34 Cultura & Società
Moby Dick
articolo di Giovanna Corchia

Moby Dick Moby Dick
Herman Melville
Anno 2005
Pagine XXIII-501

Ho letto Moby Dick per la prima volta nel luglio 1995 e in quella occasione avevo scritto, come faccio di solito, le mie impressioni, quasi a lasciare una traccia della lettura. Ho ripreso in mano il libro in questi ultimi mesi, concentrando poi la rilettura in pochi intensi giorni. Altre cose ho scoperto, proprio come scrive Pavese: "Come in tutte le opere grandi, non si finirebbe mai di analizzare Moby Dick per scoprirvi nuovi angoli di prospettive, nuovi sensi e nuova importanza." [C. Pavese La letteratura americana e altri saggi].
Un libro non certo semplice, Moby Dick, un libro che affronta molti temi, tutti di primo piano per il lettore attento. Eccone alcuni:

Ismaele

Ismaele è il narratore, - il suo nome è quello del primogenito di Abramo, l'uomo selvaggio della Genesi -, parla così di sé come scrittore: "Si sente spesso di scrittori che si rizzano e gonfiano col loro argomento, anche se si tratta di roba ordinaria. Che sarà di me allora, che scrivo di questo Leviatano? Senza volerlo la scrittura si gonfia in maiuscole da cartellone. Datemi una penna di condor! Il cratere del Vesuvio per calamaio! Tenetemi le braccia, amici! Perché nel semplice atto di vergare i miei pensieri su questo Leviatano mi sento prossimo a svenire per la loro comprensività e larghezza di portata [...]. Tale e talmente grande è la virtù di un tema grande e generoso!"
È lui la vera coscienza del libro. La sua ricchezza è nel rispetto dell'altro da sé; un esempio tra i tanti: l'amicizia che lo lega a Queequeg, il ramponiere con cui divide l'unico letto di un'infima locanda, prima d'imbarcarsi sul Pechod, la baleniera agli ordini del comandante Achab, partita dal porto di Nantucket, dove non farà più ritorno.
Queequeg è il selvaggio, parla una lingua sconosciuta, adora idoli a lui ignoti, un cacciatore di teste, così appare, un cannibale, ma si rivela, superato l'ostacolo della non conoscenza e dei pregiudizi, l'uomo più altruista che si possa incontrare, pronto a sacrificarsi per gli altri.
Ismaele è il solo, nel microcosmo del Pechod, che si avvicini a capire Moby Dick., la Balena Bianca, la sua dignità, la sua sublimità; l'unico capace di sopravvivenza e rinascita: come Giona, si salva miracolosamente dopo essere sprofondato nell'abisso senza fondo, grazie a un salvagente-cassa da morto.
Ismaele è pronto a rivivere il mistero delle cose, a emozionarsi di fronte allo spettacolo della natura.

Achab

Cosa spinga Achab a riprendere il viaggio verso l'ignoto, dopo aver preso coscienza dei propri limiti, della propria finitezza che condivide con ogni uomo, non è poi così semplice da capire. Ismaele ha qualcosa da insegnargli, anche se Achab non è uomo che si pieghi agli insegnamenti altrui. Quali le parole d'Ismaele su cui riflettere? Eccole:
"Non sei forse l'immagine esatta di ognuno di noi tutti, in questo mondo baleniero? Quell'oceano senza fondo in cui annaspi è la vita, gli squali i tuoi nemici, le vanghe gli amici; e tra squali e vanghe sei in un bel pasticcio, povero ragazzo mio."
Ismaele non rivolge queste parole al capitano, ma al ramponiere Queequeg che si dibatte contro gli squali, ma tutti noi siamo in quelle parole, anche Achab.
Così descrive Achab:
"Ma Achab, il mio capitano, mi sta sempre davanti in tutta la sua aria truce e rozza di Nantucket. Parlando di re e imperatori, non devo far dimenticare che io scrivo solo di un povero vecchio cacciatore di balene come lui; e quindi non posso usare nessuno degli addobbi e dei fronzoli esterni della regalità. Quello che ha di grande Achab bisognerà per forza tirarlo giù dai cieli, andarlo a pescare in fondo ai mari, e farlo d'aria impalpabile."
Gli ufficiali di bordo, il primo, Starbuck, il secondo, Stubb, e il terzo, Flack, non sono intimoriti dal loro comandante. Solo nel primo si manifesta una interiore resistenza; il secondo esegue gli ordini, come se fosse una croce da portare; il terzo si maschera da Abjectus, lo schiavo, quando è al suo cospetto.
Achab è presentato come un essere socialmente inaccessibile, l'anima prigioniera, rinchiusa nel tronco vuoto del corpo per succhiarsi disperata le zampe della propria tristezza.

