2. 900t'Arte:
Ricordando Mario Giacomelli:
il sentimento della Terra Madre

Mario Giacomelli
© Paolo Biagetti

1. La premessa

Dopo la scomparsa di Mario Giacomelli annualmente il Museo d'arte moderna di Senigallia ha ricordato l'Autore, che è stato considerato uno degli innovatori della fotografia italiana del secondo Novecento. Lo ha fatto con mostre, realizzate anche all'estero, come è il caso degli allestimenti alla Biblioteca Nazionale di Parigi, negli istituti italiani di cultura di New York, Los Angeles, Chicago, Praga. Lo ha fatto anche analizzando i rapporti di Mario Giacomelli con fotografi ed artisti. Certamente di rilievo è stata la presentazione delle documentazioni fotografiche donate al Musinf da Renzo Tortelli (Museo Comunale d'Arte Moderna, dell'Informazione, della Fotografia). Penso a quelle fotografie in cui Tortelli riprende Mario Giacomelli mentre effettua gli scatti di Scanno. Dove il grande fotografo senigalliese ha realizzato immagini che restano nella storia della fotografia, accanto a quelli di Cartier Bresson. Penso anche alle documentazioni, più familiari, in cui Tortelli ritrae Mario Giacomelli in un primo maggio sul greto del fiume Misa. Ma penso anche alle documentazioni presentate in apertura di una mostra, dedicata dal Musinf a Natale Patrizi e Adolfo Minardi. La mostra era stata intitolata, significativamente "Noi e Giacomelli". Nell'occasione avevo voluto collocare, come bacheca di memoria storica e sestante di orientamento, le monografie edite per documentare l'esperienza delle esposizioni nelle case rurali abbandonate. Si trattava di un'esperienza espositiva, che aveva visto la presenza attiva e propositiva di Mario Giacomelli, unitamente a quelle dello storico dell'economia dell'agricoltura Sergio Anselmi.
Fin dalla prima edizione di quegli interventi, che avevano la leggerezza dell'en plein air e, nel contempo, lo spessore dell'intervento sui reperti di una civiltà appena estinta, dispersa dalla diaspora migratoria, arsa e in parte addirittura evaporata, per l'irrompere del magma e dei lapilli, prodotti dall'eruzione dell'era industriale.

Mario Giacomelli

Il pittore Patrizi (Agrà) e lo scultore Minardi (Fide) avevano avuto il conforto di tante presenze eccellenti: l'architetto Gianni Volpe, la storica dell'arte Grazia Callegari e i fotografi ed artisti, che si muovevano in sinergia con Giacomelli.
A scorrere le pagine di quelle monografie, che sento un poco anche come mie per avervi contribuito con qualche scritto introduttivo e per via della veste editoriale, che è quella caratteristica della casa editrice mia e di mio fratello Marzio, vi si trovano le presenze di svariate personalità della cultura marchigiana.
Tra tutte segnalerei quelle dei poeti Floriano De Santi e Eugenio De Signoribus, del pittore e incisore Walter Piacesi, dello scrittore Tonino Guerra, del regista Rai Terenzio Montesi. Segnalerei anche il contesto di filologia culinaria dei programmi, che tra esposizioni, concerti, spettacoli della Macina, tavole rotonde, interventi culturali, presentazioni di libri di pregio, allineava polente sull'aia dei carbonari di Piobbico, degustazioni dei cereali biologici dell'Alce nero.
Ancorata alla terra dalla triade Giacomelli, Patrizi, Minardi, la suite di esperienze, per l'evidente contributo stilistico di Anselmi aveva attinto all'empireo universitario, in una sintesi che andava dalla manifestazione estetica del sentire drammatico dei nati in un fosso al tentativo di collocazione storica della vicenda epocale della civiltà rurale marchigiana.
La ricchezza della sintesi aveva fatto scattare qualche meccanismo di attenzione della società civile, politica e dell'informazione, anche nelle Marche, sito solitamente impermeabile dalle seduzioni della cultura, specialmente della cultura visiva, tanto lodata formalmente quanto abbandonata nel concreto quotidiano.

