39. Bioculture:
In visita al museo di storia naturale

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Varcato l'ingresso del museo cessa, quasi d'incanto, quel rumore assordante, monotono e penetrante, che s'insidia impietosamente nelle tempie. Una particolare sensazione di silenzio pervade le sale e contribuisce a rallentare per qualche momento l'ansia di dovere sempre fare, dimenticando l'ultima fatica appena sostenuta, col bus in partenza preso a stento, per non soggiacere al rischio di una forzosa sosta, sommersi da un continuo flusso di gente rassegnata a farsi sballottare, a direzioni alterne, ora verso casa ora verso il posto di lavoro.

Curtis Minelli Portmann

Le sale del museo, oltre al silenzio, permettono di apprezzare una serie di referti, esposti in vetrine e ordinati secondo i dettagliati criteri suggeriti dai loro curatori. Si possono così ammirare le stanze destinate all'esposizione dei minerali, alcune che presentano più o meno fedeli ricostruzioni di paesaggi, e altre ancora con tanti esemplari d'animali, ominidi compresi, tutti rigorosamente impagliati, mummificati o, nella maggiore parte dei casi, ridotti all'essenzialità dei loro apparati scheletrici. Sotto ogni reperto, in genere, un cartellino riporta il periodo in cui quel determinato esemplare è presumibilmente vissuto: talvolta si scivola a ritroso di centinaia di milioni d'anni e si fa fatica ad immaginare uno scorrere così prolungato del tempo.
In genere, un ammasso d'ossa può suscitare sensazioni differenti secondo la situazione in cui sono osservate. Nei cimiteri esse sono pietosamente sottratte alla vista perché è ancora vivo il ricordo dei corpi in cui erano racchiuse: poi col passare del tempo anche questo si affievolisce e si accetta l'idea che possano essere raccolte in un'urna. Un senso di sgomento pervade invece chi assiste atterrito al dissotterramento di scheletri variamente ammassati in una fossa comune, ricoperta in tutta fretta da coloro che, occultando un'insensata mattanza, bramavano di sottrarsi ai possibili giudici del loro comportamento; il pensiero cerca di ripercorrere l'ultimo momento, lo strazio patito, ancora più se avvenuto per mano di altri simili, mostruosamente indifferenti al solidale destino che lo scorrere delle ore impone.
Ben altra sensazione è provata quando ci si trova di fronte ai resti, spesso qualche osso malconcio, d'antichi progenitori. La mente cerca di ricostruire i paesaggi entro cui attraversarono il loro tempo, con chi condivisero il cibo, le insidie da cui dovettero proteggersi, la difficile convivenza con i propri simili. Le vetrine del museo espongono affiancati i crani di vari ominidi: gli austrolopiteci, l'homo habilis, l'homo ergaster, l'homo antecessor, l'homo heidelbengensis, l'homo nearthendalensis; nell'osservarli lo sguardo, quasi a volere rimarcare le differenze, si concentra sulle loro fronti schiacciate, nell'orgogliosa consapevolezza di possedere un contenitore cranico leggermente più ampio, punto finale di un processo biologico che si sarebbe definitivamente assoggettato alla cultura.
Le sale del museo mostrano tuttavia la caducità delle forme biologiche. Alcune, in verità, sembrano sfidare il tempo e sono definiti fossili viventi: tra loro si annoverano i dipnoi, i brachiopodi, il celacanto, il nautilus.
Di fronte a questi che pur rimangono dei casi eccezionali, le sale espositive del museo raccontano di mondi scomparsi, di continenti alla deriva, di foreste lussureggianti le cui vestigia sono oggi soverchiate da enormi ghiacciai o da montagne di sabbia erosa dal vento. Lo scheletro del Tyrannosaurus si eleva, immenso gigante, nella sala più grande del museo; il suo cranio svetta, a sfiorare il tetto del salone. Ridotto oggi a un souvenir, ai suoi piedi i visitatori amano farsi fotografare forse immaginando il terrore che deve aver sollevato sugli impauriti uomini delle caverne. In realtà nessun ominide ha avuto mai la possibilità di imbattersi in un tale soggetto per il semplice fatto che i grandi rettili si erano estinti da almeno 55 milioni d'anni rispetto a quando i primi ominidi cominciarono a popolare la Terra. I dinosauri furono i padroni del mondo per quasi 150 milioni d'anni condizionando i processi evolutivi degli altri organismi viventi: i mammiferi furono costretti, per un così lungo tempo, ad essere rappresentati da forme piccole, probabilmente simili agli attuali toporagni, dalle abitudini notturne, occupando quei pochi spazi marginali che l'invadente presenza dei rettili a loro concedeva. Poi, per qualche accidente della storia, forse la caduta di un meteorite o l'improvviso cambiamento del clima, il percorso evolutivo dei grandi rettili conobbe un intoppo, la maggior parte si estinse, di loro nulla più si seppe. Aristotele, Plinio e altri grandi e antichi osservatori della natura non immaginarono che i loro paesaggi, modulati dalle civiltà del loro tempo, fossero stati già il regno d'esseri che si sarebbero potuti accostare a quelli che la fantasia di allora raffigurava in una miriade d'immaginifiche sembianze, come Tifone che camminava eretto su due zampe ed era alto quanto una montagna, o Tiamat, dalle fauci di coccodrillo, le zampe di lucertola, il corpo del pitone, le ali di pipistrello e la schiena percorsa da scaglie ossee appuntite.