Il viaggio

Un matin nous partons, le cerveau plein de flamme,
Le cœur gros de rancune et de désirs amers,
Et nous allons, suivant le rythme de la lame,
Berçant notre infini sur le fini des mers

La fronte in fiamme, un'alba, noi lasciamo la sponda
Col cuor colmo di voglie e di rancori amari,
e culliamo, seguendo il respiro dell'onda,
l'infinito che è in noi sul finito dei mari.
C.Baudelaire Le voyage

Innanzi tutto il mare, i cambiamenti del suo aspetto, spesso è straordinariamente bello, accarezzato da una dolce brezza, mentre gli uomini si dibattono contro la morte: un mare indifferente all' umana sorte!
Per le baleniere gli oceani sono i loro pascoli. Ad imbarcarsi non sono solo uomini spinti dalle necessità della vita; a volte prendono il largo giovani romantici malinconiosi, nauseati dal mondo. Perché Ismaele si è imbarcato? Cosa l'ha spinto a affrontare il grande largo? All'inizio della sua narrazione confessa di non sapere perché i Fati, direttori di scena, lo abbiano ingaggiato per quella parte, poi precisa di essere stato attratto, quasi travolto, dall'idea di entrare in contatto con la grande balena bianca, Moby Dick, un mostro così portentoso e arcano suscitava tutta la sua curiosità. Inoltre il viaggio di scoperta, scivolando sugli oceani più lontani, sarebbe stato un rimedio alla sua tristezza. Si mette così nel novero dei giovani romantici che si allontanano da orizzonti chiusi...
Ismaele è il filosofo, il contemplatore, la nostra guida.
Certo il viaggio sugli oceani non è come sulla terraferma. Ismaele così ne parla:
"Per quanto l'uomo bambino si vanti della sua scienza e abilità e per quanto in un futuro promettente questa scienza e abilità possano crescere, pure, per sempre, fino allo squillo del Giudizio, il mare lo affonderà e lo assassinerà e ridurrà in polvere [...]. L'uomo ha perduto il senso della terribilità del mare."

Giona

Ora il Signore aveva preparato un gran pesce per inghiottire Giona.

"1. E la parola dell'Eterno fu rivolta a Giona, figlio di Amittai, dicendo:
2. "Levati, va' a Ninive, la grande città e predica contro di lei, perché la loro malvagità è salita davanti a me".
3. Ma Giona si levò per fuggire a Tarshish, lontano dalla presenza dell'Eterno. Così scese a Giaffa, dove trovò una nave che andava a Tarshish, lontano dalla presenza dell'Eterno.
4. Ma l'Eterno scatenò un forte vento sul mare e si levò una grande tempesta sul mare, cosicché la nave minacciava di sfasciarsi.
5. I marinai, spaventati, gridarono ciascuno al proprio dio e gettarono in mare il carico che era sulla nave per alleggerirla. Intanto Giona era sceso nelle parti più recondite della nave, si era coricato e dormiva profondamente...". [dal Libro del Profeta Giona]
I marinai capirono subito, dalle stesse parole di Giona, che la tempesta che li minacciava tutti era stata mandata da Dio e chiesero a Giona cosa dovessero fare perché il mare si calmasse e Giona disse loro di gettarlo in mare e così fu fatto. Ismaele riprende le parole del predicatore ascoltato in una chiesa di Nantucket prima della partenza, spiega perché Giona fu punito ma anche salvato, dopo essere stato ingoiato da una balena mandata da Dio: Giona aveva rifiutato di dire la dura verità ai peccatori di Ninive: lo avrebbero odiato, allontanato e Giona non lo voleva.
Non è certo semplice dire la verità quando è molto cruda. Ma, negli abissi, Giona non impreca contro Dio, riconosce il suo errore, la gravità della sua disobbedienza e Dio decide di salvarlo.
Perché Ismaele riprende la storia di Giona nel ventre della balena? Forse come monito al capitano Achab che non rinuncia a sfidare Dio, nonostante gli avvertimenti ricevuti; forse come monito a se stesso che, come Giona, si salverà per testimoniare la lezione che il viaggio gli ha insegnato e insegnarla poi a tutti noi. Forse.
In tutto il libro vi è poi un insegnamento di fondo: "ogni cosa umana che si crede completa, appunto per questo dev'essere sicuramente difettosa."