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Al tempo dell'intervento artistico a Ca' Vitali, che segnò l'esordio dell'azione in case rurali abbandonate, ricordo che notai l'azione del volontariato della Pro loco di San Costanzo, che si era attivata per ripulire la casa colonica, miracolosamente risistemata per l'agibilità del pubblico.
Bonito Oliva, che, nel settore delle arti visive, resta l'unica intelligenza critica del secondo Novecento ha formalizzato l'essenza dell'agire artistico e intellettuale nel sentire difforme, nell'antipatia. Attirandomi dunque le dovute, meritate, comprovate antipatie - come Fide mi ha ricordato proprio in apertura della mostra "Noi e Giacomelli" al Musinf - avevo scritto che si sarebbe "spalato e ricoperto". Cosa che è avvenuta puntualmente, ma in maniera magnificamente, quanto antiteticamente creativa, dopo i sette giorni al Balì. Cosa è successo al Balì lo ha spiegato, con impolitica ingenuità, Natale Patrizi. Ringraziando il presidente della Provincia di Pesaro per un bellissimo e affettuoso intervento di inaugurazione di una mostra tenutasi nell'alta Marca, Patrizi ha segnalato a Palmiro Ucchielli, presidente della Provincia di Pesaro, che, dall'azione di valorizzazione del Balì, come sede museale, posta in essere dall'equipe d'intervento sulle case abbandonate, era scaturita la fondazione di un museo scientifico. Con ciò sorprendentemente sostituendo, tout court, la proposta del museo artistico sottoscritta dalla triade dei nati in un fosso e formalizzata, bianco su nero (vedere il testo nella monografia dedicata all'intervento artistico al Balì). Riuscendo perfettamente nell'intento di globalizzare l'antipatia nei miei confronti avevo cercato di spiegare a Patrizi, Fide e Giacomelli che la storia dell'arte avrebbe dovuto insegnare loro come la creatività della politica, quale scienza del possibile, strutturalmente fosse destinata a prevalere, nel concreto, sulla creatività artistica, che ne resta avvantaggiata comunque per avere, a ciclo continuo, la possibilità di creazione di sempre nuove possibilità di un sentito e sofferto pensare e conformarsi antiteticamente.
D'altra parte Ennio Calabria, ai tempi del Sindacato artisti, era uso raccontare che Amendola gli avesse detto: "Se gli artisti avessero tutto quello che chiedono, chi lo farebbe più il metalmeccanico o l'imprenditore?"

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Anche io, non so con quale esito, avevo cercato di tranquillizzare Patrizi, spiegandogli che, in fondo, aveva fatto tutto da sé, perché se uno è tanto intelligente da inventare il fucile avrebbe dovuto essere anche tanto intelligente da porre nel conto che, quel fucile, sarebbe potuto servire a tutti gli scopi, anche a sparagli contro.
La condizione dell'artista non consente possibilità di recriminazione, giacché non si può negare che, per principio economico elementare, avrebbe dovuto essere chiaro a tutti che l'utilità marginale della scienza è superiore a quella dell'arte, specie in un paese che, si ritiene comunemente, produca pochi scienziati e troppi artisti, per di più anche grandi e perciò ingombranti.
Non credo di migliorare, quanto a simpatia, la mia situazione, ricordando che l'impero di Occidente sembra essere riuscito a ritardare, ma, si direbbe, non di molto, la sua caduta a dopo quella, già avvenuta, dell'impero d'Oriente.
Il modello degli scavi e dei recuperi di Fide e Minardi è ampiamente utilizzabile, per ironia della storia, nei confronti del mondo industriale, i cui ruderi sono ormai numerosissimi, fanno da corona alle periferie cittadine. Sono questi ruderi i nuovi siti archeologici dei centri urbani.
Hanno un pregio, quello dell'ampiezza. Basti pensare, dopo il restauro, alla Fiat Lingotto, non più stabilimento industriale, ma apprezzata sede della fiera del libro.
Sono ruderi così numerosi e vasti da poter ospitare nugoli di storicizzande raccolte di opere d'arte contemporanea, quindi anche di quelle che rendono omaggio alla terra. Presentendo le possibilità future gli artisti, in tutto l'Occidente hanno ampliato a dismisure la grandezza delle loro opere. Ma, sempre sul filo dell'ironia della storia, bisognerà pensare alle dinamiche future, anche, per dire, alle delocalizzazioni, e alle intuizioni creative dell'alta, bassa e bassissima finanza.

Nell'intervento di apertura alla monografia per la manifestazione al Balì premettevo un concetto discutibile e prevalentemente contraddetto. Dicevo che la cultura non è un «optional». Aggiungevo che nel pellegrinaggio per case coloniche compiuto da Fide e Patrìzi c'era la volontà di testimoniare valori attuali e di recuperare valori in via di sparizione, o forse già di scavare reperti di valori scomparsi. La chiave di lettura adoperata mi sembrava estetica, cioè non politica, non sociologica, non naturalistica. Forse tutte queste insieme, ma non ciascuna cosa nei suoi specifici e nelle sue logiche.

