12 Cultura & Società
Jean-Marie Gustave Le Clézio
L'Africano
articolo di Giovanna Corchia

Leclezio    Jean-Marie Gustave Le Clézio
L'Africano
Editore Instar Libri
Anno 2007
102 Pagine

"Non è soltanto quella memoria di bambino, quel ricordo straordinariamente preciso di tutte le sensazioni, gli odori, i sapori, l'impressione di pieno o di vuoto, il sentimento della durata. Adesso che scrivo riesco a capirlo: questa non è soltanto la mia memoria, ma anche quella del tempo che ha preceduto la mia nascita, quando i miei genitori camminavano insieme per le strade degli altipiani, nei regni del Camerun Occidentale. È la memoria delle speranze e delle angosce di mio padre, della sua solitudine, del suo sconforto a Ogoja. La memoria dei momenti felici, quando mio padre e mia madre erano uniti in quell'amore che credevano eterno".

In queste che sono quasi le ultime frasi di un libro di amore per l'Africa e per un padre che ha abbracciato quel paese come profondamente suo, Jean Marie Gustave Le Clézio ribadisce al lettore che ha già percorso tutte le pagine, cercando a fatica di fissare nomi di luoghi così lontani dalla sua esperienza diretta, che la scrittura è uno strumento indispensabile per avvicinarsi a quel padre, sconosciuto sino all'età di otto anni, ai suoi momenti di felicità, perché condivide con la donna amata la bellezza del paese e la lotta per alleviare le sofferenze dell'umanità che lo circonda, alle sue angosce, alla sua profonda solitudine, che tanto l'ha segnato, nel lungo periodo della separazione dalla famiglia a causa della guerra.
Passata la lunga nottata della guerra, finalmente nel 1948 la famiglia si ricongiunge: ed è l'incontro con uno sconosciuto quello di Jean Marie Gustave e del fratello con il padre, l'africano a pieno titolo, per aver messo tutte le sue energie, conoscenze mediche, anche senza grandi mezzi a disposizione, per lenire il dolore delle tante malattie che colpiscono tutti...
Il viaggio verso l'Africa sembra essere una grande sofferenza, chiuso com'è in una cabina che nel ricordo diventa un sarcofago invisibile. Poi c'è il contatto con i corpi, la vista dei corpi, gli altri bambini che lo sfiorano perché la loro conoscenza passa attraverso il contatto, lo sguardo che si posa su un corpo di donna che nella sua nudità mostra tutti i segni della vecchiaia, ma il bambino ignora ciò che il tempo provoca, abituato com'è, sino a quel momento, ai tanti artifici che nascondono il passaggio del tempo su un corpo femminile in Francia e in Europa, e perciò l'immagine lo turba perché pensa alla malattia. Ma non c'è paura né rifiuto, il bambino vive come integrazione, accoglienza il contatto con la folla che lo circonda ...
Sin dall'inizio lo scrittore sottolinea quanto sia diverso lo stile di vita del padre, della sua famiglia da quell'identità un po' caricaturale di chi è cresciuto dalla parte dei privilegiati appartenenti alla «società coloniale»: uomini in completo nero molto eleganti, dame in abiti scollati che agitano i loro ventagli, domestici neri in divisa e guanti bianchi...
Per loro una semplice casa, una capanna, su una piattaforma di cemento, con il tetto di lamiera ricoperto di foglie, esposti, quasi indifesi, alle forze della natura: temporali improvvisi e violenti, squarci di luce abbagliante e, poi, per tranquillizzare lui e il fratello, il gioco della madre, che inizia a contare i secondi che separano quegli squarci luminosi nel cielo dal rombo sordo del tuono che si perde in lontananza, il vento che sembra sconvolgere le cime degli alberi giganteschi, infine le corse pazze in quegli spazi sconfinati a piedi nudi, quando il padre, severo custode del rispetto delle regole, non è lì a controllare.
Per il bambino è una libertà mai provata prima e che non proverà più in seguito: libertà di movimento, di pensiero, di emozione. L'Africa è per lui libertà...
Possiamo immaginare quel bambino, seduto per lunghe ore sulla piattaforma della loro casa, lo sguardo perso in quella vastità senza confini: "Rimanevo ore e ore seduto sullo zoccolo di cemento che correva lungo la capanna, con lo sguardo perso in quell'immensità, dietro alle onde del vento sull'erba, ogni tanto mi soffermavo sui mulinelli di polvere che danzavano sopra la terra secca, e scrutavo le zone d'ombra ai piedi degli iroko".
Ritrovare il padre, anzi incontrare uno sconosciuto, suo padre, non è facile per un bambino: come capire, accogliere quell'uomo pessimista, scontroso, autoritario? E insieme al fratello impara più a temere che ad amare quell'uomo.
Solo più tardi, attraverso i tanti tasselli di un mosaico che scopre e mette insieme, il narratore arriva a cogliere profondamente la bellezza di suo padre, la dedizione infinita per gli altri. Per questa scuola di vita scriverà poi più tardi che nella sua scrittura non ha cercato nient'altro che comunicare col mondo, aprirsi al mondo: gli altri.
Con semplici ma essenziali parole cogliamo, attraverso le storie del padre, alcuni aspetti dell'Africa che spesso ignoriamo: le malattie devastanti, impossibili da combattere. Il padre è solo di fronte a un'umanità sofferente: "tutti quei corpi bollenti di febbre, i ventri gonfi dei malati di cancro, le gambe consumate dalle ulcere o deformate dall'elefantiasi, i visi mangiati dalla lebbra o dalla sifilide, le donne lacerate dai parti, i bambini invecchiati dalle carenze alimentare, con la pelle livida e incartapecorita, i capelli color ruggine e gli occhi sempre più grandi a mano a mano che la morte si avvicina." E ogni giorno c'era una nuova dose di dolore.
"Che uomo può essere chi ha vissuto tutto questo?" È una domanda a cui il figlio non dà direttamente una risposta, ma è implicita la sottolineatura dell'eroismo silenzioso del padre, la sua lotta impari per lenire le sofferenze nella consapevolezza delle inevitabili sconfitte.
Quali sono le letture di quel padre, l'africano? Le scopre più tardi: sono essenzialmente due: "L'imitazione di Cristo" e "I pensieri" di Marco Aurelio. Cristo e i pensieri di Marco Aurelio, uno stoico, ecco un uomo smisuratamente esigente con se stesso e il figlio non può non commuoversi. In quel padre è inoltre radicato un senso profondo della giustizia a cui educare i figli, attraverso la forza dell'esempio.
I bambini non possono, non potevano capire questo eccesso di rigore, perciò finivano col fargli una guerra subdola, logorata, ispirata dalla paura delle punizioni e delle botte. Ci vuole tempo per capire...
Il rifiuto del colonialismo: il padre lo esprime con forza, sotto ogni forma in cui si presenta lo sfruttamento degli uni sugli altri. E le sue "non erano idee astratte, e nemmeno scelte politiche. Era la voce dell'Africa che parlava in lui, risvegliando sentimenti antichi [...] Aveva sognato la rinascita dell'Africa, libera dal giogo coloniale e dalla fatalità delle pandemie. Una specie di stato di grazia, a immagine delle immensità erbose su cui avanzavano le mandrie guidate dai pastori, o dei villaggi nei dintorni di Banso, protetti dalla perfezione senza tempo dei muri di pisé e dei tetti di foglie".
Quelle protezioni sono al tempo stesso fragili e resistenti: fragili per opporsi, resistere alle violenze dei colonizzatori venuti a sconvolgere quei ritmi antichi, resistenti perché rinchiudono tutta la forza che nasce dall'armonia dell'uomo con la natura...
La fine del colonialismo non ha rappresentato la fine degli orrori, perché molti dittatori, sostenuti dalle potenze coloniali di un tempo, hanno imposto il loro potere, anche grazie alle ricchezze che i territori racchiudono e, tra questi orrori, s'iscrive il dramma inenarrabile del Biafra: che umanità è mai quella in cui il genocidio rientra nella realtà? Come accogliere le immagini di quei massacri? Di fronte a quelle immagini il padre non può che tacere, piangere...
Lo scrittore riprende una poesia di Chinua Achebe, Natale in Biafra; i versi sottolineano l'immensità dell'amore materno ma la bellezza dell'immagine è sconvolta dalla rottura sottolineata nell'ultimo verso che annuncia un futuro già presente, nel momento della scrittura:

No, nessuna Vergine col Bambino potrà mai uguagliare
La scena della tenerezza di una madre
Verso quel figlio che dovrà presto dimenticare

Un breve frammento perché il lettore colga il significato di quell'ultimo verso: "Nelle distese d'erba simili a quelle dove andavo un tempo a fare guerra alle termiti, bambini orfani vagano senza meta, il corpo ridotto a uno scheletro".
Tutto questo spiega il mutismo in cui si è rifugiato il padre nei suoi ultimi anni.
In Jean Marie Gustave Le Clézio quel mondo, un altro mondo, non potrà mai morire e questo libro, come già altri scritti prima, ha questo compito: non dimenticare.

"Guarderò la febbre salire nel cielo del crepuscolo, i lampi rincorrersi silenziosi tra le scaglie grigie delle nuvole aureolate di fuoco. A notte fonda ascolterò i passi del tuono, sempre più vicini, il vento che fa oscillare la mia amaca e soffia sulla fiamma della lampada. Ascolterò la voce di mia madre che conta i secondi dallo schianto del fulmine e ne calcola la distanza moltiplicandoli per trecentotrentatré. E poi il vento della pioggia, gelido, che investe la cima degli alberi con tutta la sua forza, sentirò ogni singolo ramo gemere e scricchiolare, l'aria della stanza riempirsi della polvere sollevata dall'acqua nell'urto con la terra".

Con questo passaggio denso di poesia in suoni, immagini, emozioni – la forza della scrittura di Jean Marie Gustave Le Clézio – concludo le mie parole in libertà che vorrebbero essere un grazie a uno dei miei autori preferiti.

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