Achab: la sua profonda inquietudine

Ecco Achab e il suo piede d'osso: la sua gamba era stata stritolata dalla mandibola di Moby Dick; Achab che percorre e ripercorre in tutta la sua lunghezza il Pechod in preda a una profonda inquietudine: sulla sua fronte venata e intaccata si vedevano impronte ancora più strane: le orme di quell'unico suo pensiero che non aveva sonno o requie: affrontare Moby Dick, vincere o perdere, lo ignorava; a volte era consapevole che la sfida era impari, consapevole dei propri limiti.
Subito dopo l'imbarco Achab aveva radunato tutti sul ponte, ufficiali e marinai dalle provenienze più disparate, e aveva rivelato il suo scopo: la caccia a Moby Dick di cui molti ignoravano l'esistenza. Promise loro un lauto compenso, in particolare un doblone d'oro. Poi, dopo aver eccitato gli animi di quella ciurma ignara, aveva stretto un patto con loro, coronato da grandi bevute offerte a tutti...
Solo il primo ufficiale, Starbuck, aveva ricordato a Achab quanto fosse pericoloso affrontare Moby Dick, il Leviatano che gli aveva mozzato la gamba.. Achab aveva allora lanciato un terribile grido disperato, senza però retrocedere dall'ordine impartito: dare la caccia a Moby Dick.
Ma Starbuck non rinuncia al suo scopo: vorrebbe far desistere il suo comandante da quell'impresa macchiata di empietà. Perché voler punire un bruto che lo ha colpito mosso solo da un cieco istinto e, per questo, incolpevole? Tutto ciò è blasfemo! Achab gli grida contro: "Quella cosa incomprensibile è soprattutto ciò che odio".
Achab non nasconde di non poter deviare da quell'unico scopo fisso. Inconsapevole? Certo no, ma non arretrerà mai, sino alla morte.
Impotente, Starbuck si allontana, precisando che lui si è imbarcato per dare la caccia alle balene e non per fare vendetta al comandante.
Nel rifiuto di Achab si potrebbe leggere il rifiuto di servirsi della forza del pensiero. Ah, se Achab avesse ascoltato l'insegnamento di Pascal! Eccolo: L'uomo non è che una canna, la più debole della natura, ma è una canna pensante. L'universo intero non deve armarsi contro di lui, basta un soffio, una goccia d'acqua per schiacciarlo. Ma l'uomo è più forte dell'universo perché sa di dover morire, l'universo invece ignora la sua forza... Achab non lo ignora, ma relega questa verità nel più profondo di se stesso.
Impossibile cambiare rotta, anche se in lui tutto si scolora, l'alba perde il suo fascino, ogni bellezza è angoscia, non gioisce più di niente.
Nonostante tutto, consapevole dell'empietà dei progetti di Achab, Starbuck non abbandona il suo comandante, vorrebbe aiutarlo perché legge nei suoi occhi un dolore sinistro.
Da parte sua Ismaele si sente come irretito dalla furia di Achab, preso in quel suo impulso selvaggio, irrazionale, e arriva anche lui a odiare, come il capitano, quel terribile mostro. Così almeno crede.

Moby Dick

E Dio creò grandi balene, Genesi
Il gran Leviatano che fa ribollire i mari come pentole, Salmi

"E ciò che rendeva la balena una creatura terribile non era tanto la sua grandezza eccezionale o quel colore impressionante, e nemmeno la sua mascella deforme, quanto la cattiveria intelligente e inaudita che stando a certi resoconti precisi essa aveva mostrato più e più volte nei suoi attacchi. Erano soprattutto le sue perfide fughe che sgomentavano, forse più di ogni altra cosa. Quando batteva in ritirata davanti ai suoi inseguitori esultanti, con ogni sintomo apparente di timore, diverse volte si diceva che si era rivoltata di colpo per piombare addosso alle barche o facendole a pezzi o ricacciando i pescatori terrorizzati verso la nave.
Già la sua caccia aveva fruttato parecchi disastri. Certo disgrazie simili, di cui a terra si parlava poco, non erano affatto rare nella pesca alla balena; ma nella maggior parte dei casi la feroce premeditazione della balena bianca pareva così infernale che le mutilazioni e le morti che causava non si potevano considerare interamente inflitte da una creatura bruta."
Il male di Achab non era nel corpo ma nello spirito, un'anima ferita in un corpo squarciato, e tutto ciò era all'origine della sua follia folle. Achab non è che un esemplare spaventoso dell'uomo inconsapevole di essere al mondo quasi come in un hotel, il narratore lo chiama Hotel de Cluny, e questo hotel-mondo non offre certo un tappeto di rose ma tante punte che si ergono minacciose e l'uomo è spesso impreparato, senza efficaci difese.
Il pensiero potrebbe essere, forse, una difesa efficace, un aiuto a prendere coscienza della nostra finitezza.
La balena bianca è, forse, una delle prove a cui Dio sottopone Giobbe. Forse.
Ma Achab sembra ottenebrato, incapace di accettare la sua intima fragilità, la sua mortalità.
Ismaele riflette sul bianco della balena: in genere il bianco è purezza, apertura, ma, in certi casi, non è senza ambiguità. Il bianco è assenza di colore, perciò è vuoto, indecifrabile. Poi Ismaele si chiede se i colori di cui si veste la natura sono intrinseci o, invece, qualcosa che le viene dall'esterno; arriva a pensare che la natura è in sé priva di colori e, se appare nello splendore di un'alba, di un tramonto o di una notte stellata, non è che la maschera di una prostituta, la natura, per ingannare lo sguardo dell'uomo, nascondere il carnaio che ha dentro. L'ambiguità di Moby Dick non sta in una maschera; il suo colore, meglio, assenza di colore, traduce la sua indecifrabilità.