Oggi molti musei espongono gli scheletri dei rettili del Mesozoico, dissotterrati negli ultimi due secoli in varie parti della Terra. La cultura umana offre così un palcoscenico virtuale a coloro che sono stati travolti dai processi evolutivi, forse sospinti dalle loro stesse azioni a ritrovarsi inadeguati ai cambiamenti del mondo. La possibilità di studiare i progetti strutturali e le connessioni comparative con gli altri organismi ancora viventi a cui essi rimandano, non annulla in ogni caso il ruolo di rimembranza che assolve la loro esposizione nelle sale del museo. Ancora più quest'aspetto può essere colto, e acquisisce nel ricordo anche un significato riparatore, se ci s'imbatte nei reperti dei molti mammiferi del Pleistocene la cui fine è da imputarsi alla caccia spietata esercitata dagli uomini.
Uno degli aspetti che maggiormente attira l'attenzione, trovandosi di fronte ai reperti esposti nelle vetrine, è la stretta corrispondenza che è possibile cogliere tra le strutture, in genere quelle scheletriche, e le funzioni da loro svolte. Le ossa appaiono, nei vari assetti in cui si ricompongono, straordinariamente plastiche, quasi in contrasto col materiale che le costituisce. Così osservando lo scheletro del delfino, si nota come esso presenta degli arti anteriori in cui l'osso del braccio, l'omero, e quelli dell'avambraccio, radio ed ulna, sono molto accorciati ed appiattiti, come se fossero passati sotto un rullo compressore. Le ossa del palmo della mano sono fuse e le dita mostrano un numero di falangi superiori alla norma; anche se i curatori del museo lo hanno collocato in un ambiente espositivo asettico, appeso a dei fili come fa un burattinaio con i suoi burattini, non si può non raffigurarselo quando fendeva le acque con movimenti sinuosi ed eleganti. Oggi, nella vetrina prospiciente, gli fa compagnia una volpe volante (Pteropus giganteus), anch'essa in un abito scheletrico adatto ad evidenziare, a livello delle ossa metacarpali, lo straordinario allungamento di quattro delle sue cinque dita, con i tre carpelli uniti in un unico osso; ciò ha offerto un sostegno alla membrana che si adagiava sulle ossa della mano, permettendole di volare.
Lo scheletro di una proscimmia Ayè-Ayè (Daubentonia madascariesis), esposto, accanto a quello di una talpa, in un altro angolo del museo, evidenzia un marcato allungamento delle dita della mano, in particolare di quelle medie ed anulari, veramente sottili e delicate, ma in questo caso ciò è stato utile per farle prelevare le larve d'insetti dall'interno dei tronchi che soleva frequentare nelle foreste del Madagascar. Lo scheletro della talpa mostra arti anteriori fortemente adattati allo scavo, con l'omero corto ed appiattito, articolato sia con la scapola sia con la clavicola. La mano appare larga, quasi circolare, con dita dotate d'unghie lunghe e robuste; oggi, in vetrina, si mostrano un po' consumate dall'uso che ne ha fatto in vita quando era solita costruirsi, tra i campi, lunghi percorsi sotterranei.
Nelle sale espositive i reperti si affollano e si rimarrebbe confusi da tanta diversità se i curatori non avessero badato a tracciare una trama espositiva capace di illustrare, tra omologie e analogie, tra convergenze e radiazioni adattative, le trame dell'evoluzione. Senza la storia ogni struttura apparirebbe fissamente connessa ad una determinata funzione, quasi a rimandare a un preesistente progetto; gli scheletri esposti al museo permettono invece di cogliere, osservando la plasticità delle forme succedutesi nel tempo, l'apparente fissità di quegli assetti. Se poi non si cerca pregiudizialmente la perfezione lì dove non c'è, allora ci si accorge delle numerose imperfezioni in essi presenti, rabberciati dall'azione svolta con gradualità dalla selezione naturale. Questa, nei limiti concessi dai processi che governano lo sviluppo, può spingere determinati assetti strutturali, come l'arto di un rettile, in una momentanea direzione, assestandolo in picchi adattativi in cui si osserva una quasi perfetta corrispondenza tra struttura e funzione. La struttura che caratterizza l'ala di un uccello appare oggi molto funzionale alla funzione da essa svolta, quella di permettere il volo. Nei più antichi progenitori degli uccelli, dinosauri non aviani scoperti in reperti fossili provenienti dalla Cina, erano tuttavia già presenti penne rudimentali che assumevano una funzione diversa da quella connessa al volo, forse legata alla termoregolazione o alle esibizioni sessuali. Queste funzioni sono tuttora mantenute negli uccelli ma ad esse se n'è aggiunta una nuova, legata al fatto che le penne sono aerodinamicamente utili. Una struttura dunque può essere cooptata a svolgere differenti compiti, essendo preadattata a essi e mantenuta, talora anche per molto tempo, anche senza avere specifiche funzioni e talora figurando come un'imperfezione, purché ciò non comporti particolari costi energetici.