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L'antipatia dell'artista, di cui parlava Bonito Oliva, la volta che non ebbe fortuna, sta probabilmente nell'imporre una comunicazione trasversale, per cui davvero il recupero dell'albero o del filo d'erba si era compiuto in maniera sintetica dentro l'emblematica finestra paesaggistica di Patrizi. Tra l'altro, non avendo rilievo se il paesaggio fosse vero o dipinto. Ugualmente non importando se la finestra fosse vera o dipinta. Si compiva anche nella proposta della magica forma dell'uovo di Fide. Una forma che non conteneva il contenuto dell'uovo. O, infine, si compiva nei sali d'argento variamente suggestionati da Giacomelli. O tout court sostituiti dagli inchiostri serigrafici, come a sottolineare che tutto sta nella magia creativa. Comunque, la realtà non c'entrava nulla con l'arte. Veniva solo evocata da questa. Volendo fare uno sforzo dì coniugazione logiche, si potrebbe dire che l'estetica si trovava a costituire un pre¬supposto, un invito a parlare della realtà. Tuttavia, o perciò, non esisteva e ancora non esiste uno spazio di opzionalità razionale. Probabilmente, sarebbe opportuno aleggiare nella dimensione culturale, apprestarsi al rito creativo con l'abitualità con cui gli inglesi prendono il thè. Il paesaggio non è il paesaggio, la finestra non è la finestra, la casa non è la casa. D'altronde queste res ìnventae, che appartenevano alla realtà di uno spazio che chiamavamo campagna, già da tempo non esistono più in natura.
Sono già arte, in quanto invenzioni inconsuete, inconsuete proposte che vanno al di là dello spazio tempo.
Se si volesse ridare una funzione alle cose probabilmente l'iperuranio potrebbe, con rapida mutazione, essere ricatturato nella scatola della quotidianità. Conviene fare della casa, abbandonata a un'improbabile esistenza di altro da sé, cioè nuovamente una casa?
Io mi rendo conto di aver sempre proposto nel colloquio con Patrizi e Fide (li conosco e li incontro, di quando in quando, dal tempo in cui avevano i capelli tutti neri) una pregiudiziale scaramantica, nel senso che essi mi hanno sempre coinvolto della bontà dell'approccio ex tempore, mentre io ho sempre cercato di renderli convinti dell'altrettanta bontà della favola storica.
Sarebbe il caso che alla fine rinunciassi a proporre di fare di un edificio, costruito in spazi rurali, un museo? Forse sì, forse no.
Patrizi e Fide sono degli alieni, ma la loro alienità non è pericolosa nel senso che sinora hanno spalato e ricoperto.

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I reperti, dopo il loro passaggio, sono tornati nella serenità del passato. All'inesistenza, che aspira giustamente all'eternità. Exìstere non è una bella faccenda. Comporta però tutta la sequenza dei vizi d'Occidente. Carte, domande, relazioni, date. Forse anche computers.
Settori dove ovviamente l'alienità si manifesta nelle estensioni multiple della pericolosità.
Basta il libro-catalogo per perpetuare ciò che, in un tempo, è stato esistente? Probabilmente sì.
Perciò mi ero già chiesto perché mai Fide e Patrizi sarebbe dovuti cambiare; comunicando con il mondo dell'economia, delle banche, delle politiche istituzionali, hanno già cinque o sei musei portabili, che si possono contenere in una borsa, stringer nel palmo di una mano.
Ironizzando avevo anche scritto che lo Stato li avrebbe dovuti aiutare a non fare un museo. Dicevo a suo tempo che la bellissima Villa del Balì non sarebbe dovuta cambiare. Il silenzio e l'abbandono sarebbero dovuti restare, lasciando allontanare nel tempo perfino i rumori della mostra di Fide e Agrà. Ex tempore.
Ritenevo e ritengo, per piacevolezza metafisica o per ludicità new dada, che tutto l'immenso sepolcro terracqueo dovrebbe restare come sta. La mucillagine, lievitando dal mare adriatico potrebbe dare la suspence finale, straboccando. Silenziosa. Occupando gli interstizi del mondo.
A quel punto, Dio stesso, che immagino esperto ex-librista, con o senza musei, saprà come mettere tutto dentro una cornice, finemente incisa e abilmente dorata.