La trama e l'ordito: la necessità, il libero arbitrio, il caso

La trama e l'ordito, in breve la vita di ognuno, sono regolate da tre variabili non indipendenti tra di loro: [...] "la trama dritta della necessità non si lascia deviare dalla sua direzione finale [...]; e anzi con ogni alterna deviazione tende soltanto a quella; il libero arbitrio è sempre libero di manovrare la sua spola tra i fili già dati; il caso, sebbene costretto al suo gioco tra le linee dritte della necessità e diretto obliquamente nei suoi movimenti dal libero arbitrio, sebbene così comandato da quei due, il caso li comanda a turno e dà l'ultimo colpo." La vita non è dunque che uno strano affare caotico in cui l'uomo si dibatte, pronto a inghiottire ogni cosa. Chissà se un qualche vecchio burlone invisibile e indecifrabile si diverte così a metterlo alla prova?

Locke e Kant

Lo sguardo d'Ismaele spazia su tutto e i suoi pensieri filosofici sono illuminanti. Vediamo:
Dovendo trainare le balene, catturate e uccise, ai fianchi della baleniera, la nave procede lentamente, a fatica; ed è qui che Ismaele dà a quelle due carcasse i nomi di Locke e Kant, aggiungendo che, se le si lasciasse andare, la nave volerebbe sull'acqua, leggera.
È proprio vero, molte volte si è tentati di liberarsi da ogni pensiero pesante, da ogni riflessione: pensare stanca, rende anche infelici perché si acquista consapevolezza delle cose, si perde ogni spensieratezza...
"E tuttavia il sole non nasconde [...] l'immenso Sahara, né tutti i milioni di miglia di deserto e di pene sotto la luna. Il sole non nasconde l'oceano, che è la faccia oscura della terra ed è due terzi di essa. E quindi quell'uomo che ha in sé più gioia che dolore, quell'uomo non può essere vero: e se è vero, è immaturo. Lo stesso coi libri. Il più vero di tutti gli uomini fu l'Uomo delle Sofferenze, e il più vero di tutti i libri è quello di Salomone, l'Ecclesiaste, che è come l'acciaio ben martellato del dolore. Tutto è vanità. Tutto."

Ismaele e l'ammirazione per le balene

Ora che è in viaggio da molto tempo, Ismaele è sempre più consapevole della violenza nella caccia alle balene. Diventa anche un loro ammiratore, le segue nei loro giochi nell'acqua, canta la bellezza dei loro spruzzi, simili a fontane. Ismaele è un grande narratore, ricorre spesso all'iperbole per comunicare il suo stupore di fronte alla dignità, alla sublimità, in particolare, del capodoglio, specie a cui appartiene la balena bianca.
Il regno di Moby Dick è il profondo, non sfiora mai la costa e, pensate un po', il suo sfiatatoio non è che un eccesso di pensiero, come avviene ai grandi, Platone, Giove, il Diavolo, Dante: se una nuvola di vapore staziona sulle loro teste, segno che stanno pensando profondamente...
Si sofferma anche a descrivere la leggerezza della danza della coda, la lunga maestosa coda. In quella danza non vi è solo forza ma grazia, la grazia flessuosa di chi si abbandona ad una spensieratezza tutta infantile. Nel cuore di quella forza titanica alberga la leggerezza...
Ci offre ancora un altro spettacolo: è l'alba, le luci si svegliano appena e verso il sole avanza in processione una mandria di balene che, come per incanto, sollevano a picco insieme la coda, quasi come una preghiera di ringraziamento al nuovo giorno.
Ismaele continua a raccontare, sembra essere diventato una balena tra le balene.