La riproduzione sessuale, nel favorire il continuo rimescolamento del patrimonio genetico, può eccezionalmente determinare una combinazione giusta di piccoli cambiamenti strutturali che, prima presenti in patrimoni genetici diversi, una volta posti in sinergia, possono incrementare la fitness del loro portatore, diffondendosi più o meno velocemente nella popolazione di riferimento. Nei tempi lunghi, è possibile rilevare l'affermazione di una nuova struttura solo se le pressioni selettive spingono sempre nella stessa direzione: spesso tuttavia i cambiamenti ambientali, nei tempi geologici, avvengono seguendo delle oscillazioni periodiche a cui gradualmente e continuamente si adeguano gli organismi, col risultato tuttavia di dare l'impressione di una loro fissità evolutiva.
Gli scheletri che affollano alcune sale del museo, raccontano tuttavia solo una parte della storia evolutiva: essi testimoniano le pressioni esercitate dalla selezione naturale sui corpi da loro sorretti e sulla capacità che hanno ad essi conferito di sopravvivere, appropriandosi in modo adeguato delle risorse ambientali disponibili. Transitando per altre sale si è colpiti dalla maestria con cui i curatori del museo hanno saputo ricostruire dei piccoli paesaggi, popolandoli con differenti animali, abilmente imbalsamati. Osservandoli è possibile cogliere la potente azione esercitata dalla selezione sessuale nel plasmare le loro fattezze: è il trionfo della vanità, dell'eleganza delle forme, dell'esplosione dei colori. Al buon senso si sovrappone il buon gusto, il piacere del bello, l'apprezzamento della diversità, la liberazione, o almeno l'aspirazione a trasbordare dai tediosi vincoli imposti dalla selezione naturale. Nell'ammirare una vetrina in cui è rappresentato un gallo cedrone nell'atto di esibirsi davanti ad una femmina, viene tuttavia da chiedersi se una tal esuberanza di forme e di colori addolcisca ma non svincoli dalla condizione d'imprigionamento entro cui gli organismi sono talora sospinti dai processi selettivi. I picchi adattativi, ovvero il perfezionamento dei ruoli e le perfette corrispondenze tra strutture e funzioni possono bloccare le specie in un optimum che non li protegge da una situazione di rapido cambiamento ambientale. La selezione sessuale, nella scelta standardizzata dei segnali utilizzati per il riconoscimento reciproco dei partner, può anche rimanere vincolata da rigidi canoni estetici. La varietà delle forme presenti nelle vetrine del museo parla, nonostante ciò, di continue trasformazioni biologiche.
Il gusto per la diversità, lì dove è esercitato nell'ambito dei corteggiamenti, potrebbe spostare una popolazione da una vetta adattativa a un'altra ancora non praticata, vale a dire passare a differenti compiti indirizzando strutture ridondanti a nuove funzioni, secondo un processo graduale che può tuttavia essere innestato da fasi iniziali di rapida trasformazione. Osservando uno scheletro di Homo sapiens si nota come la stazione eretta è una soluzione biologicamente recente che lo espone a dolorose forme d'artrosi o, in ogni caso, a fastidiosi mal di schiena. La selezione naturale ha in genere tempi lunghi per apportare, eventualmente, quelle modifiche necessarie a migliorare la postura; ma se una tale materia in qualche modo, attraverso strade imprevedibili, dovesse entrare nei meccanismi guidati dalla selezione sessuale e nel gioco delle preferenze ad essa connesse, allora non si dovrebbe aspettare tante generazioni per vedere gli uomini liberati da un tale fastidio. Si tratta forse di fantasticherie, ma le stanze del museo stimolano tali considerazioni mentre si succedono, diverse una dall'altra, in uno scenario di nascite e d'estinzioni, facendo scorrere velocemente le lancette del tempo. Poi un cartello che indica l'uscita riporta tutti all'ora presente e si ripiomba in trincea, a misurarsi con le contingenze, avendo forse ricevuto dalla visita al museo un po' più di solidarietà verso gli altri coinquilini della Terra che corrono, come gli umani, su binari paralleli o divergenti, ognuno diretto a stazioni intermedie da cui si ripartirà verso nuove destinazioni di cui saranno partecipi soltanto le future e lontane generazioni.

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