14. Exit Strategy casareccia
Gianni Camarda *.Tornate all'indice degli articoli
Tornate alla sala saggisticaNessun cammino può essere intrapreso
senza una meta. Ma la discussione prolungata
sulle possibili mete può far dimenticare
che, intanto, si rimane fermi.
(Federico Caffè)La crisi finanziaria, platealmente emersa con il default della Lehman Brothers del settembre 2008, sembra ormai sotto controllo grazie alle robuste iniezioni di liquidità immesse nel sistema dai Governi, primo fra tutti quello degli Stati Uniti. Gli interventi realizzati hanno evitato altri fallimenti e conseguenti crisi sistemiche; le istituzioni finanziarie e le borse sembrano avere evitato il peggio, ma occorre ora l'indispensabile azione di sostegno all'economia reale e, appena possibile, il riassetto dei bilanci pubblici e il drenaggio della liquidità in eccesso.
In questo senso si è espresso il Governatore Draghi il quale ha di recente ammonito che l'economia mondiale è ancora fragile, e pertanto non è ancora il momento per attuare una "exit strategy" dalle politiche di incentivi e di aiuti all'economia messi in campo dai governi per combattere la crisi: lo ha detto a Basilea nel suo intervento conclusivo della riunione del Financial Stability Board il 27 giugno scorso.
Per quanto riguarda il nostro Paese, la situazione è stata efficacemente illustrata, in questi ultimi giorni, da qualificati osservatori domestici e internazionali: tutti concordano su una flessione del PIL intorno al 5% per il 2009 e una possibile ripresa di qualche decimo sopra lo zero nel 2010, a condizione di porre in atto quanto prima efficaci misure di sostegno. A mo' di esempio basta richiamare le considerazioni svolte di recente dalla Presidente di Confindustria, la quale ha osservato che "ci sono timidi segnali di ripresa, ma davanti abbiamo mesi molto difficili ed è assolutamente necessario varare le riforme strutturali altrimenti usciremo dalla crisi con un tasso di crescita molto basso". Analoghi appelli a "riforme strutturali" sono stati levati in occasione di altre assemblee di categoria (es. Confcommercio), da istituzioni internazionali, economisti, accademici, sindacati ecc.
Il Presidente del Consiglio di recente si è scagliato contro tutti costoro, che diffonderebbero inutili allarmismi, visto che la crisi è in realtà un problema di natura psicologica e che non si vede la ragione per la quale gli italiani non consumino come nel passato. Secondo questo approccio, per far scendere la febbre conviene buttare via il termometro.
Il Ministro per l'economia, dal canto suo, ha contestato le previsioni di oggi per il fatto che sei mesi fa non erano le stesse e ha motivato l'esigua dimensione della cosiddetta manovrina d'estate con l'entità del debito pubblico e con l'esigenza di "non sforare il bilancio". In sostanza, a tutt'oggi, l'Italia ha messo in campo per misure anticrisi lo 0,3% del PIL, il valore di gran lunga più basso di Eurolandia. Implicita in questi ragionamenti è l'opinione che – secondo i keynesiani nostrani – l'unico modo di stimolare la domanda interna sarebbe quello di promuovere ingenti investimenti pubblici che però comprometterebbero ancor di più i già precari equilibri delle pubbliche finanze.
In realtà, in dottrina, quella degli investimenti pubblici è l'estrema ratio rispetto ad altre misure che possano conseguire la ripresa dell'occupazione attraverso il sostegno della domanda. Per ottenere questo risultato sono utili, per esempio, tutti quegli interventi che realizzano una significativa redistribuzione del reddito a favore delle categorie più svantaggiate, che potrebbero così aumentare i loro consumi, a danno di quelle più privilegiate la cui propensione al consumo è stabilizzata e il cui reddito non speso viene tesaurizzato, esportato all'estero o speso per generi di non vasto mercato. Si tratta in sostanza di attuare politiche di welfare che non necessariamente si concretizzino in aumenti di salari e pensioni, ma attraverso un razionalizzazione della spesa pubblica, forniscano servizi che altrimenti i cittadini sono costretti a pagare di tasca propria, per esempio nel campo della sanità, dell'istruzione, dei trasporti e così via (negli USA, al riguardo, si mira ad estendere la copertura sanitaria a tutta la popolazione). Particolarmente auspicabile sarebbe un sistema fiscale più equo: in Italia la tassazione sui redditi da capitale è al 12,50%; per le imprese al 30%; il carico fiscale sul lavoro dipendente è pari al 44% a fronte di una media europea del 34,4%.
Per rimanere ai problemi del nostro Paese, sarebbe assai utile, per esempio, che il responsabile del dicastero dell'economia meditasse sulla relazione svolta il 25 giugno scorso dal Procuratore generale della Corte dei Conti ove, tra l'altro, è detto che la corruzione diffusa nella pubblica amministrazione assomma a 60 miliardi l'anno e costituisce "una tassa immorale e occulta ... pagata con i soldi prelevati dalle tasche dei cittadini" ad essa si aggiunge il fenomeno dell'evasione fiscale che, secondo le stime della Corte, in termini di gettito si ragguaglia a 100 miliardi, importo che "acquisito all'erario risolverebbe non pochi problemi".
Come si è accennato, molti qualificati osservatori rilevano che, in Italia, occorre porre sollecitamente in atto riforme strutturali. Sotto questa etichetta tuttavia i proponenti si riferiscono a contenuti concreti a volte assai diversi (fiscalità, pensioni, infrastrutture, sostegno alle piccole e medie imprese, tutele sociali, pagamento dei debiti delle amministrazioni pubbliche nei confronti delle imprese ecc.). Le mete proposte sono molteplici, ma la loro eterogeneità rischia di farle restare nelle intenzioni, anche considerando le posizioni espresse e gli atti concreti del Governo, la cui politica economica sembra essere quella di prendere tempo, fronteggiando alla meno peggio il quotidiano in attesa della ripresa della domanda estera che dovrebbe ridare ossigeno alla nostra economia.
Anche se questo auspicio dovesse avverarsi in tempi non troppo lunghi, la ripresa non potrà consolidarsi se nel contempo non verrà posto riparo ai guasti che la crisi sta provocando sulla già poco brillante struttura produttiva del Paese; altrimenti è possibile che dalla sfavorevole congiuntura se ne esca con alcune categorie che se la saranno cavata in qualche modo mentre altre – piccoli imprenditori senza più mercato, lavoratori, precari o meno, senza più occupazione, pensionati titolari di redditi reali sempre più esigui – continueranno a versare in difficoltà, nonostante l'effetto di "traino" che altre economie potranno esercitare nei confronti della nostra.
Il nostro Paese viene da un quindicennio di debolezza strutturale, di scarsi investimenti, di bassa produttività, di modesta innovazione, perciò è forte il rischio che la ripresa dell'economia mondiale, quando ci sarà, si rifletta in modo attenuato per l'Italia, che continuerà a lungo a vivere una situazione di ristagno. Basti pensare a quanti anni di crescita del PIL occorreranno per recuperare la perdita del 5% che si realizzerà nell'anno in corso. L'esempio della stagnazione che ha afflitto a partire dagli anni '90 la ben più strutturata economia giapponese, induca a riflettere.
* L'autore, già Condirettore Centrale della Banca d'Italia, ha svolto la sua attività professionale nei comparti dell'organizzazione interna e dei rapporti finanziari con la tesoreria statale.
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