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2. La casa colonica come Foro

A premessa degli interventi nelle case coloniche di Ferretto e Monte Giove di Fano, realizzati dal 9 al 17 maggio 1987, Fide e Patrizi hanno spiegato, per il gruppo dei promotori, i vari perché dell'operare artistico-culturale su case coloniche.
Si tratta di un testo che ritengo essenziale, in cui c'era la presa di distanza dalla musealizzazione. Con il riconoscimento dell'autonomia delle operazioni specifiche dei musei di storia dell'agricoltura, veniva introdotta la definizione della necessità di un luogo adibito a foro, a piazza per la comunicazione culturale.
È una necessità che mi sono trovato a sostenere anche recentemente, in occasione della notte europea dei Musei. Una notte che era stata aperta al Musinf dalla mostra "Noi e Giacomelli". Io avevo attribuito il ruolo di piazza ai musei d'arte moderna, come del resto mi pare stia emergendo, massivamente quanto lentamente, in tutta Europa.
Scrivevano Fide e Patrizi, che l'aver scelto la casa colonica, nella sua realtà architettonica con tutti gli spazi antistanti e i capanni non era un ripiego, ma una scoperta che diventava anche una proposta di studio per dibattiti e tavole rotonde.
Consideravano infatti che l'aia avesse la stessa funzione architettonica di quella "ipotetica sala di rappresentanza", "teatro romano", "greco", "foro", dove venivano convocate le adunanze importanti, per discutere i problemi di allora.

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Ed ecco come Agrà e Fide motivano l'idea (necessità) di tavole rotonde "sotto il cielo", in aperta campagna, in perfetta sintonia con gli spazi interiori dell'animo umano.
Lì vedevano l'uomo esprimersi chiaramente, perché privo di quella retorica di cose convenute, di finta socializzazione, di diplomazia municipale. Secondo loro la sobrietà dell'ambiente metteva a parità le persone e a loro agio. Secondo loro lì l'uomo con facilità ritrovava "l'originalità di pensiero", l'idea, perché espressa al cospetto delle piante "l'agorà di querce" nell'eco della Valle Metauro, della terra di origine.
Ne conseguiva un plurimo interesse: i temi trattati dagli artisti e dagli studiosi, stavano alla radice del discorso, che pur partendo da una casa colonica, si faceva ampio e articolato (pluridisciplinare), per le varie specializzazioni dei diversi settori (artistico-scientifico-culturale). Si trattava dunque di un'occasione per leggere ad alta voce il "grande albero della natura", fonte di tutte le energie e intuizioni dell'uomo.
La casa colonica, si poneva come centro di discussione "musa ispiratrice", chiara risposta al domani (alle problematiche future) delle manifestazioni, segnalando gli aspetti architettonici e strutturali, tipici del modo rurale, riproponendoli in un contesto artistico, consentendo l'esaltazione del passato e del presente, consentendo l' esaltazione poetica e suscitando così nuove emozioni nuovi significati, nuovi parametri.
Facevano poi notare che l'operazione nella sua molteplicità di interessi e specializzazioni non doveva essere scambiata per una semplice esposizione di opere, di nomi, ma uno stimolo e una sensibilizzazione ai codici della natura e dell'arte visiva.
Un'operazione, che comportava da parte di Fide ed Agrà un impegno progettuale di UN INTERO ANNO DI LAVORO.
A Fide e Agrà il confronto tra: "arte e ambiente ispiratore"; appariva come mezzo per restituire l'idea stessa alla natura.
La riscoperta della casa colonica, ovvero degli spazi ordinati secondo il bisogno di vivere, vista nella sua essenzialità architettonica, diventava componente di bellezza, specie quando la si confrontava con la casa di città.
Una casa quest'ultima che peccava di vanità, per il mancato equilibrio dovuto all'eccessivo "scontro", motivato dal confronto con le case vicine.
Il contesto dell'operazione consentiva all'artista-fotografo di divertivisi come un bambino, facendo tracciare sul terreno profondi e giganteschi teschi e segni incomprensibili (arature artistiche) giustificabili per l'estrosità e la caparbietà di un artista e l'incisore si faceva testimone di grande sensibilità artistica ponendo l'attenzione su rane, rospi e uccelli.

