparente come le nuvole, come l'aria pulita dell'inverno.
Volevo allungarmi sulla terra senza peso, come la lunga ombra della sera, senza spessore. È attraverso l'aria che si spandono gli odori: minuscole particelle che io annusavo come un cane da tartufi, come la lingua sensibile di un serpente, per capire le persone.
Per un certo periodo della mia vita, sapevo solo di sapone. Poi, onnipervasiva, che non se ne andava neppure di notte, l'usta di disinfettanti ovunque passassi. Infine il mio odore principale è diventato quello dell'olio di motore. Perché da piccoli si sogna di volare e ci si riesce senza problemi, ma da adulti, con un corpo fisico che ha un peso e uno spessore, servono ausili meccanici. Servono tela e bulloni ed elica e benzina e motore, per sostenere carne e ossa e sangue e nervi e muscoli, nell'aria.

Me lo comprai, il mio sostegno, la mia protesi al posto delle ali che non mi erano mai cresciute e in cui non avevo mai smesso di sperare. L'anagramma del mio nome era: ali a me. Un gioco che facevo da piccola e in cui credevo fermamente, con lo stesso trasporto e la stessa speranza con cui si crede a babbo natale.
Adesso le avevo, le mie ali, e le manovravo con l'impressione di avere raggiunto il mio luogo: ognuno di noi ha nel cuore una terra promessa, una "casa" in cui tutto parla un linguaggio finalmente comprensibile, senza possibilità di fraintendimenti, senza la fatica di inerpretare o la paura di sbagliare. E l'attimo in cui mi staccavo da terra... oh, l'attimo in cui diventavo leggera come l'aria, in cui si scioglievano le catene che ci legano al suolo, simbolo di tutte le catene che ci imprigionano fino dal primo vagito... l'attimo in cui solo il cielo, immenso, curvo, si stendeva oltre la carlinga... l'attimo... E la libertà aveva l'odore del vento e dell'olio del motore, l'odore di ozono della tempesta in arrivo, il colore dei lampi che squarciano la notte, della nebbia che vela il mattino, del sole che incendia le nuvole e dell'oceano che le spenge, al tramonto, quando le fiamme diventano viola.

Di tutte le case che ho abitato, le stanze di albergo in cui sono stata, le pensioni. Gli ospedali, ricordo solo le finestre. Quello che si vedeva dai rettangoli ritagliati sui muri. Mi sono sempre sentita un animale in gabbia, dentro le mura. Una civetta ammalata e prigioniera che vidi una volta, con le pastoie sulle zampe in mezzo agli escrementi, e il cielo irraggiungibile che piangeva lacrime di luce, in alto.

Anche adesso piange. O forse sono io: ho le ali rotte. - Una brutta caduta - sentenziava mia madre quando arrivavo da lei con le ginocchia sbucciate dopo qualche gioco particolarmente vivace. Poi deponeva un bacio leggero sulla ferita, senza sfiorarla, facendo solo il normale incantesimo delle madri. E tutto passava. Ho fatto una brutta caduta, ora, mamma, e non potrai guarirmi. Vedo le mie ali strappate, che dondolano storte a cavallo di un gigantesco albero cannibale. Se le è divorate quasi tutte, dilaniandole con rami appuntiti, inglobandole tra le foglie.
Scivolando dalla carlinga spezzata, si sono rotte anche le mie gambe, e adesso sono qui, col cielo in alto, irraggiungibile, e io sono così pesante che non riesco neppure ad alzarmi. Arrruffo le piume come la civetta ammalata e cerco di trascinarmi verso l'albero cannibale, dove sono i resti del mio aereo, per addormentarmi con la testa sotto le ali come fanno gli uccelli, e morire sognando di volare.

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