Un primo racconto: la scuola delle balene

Non è una classica scuola come potremmo immaginarla, no, è una mandria di balene femmine, molto giovani e attraenti, il maestro è un maschio molto più grosso di loro; le allieve sono le sue concubine: è lui che sceglie la preferita, allontanando ogni malcapitato pretendente.
Ma, anche per il maestro il tempo passa, e, diventato vecchio e impotente, non gli resta che abbracciare una vita di ascesi.

Un secondo racconto: il pesce libero e il pesce legato

Il pesce libero è la balena che si muove senza paura nell'acqua, ma arriva un terribile ramponiere e la balena è colpita, legata, uccisa... Che cosa insegna questa storia? Proprio Ismaele ce lo rivela proponendoci una similitudine: il pesce libero è l'America prima che Colombo vi piantasse la bandiera di Spagna. Da quel momento l'America fu un pesce legato: è quindi una condanna della colonizzazione, a cui possiamo aggiungere quella del successivo colonialismo. L'una e l'altro sottolineano la prevaricazione dell'Occidente su popoli liberi.

Un terzo racconto: il diritto alla balena

Dopo lunghi inseguimenti e grande fatica, dei pescatori riescono a catturare una balena. Stremati, raggiungono la terraferma e là qualcuno prende possesso del frutto del loro lavoro. Chi? Il signore del posto. Perché? Proprio perché è il signore, per la sua regale eccellenza.
Chiara l'allegoria racchiusa nel racconto: è una delle tante forme di sfruttamento dell'uomo sull'uomo, una denuncia di ogni forma di violenza, della schiavitù...
Nel viaggio attorno al mondo il Pechod incontra altre navi e a tutte il comandante chiede se hanno incontrato la balena bianca, la lettura di queste pagine non mancherà d'interessare i lettori...

Il dolore infinito del comandante Achab

All'inizio del viaggio Ismaele è stupito del fatto che Achab non si faccia vedere, chiuso nella sua cabina-cella. Ora sappiamo che la sua prima gamba di avorio non aveva retto a un urto, perciò aveva dovuto aspettare che il carpentiere della nave gliene costruisse un'altra. Ma la nuova non avrebbe mai dovuto ricordargli la sua gamba vera, il vecchio Adamo, come la chiama. Era quella il marchio triste e incancellabile del dolore: Achab non avrebbe mai potuto oscurarne il ricordo, un segno perenne dei suoi limiti, della sua finitezza.

L'oltraggio

Starbuck, preoccupato per delle falle alle botti piene di olio di balena, ammonticchiate nella stiva, - è quello il tesoro di tutti i marinai -, cerca di convincere il comandante a fare una breve sosta per ripararle. Achab lo allontana con parole violente, brandendo anche un moschetto. L'ufficiale mantiene il suo sangue freddo e si allontana pronunciando queste parole: "Tu mi hai oltraggiato, signore, non insultato. Ma per questo non ti chiedo di guardarti da Starbuck. Ti farebbe solo ridere. Ma che Achab si guardi da Achab. Guardati da te stesso, vecchio".
Mentre Starbuck si allontana, Achab pensa che il suo ufficiale non è poi uno stupido: sa che è da se stesso che deve guardarsi, ma sa anche che non lo farà mai!

Queequeg, il buon selvaggio

Il sincero sentimento di amicizia che Ismaele nutre per Queequeg è all'origine di un altrettanto forte sentimento di dolore per la minaccia di morte che pesa sull'amico. Il ramponiere ha lavorato giorni interi per riparare le falle del Pechod e, giù nell'umido, si è gravemente ammalato, al punto da far pensare che non supererà la malattia. Nel dimagrimento impressionante del suo corpo, solo gli occhi restano vivi, "meravigliosi testimoni di quella sanità immortale che in lui non poteva morire né indebolirsi. E come cerchi nell'acqua che svanendo si allargano, così pareva che i suoi occhi crescessero di continuo, come gli anelli dell'eternità" . Ed è lui che chiede che si costruisca una canoa-bara pronta ad accogliere il suo corpo da affidare alle acque, secondo le usanze del suo popolo. Ma Queequeg non muore e agli increduli compagni di viaggio fa conoscere la sua idea: se un uomo si mette in testa di vincere, una semplice malattia non può ucciderlo. Potevano farlo solo una balena o qualche forza distruttrice di quel genere, violenta, incontrollabile, bruta.