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Si trattava di un'ottica in cui le sculture in bronzo non risultavano che amplificazioni delle voci della natura, dando la priorità a quegli elementi solitamente trascurati come l'umilissima lumaca. Le finestre, infine, confrontandosi con le vere, diventavano chiave di lettura di un discorso poetico e pittorico di una storia vera. Quella contadina. Fide ed Agrà avevano persino sentito l'importanza di chiarire, soprattutto, per il rispetto dei musei d'arte contadina, che l'operazione non fosse un recupero museale. Infatti per la trascrizione dei significati per loro la parola museo sarebbe suonata male. Come se si trattasse di cose messe lì a tacere, in disuso. Invece loro, Fide e Patrizi, ma anche Giacomelli, puntavano a un recupero carico di umori di vita e di proposte.
Erano stati fieri quando avevano visto gli architetti aderire all'iniziativa, all'appello lanciato, per sensibilità artistica, a discutere insieme dei problemi sul degrado dell'ambiente. Poi erano rimasti conquistati dagli esperti di storia contadina, parlando delle tradizioni rurali e del percorso dell'uomo delle campagne. Si erano commossi con gli scrittori che avevano riproposto gli autori, che riconducevano al passato: "La quercia bella di Bartolini e Castellani". Per loro, parametri poetici che sopravvivevano e sopravvivono tutt'oggi nella contemporaneità.

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3. La logica artistica dell'assenza temporanea

L'interpretazione dell'intera suite di interventi nelle case abbandonate sarebbe impossibile, o comunque incompleta, se si prescindesse da una testimonianza di Natale Patrizi, intitolata "Assenza temporanea", che fa da premessa alla monografia "Sette giorni fuori dal mondo", vissuti a San Cesareo di Fano, dal 7 al 14 maggio 1988, con dibattiti condotti da Roberto Giungi e un concerto curato dal Conservatorio musicale Rossini di Pesaro.
Per quell'occasione, nell'intervento su un rudere fatiscente, definito da Patrizi come molto suggestivo e nell'uso degli spazi intorno al rudere, l'azione artistica aveva assunto largamente il sopravvento sulle motivazioni di studio.
Scriveva Patrizi che se si fosse considerato il "rudere" fermento di idee architettoniche, si sarebbe rischiato di essere esposti ad una critica quanto mai uni-direzionale, poiché da ogni spiraglio o fessura di finestra, attraverso lo sganghero delle travi infradiciate, da ogni materiale in bilico, immancabilmente e ad ogni istante, sarebbe arrivata la minaccia dello "sfondamento", se non fosse stato per la "leggerezza" della poesia, capace di mantenere il tutto in equilibrio".

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Notava poi Agrà che se avessimo voluto poi una più logica, o meno irrazionale risposta, la avremmo dovuta avere dal "poeta" e non certamente dall'infelice contadino, che dall'abbandono della struttura uscì arrossito perché non riusciva più a dormire. Ed è, secondo Agrà, il poeta che avrebbe dovuto farsi fa carico di questa "realtà" di ombre proiettate su bianche pareti, dove convogli di forme di ieri e oggi procedevano con estrema facilità, così da convincere che i luoghi, le strade, l'ambiente, avrebbero potuto essere modelli di pagine di autore.
"Non sarebbe stato dunque necessario pensare, ma solo "sottolineare" perché fuori della porta abbattuta, sopra il tetto senza coppi, c'era qualcosa che non si limitava al vero, ma andava più lontano di un soffitto chiuso.
Patrizi poi aveva notato che "la vegetazione si poneva sistematicamente all'interno del rustico , sicché tutto ciò che era dritto diventava sinuoso, ogni linea retta tracciata dall'uomo incurvandosi, spezzandosi e ricomponendosi. Patrizi poi aveva notato che mentre l'appaltatore si sarebbe affrettato a ricomprimere i muri rigonfi, a bruciare le ombre degli arbusti, mentre con tutte le sue forze si sarebbe opposto al degrado, il poeta, invece, si sarebbe fatto complice della natura, favorendo ogni fermento di vita, ogni processo naturale, ogni nuova combinazione, per un risultato di architettura più vera e meno impropria".
Patrizi aveva concluso che il suo intervento sarebbe consistito nel non intervenire. Essendo talmente ovvia la scelta di questa fatiscente architettura "rurale". Aveva anche sostenuto che se qualcuno gli avesse chiesto il perché del suo agire non avrebbe saputo rispondere; ma aveva la convinzione che quell'architettura "non fosse stata altro è che il risultato fortuito di una travagliata ricerca estetico-esistenziale. Quindi di una travagliata ricerca di contenuto".

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