Achab, l'incorruttibile

Il Pechod incrocia una baleniera che ha avuto una pesca miracolosa, le sue stive sono stracolme del prezioso olio di balena, ora può rientrare al porto. A bordo della nave, Lo Scapolo, si danza: è il momento di un meritato riposo nella lotta per la vita. Si desidera far partecipare alla festa Achab. Nonostante le insistenze del comandante di quella nave, Achab rifiuta con queste parole: "Dici che hai la nave piena e che torni a casa. Ebbene sappi che questa è una nave vuota e che va via da casa. Perciò va' per la tua strada, e io andrò per la mia".
Quale insegnamento in questo rifiuto? Rientrare al porto, ritornare a casa è pura saggezza, la saggezza di chi sa trovare la gioia in ciò che gli è dato, accontentandosi e ringraziando per il pane quotidiano ricevuto, senza correre sempre alla ricerca dell'impossibile.

I pensieri di Starbuck

Dopo un terribile tifone che ha messo in serio repentaglio la vita di tutti, il vento scema, le vele sono riparate. Starbuck si avvia nella cabina di Achab per dare la notizia. Il comandante dorme e la mente di Starbuck è attraversato da un pensiero empio: uccidere Achab, colui che lo tiene lontano dagli affetti familiari: Mary, la moglie, e il figlio. Poi respinge questa idea, ne sente tutto il peso. Pensa ancora di riuscire a convincere quel vecchio pazzo ad abbandonare la sua idea di morte... Pensa ancora che potrebbe legarlo per poi riprendere il viaggio verso casa. Ma mai avrebbe potuto reggere alle urla di quell'indemoniato. Starbuck pareva lottare con un Angelo e, infine, fu l'Angelo a vincere.

Il Pechod, cocchio marino del sole

Il mare si agita, le onde s'innalzano e si abbassano portando con sé il Pechod, in cielo brilla il sole e Achab si sente come portato dal cocchio del Sole. Ma, ecco, la bussola si rompe, i segnali impazziscono, il Pechod è in grave pericolo. Achab non si scompone, trova un rimedio, quasi fosse opera del diavolo e riprende la corsa verso l'ignoto.
I presagi sinistri continuano ad aumentare. L'aria è improvvisamente lacerata da lamenti terribili: sono forse le anime dei marinai morti di recente? Poi si scopre che sono i pianti di una mandria di foche decimate dalla morte: le madri piangono i cuccioli, i cuccioli l'assenza delle madri...
Segue la morte del marinaio salito sulla testa dell'albero per avvistare le balene: cade giù improvvisamente e scompare tra le onde, inutilmente gli viene lanciato un salvagente...
Achab s'interroga senza trovare risposte alla sua angoscia: "Quale falso signore e padrone nascosto, quale tiranno crudele e senza scrupoli mi comanda? [...] È Achab Achab? Per Dio, amico, siamo fatti girare e girare in questo mondo come quell'argano lì, e il destino è la manovella. E sempre, guarda lì, quel cielo sorridente e questo mare senza fondo! Guarda! Parlava a Starbuck, ma Starbuck non lo ascoltava, si era già allontanato".

La vittoria di Moby Dick

Scappiamo! Scappiamo!Mi pigli Satana se questo non è il Leviatano
Descritto dal nobile profeta Mosè nella vita del paziente Giobbe

Rabelais

Siamo all'incontro fatale: Achab e Moby Dick. La lotta dura tre giorni, Achab resiste nonostante un osso rotto. La nave subisce vari danni e si cerca disperatamente di porre rimedio. Il vento soffia prima violentemente, poi si calma. Qualcuno pensa: "Se io fossi il vento non soffierei più in un mondo tanto perverso e miserabile." Starbuck cerca ancora di fermare Achab: potrebbe ancora salvarsi prima di precipitare nel baratro con tutti i suoi. Achab non retrocede anche se la nave è circondata da innumerevoli squali: sono là per divorare la balena o proprio lui, Achab?
Moby Dick vince, il Pechod non resiste all'urto. La nave e tutto il suo carico umano s'inabissano. Achab è su una misera barca, scaglia la lancia, la corda lo stringe, salta giù in acqua e si lascia inghiottire dal profondo oceano.

Ismaele, il testimone

Come Giona, miracolosamente, Ismaele si salva aggrappato a una cassa da morto-salvagente lanciata in acqua qualche giorno prima. Fu tratto in salvo dalla Rachele, una nave che da giorni cercava di recuperare i corpi dei suoi morti, finì invece col trovare un orfano.

Riflessioni sullo spettacolo "Moby Dick", Milano - Teatro Strehler

Achab-Albertazzi o Albertazzi-Achab? Mi sono chiesta se è Achab al centro del dramma o Albertazzi uomo che vive il suo dramma personale: la vecchiaia, la morte...

Giorgio Albertazzi in Moby Dick, Regia di Antonio Latella, 27/01/2009 al 08/02/2009

Dal libretto di sala: Viaggiare è chi parte per partire

«Mais les vrais voyageurs sont ceux-là qui partent
Pour partir; cœurs légers semblables aux ballons,
De leur fatalité jamais ils ne s'écartent,
Et, sans savoir pourquoi, disent toujours : Allons ! »
C.Baudelaire: Le voyage

«Ma i veri viaggiatori partono senza avere
né meta né ragione; da un fatale richiamo
sospinti, cuori lievi come le mongolfiere,
senza saper perché, dicono sempre: «Andiamo!»
Traduzione G.Bufalino

Forse il comandante Achab è proprio nelle parole di questi versi: in lui la trama e l'ordito sembrano già dati: la necessità della trama e il libero arbitrio della combinazione dei fili dell'ordito sembrano governati da una forza esterna: la fatalità... Perché dunque il viaggio? Né ragione né meta lo governano, solo il bisogno di andare...

Impressioni sullo spettacolo

Bellissima la scena iniziale nel passaggio dall'assenza di luce alla luce, nell'imponente, vigorosa, slanciata giovane corporeità d'Ismaele, là, di fronte a noi spettatori, quasi pronto a colmare la distanza che ci separa, come se, solo così, il messaggio che ci avrebbe trasmesso, potesse arrivarci meglio.
Ismaele si presenta così: Chiamatemi Ismaele, allora sorge subito un dubbio: è il suo vero nome o è una scelta? Bisognerebbe rileggere le pagine della Genesi per cogliere i tratti dell'Ismaele biblico...
Nelle sue parole, una scelta all'interno delle lunghe pagine iniziali del libro, spiega perché il viaggio è per lui una scelta di vita:
"Ogni volta che mi accorgo di atteggiare le labbra al torvo, ogni volta che nell'anima mi scende come un novembre umido e piovigginoso, ogni volta che mi accorgo di fermarmi involontariamente dinanzi alle agenzie di pompe funebri e di andare dietro a tutti i funerali che incontro [...] allora decido che è tempo di mettermi in mare al più presto".

Il viaggio è per Ismaele un desiderio che non muore mai: non mettere mai radici in un posto. Non così per il comandante Achab nella chiave di lettura fornitaci: il giovane Ismaele alleggerisce il suo cuore partendo..., il vecchio comandante non ha sensazioni di leggerezza, né cuore leggero come le mongolfiere, ma, nonostante l'assenza di sensazioni di leggerezza, non può fermarsi: il viaggio è vita, il porto è morte.
Nella lotta contro il male, Ismaele si salva: perché? La mia chiave di lettura del libro è questa: Ismaele si salva per comunicare a tutti coloro rimasti sulla terraferma – scelta della terra sotto i piedi contro l'assenza di sicurezza sballottati tra le onde – la bellezza del mare, ma anche l'indifferenza della natura alle sorti dell'uomo, e ancora la consapevolezza dei limiti, dell'umana finitezza... Ismaele dunque un testimone di un viaggio di conoscenza, di formazione, di crescita. Come Giona si salva per testimoniare una verità, anche se dura: la fragilità, la mortalità dell'uomo.

Riflettendo sullo spettacolo ho colto altro.
Quando sulla bocca di Albertazzi-Achab si spengono le ultime parole, alle spalle del vecchio stanco, prostrato – più l'uomo Albertazzi che il personaggio -, Ismaele raccoglie le sue braccia quasi senza vita, senza più voglia di lottare, guida una sua mano sino ad accarezzare l'altra. Perché? Un gesto consolatorio, il gesto di un figlio verso il padre Abramo, un testimone che prenderà su di sé l'eredità del padre e continuerà il viaggio, quasi a provare, assicurare il trionfo della vita, nonostante la morte. Ho letto questo.
Achab – la sua età lo impone – è arrivato a un punto senza più poter andare a capo...Ismaele sarà il suo a capo, come nel messaggio di Rodari:.

Un punto piccoletto
superbioso e iracondo
"Dopo di me" gridava
"verrà la fine del mondo"
Le parole protestarono:
"Ma che grilli hai per il capo,
ti credi un punto e basta
e non sei che un punto e a capo"
Così tutto solo e a mezza pagina lo piantarono in asso
E il mondo continuò una linea più in basso
Gianni Rodari

Riprendevo nella mia lettura la visione del mondo di Pascal, sottolineavo la fragilità e la forza dell'uomo: la morte la sua fragilità; il pensiero, la consapevolezza della morte la sua forza. Sostenevo che Achab, pur consapevole di questo, non avrebbe mai rinunciato alla sua sfida contro Moby Dick, la morte, il fondo senza fondo dell'oceano, l'ignoto...
Il cammino ulteriore di Albertazzi e Latella, il regista, è che la morte non fa paura a chi ha scelto il viaggio: misurarsi con la Morte è vita non è morte.
Perciò non si deve interrompere il viaggio fino al momento in cui un figlio lo continuerà; non per necessità ma per scelta, che è scelta di libertà, così non ci sarà la fine del mondo ma un semplice punto e a capo.

Il grande quadro

Nella mia analisi non avevo ripreso le pagine in cui Ismaele racconta l'attrazione irresistibile di un grande quadro a olio nella taverna dove passa la notte prima d'imbarcarsi. La luce in quella locanda era molto fioca e la tela nera di fumo. Al centro, aguzzando la vista, si scorgeva un'agile, portentosa massa nera.
A poco a poco i contorni erano apparsi meno confusi: si trattava di una nave quasi ingoiata dalle nere acque, una balena, il terribile Leviatano, sembrava quasi volare sulle tre teste d'albero.
Nello spettacolo questo quadro è descritto con estrema crudezza dal locandiere. Tutto questo come nero presagio su quel viaggio...
Ma la conclusione non è poi così nera: Achab-Albertazzi recita il monologo dell'Amleto, s'interroga, con l'eroe shakespeariano, sul significato dell'essere. Essere come? Consapevolezza del termine del viaggio e del non essere oppure consapevolezza del viaggio come indispensabile per essere, poco importa se si muore?

I corpi dei marinai

Corpi giovani, vigorosi. Tutti hanno ricevuto una Bibbia. Si muovono sulla scena-nave, il Pechod, con grande elasticità e con movimenti delle mani quasi simili a pesci guizzanti o all'ondeggiare del mare. A volte cantano, li si potrebbe considerare come un coro da tragedia greca...
I gesti non sono che un linguaggio non verbale con cui si mimano tutte le azioni che i marinai compiono...

Il libro strappato

Giunti al culmine del dramma Ismaele strappa una ad una le pagine di un libro, del libro per eccellenza, forse, la Bibbia, forse proprio le pagine del Libro del profeta Giona:
"1. E la parola dell'Eterno fu rivolta a Giona, figlio di Amittai, dicendo:
2. "Levati, va' a Ninive, la grande città e predica contro di lei, perché la loro malvagità è salita davanti a me".
Forse perché, a differenza di Giona, Ismaele non seguirà l'ordine ricevuto dall'Eterno, non arretrerà di fronte ai limiti imposti all'umana natura, sarà il novello Achab, sfiderà l'ignoto, continuerà il viaggio...

Un breve giudizio sullo spettacolo

Come già traspare dalle riflessioni precedenti, ho colto soprattutto il peso degli anni nel grande attore Giorgio Albertazzi e, forse, questo, ha reso meno avvincente la lotta dell'uomo Achab, ma più commovente il messaggio del vecchio attore...

A commento una poesia di Mario Luzi:

"Vorrei arrivare al varco con pochi, essenziali bagagli,
liberato dai molti inutili,
di cui l'epoca tragica e fatua
ci ha sovraccaricato...
E vorrei passare questa soglia
sostenuto da poche,
sostanziali acquisizioni
e da immagini irrevocabili per intensità e bellezza
che sono rimaste
come retaggio.
Occorre una specie di rogo purificatorio
del vaniloquio
cui ci siamo abbandonati
e del quale ci siamo compiaciuti.
Il bulbo della speranza,
ora occulta sotto il suolo
ingombro di macerie
non muoia,
in attesa di fiorire alla prima primavera".

Chiaro e immediato il messaggio dell'uomo Luzi, consapevole del varco che lo attende e al quale vuole arrivare con pochi, essenziali bagagli. Lo accompagna la fede che il bulbo della speranza è in attesa di rifiorire alla prima primavera.

I libri recensiti e citati nell'articolo sono: Lista

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