6 Cultura & Società
Ismail Kadaré
Tre canti funebri per il Kosovo
articolo di Giovanna Corchia

Kadaré Ismail Kadaré
Tre canti funebri per il Kosovo
TEA
Anno 2003
108 Pagine

Ismail Kadaré è nato in Albania ad Argirocastro nel 1936. Giornalista, saggista, poeta ma soprattutto narratore. Dal 1990 risiede in Francia ed è considerato il massimo portavoce della letteratura albanese nel mondo.
Il 28 giugno 1989 il leader serbo Slobodan Milosevic scatenò l'offensiva nazionalista contro gli Albanesi del Kosovo. Da quel giorno è cominciata la dissoluzione della Iugoslavia. Ma seicento anni prima il Kosovo Polje, la «Pianura dei Merli», era stato teatro di un'epica e drammatica battaglia: una coalizione cristiana formata da Serbi, Bosniaci, Albanesi e Rumeni fu tragicamente sconfitta dall'esercito ottomano. Nei tre racconti riuniti in «Tre canti funebri per il Kosovo» Ismail Kadaré ci riporta nella polvere di quella giornata, fra l'ondeggiare degli stendardi, i canti dei rapsodi e il sangue versato. Ed è il sangue il filo rosso che percorre tutta l'evocazione di quell'assurdo e che getta un ponte che unisce, nell'orrore, passato e presente...

La vecchia guerra

In quel paese a volte si aveva l'impressione che ci fosse spazio per tutti: i turchi, l'Europa...
Siamo nel 1389 e la grande varietà di genti rendeva quel vasto territorio - i Balcani - un luogo esplosivo. È l'eterna difficoltà dell'uomo di accettare l'altro da sé. Tutti temevano il Gran Turco che aveva persino cambiato nome: non più emiro ma sultano. Il termine precedente aveva un che di tranquillizzante, perché nelle lingue slave del sud mir significa pace e , nella lingua degli Albanesi, la parola è molto vicina a mire che significa bontà. Comunque, che si chiamasse ora sultano non faceva meno paura di un tempo. Correvano voci di un futuro scontro di civiltà: l'Islam contro la Cristianità, il gran sultano contro tutti i principi di quelle terre... Ma come, in cielo non c'era abbastanza spazio per tutti?
Il sultano turco avrebbe iniziato a sottomettere la penisola balcanica, poi l'Italia, infine la Spagna: le tre penisole considerate come tre sonagli dell'Europa, una mucca da mungere.
Come si accingevano ad affrontare il pericolo i principi serbi, albanesi, montenegrini? Si convocarono i rapsodi perché con i loro canti infuocassero gli animi contro il Gran Turco. Ma succedeva che i cantori serbi riprendessero gli inni che da sempre avevano cantato e che incitavano all'odio contro gli Albanesi, anche se erano, ora, loro alleati, e, viceversa, nei canti dei Serbi vi erano parole di fuoco conto gli Albanesi: gli uni e gli altri si contendevano da sempre il Kosovo.
Impossibile cambiare quei canti, la guerra era alle porte, per farlo ci sarebbero voluti molti anni. Sarebbero mai bastati? Una cosa che stupiva tutti quei principi era l'essere accomunati da parole come Balcani, balcanici, come era possibile? Non avevano mai avuto niente in comune, per loro erano nomi ignoti.
Arrivò il giorno della battaglia, la vecchia guerra, i due eserciti erano schierati nella Valle dei Merli, il Kosovo. Era giugno e quel giorno il sole non sembrava mai tramontare. Finalmente calò e ciò provocò l'angoscia dei principi cristiani: come avrebbero potuto individuare la tenda del loro nemico, il sultano turco? Allora illuminarono le loro tende e si scambiarono reciproci doni, sempre innalzando al cielo quei loro canti di divisione e non di unione.
La battaglia del mattino seguente fu cruenta, il sangue di tutti i soldati si mescolava, turco, albanese, serbo, senza nessuna differenza. E fu la vittoria del Turco. Il sultano avrebbe dovuto esporsi alla folla per essere acclamato ma, stanco, decise di mandare il suo sosia. Il suo sonno fu pieno d'incubi... Al risveglio avrebbe appreso che il sosia era ormai cadavere, sorte che sarebbe ben presto toccata anche a lui. E, intanto, un fiume indistinto di sangue aveva intriso quella valle.
Il sultano fu sepolto, in parte, in quella terra appena conquistata, in parte, nella capitale dell'impero. Là furono sotterrati sangue e viscere in un vaso di piombo.
Per le popolazioni di quella terra il sangue ha un valore imperituro, eterno, segnato dal destino: importanti i legami di sangue ma, senza quei legami, quali sarebbero state, sono state le conseguenze? Eppure il sangue che scorre in ogni uomo non è diverso!

In questo racconto Ismail Kadaré ci aiuta a capire anche la cronaca recente intrisa di grandi ferite reciproche, sofferenze, morte. Apparentemente i Turchi sembravano più forti, perché meno diversi tra loro e più legati alla loro religione. Ma anche in quel campo le cose non andarono meglio, come dimostra la fine cruenta del sultano ad opera dei suoi, per sete di potere.

La Gran Dama

Si rievoca , nel campo dei principi cristiani, il giorno della cruenta battaglia. Il principe serbo Lazzaro chiede ai rapsodi di cantare i loro inni di guerra propiziatori di una sicura vittoria. I Serbi si accompagnano con la gusla, i Bosniaci con i flauti, gli Albanesi con la lauta a una corda, ma la musica che si fonde non ha mai parole che si fondono.
Impossibile, nella luce accecante di quel mattino, capire l'esito della battaglia. Le insegne si confondono, poi le Mezzelune hanno il sopravvento.
Tutti sono consapevoli che la cattiva sorte li accompagna, come quella luce malsana sembra annunciare. All'accecamento di un sole spietato seguiranno insondabili tenebre, un canto funebre per il Kosovo...
I vinti devono fuggire per salvarsi, ma dove, in quale direzione?
E inizia l'esodo delle vittime della guerra, ieri come oggi, senza interruzione. L'uomo sembra, è, forse, incapace d'imparare qualcosa dagli errori del passato.
Due rapsodi, il serbo e l'albanese, diventano compagni di sventura. Nei Balcani non si capisce più quale ordine regni. Qualcuno dice che tutto è stato distrutto: chiese ortodosse, chiese cattoliche e che, ovunque, stanno sorgendo moschee. Con i due si accompagna un turco, anche lui vittima della guerra, nauseato da tanto orrore. In questo personaggio semplice, spontaneo, vi è un tentativo di accogliere la religione dell'altro, chiede infatti d'imparare a fare il segno della croce, però lo si vede anche pregare come prima: questo suo gesto non è di chiusura, con le sue parole cerca di spiegare che ci si deve aprire a una nuova religione, ma che il nostro credo precedente deve lasciare spazio all'altro spontaneamente... Si potrebbe imparare molto dal turco. Ma il suo comportamento non è capito e, nel paese del nord Europa dove sono giunti nella loro fuga, il turco è messo a morte: lo scontro e non il dialogo tra le religioni è più forte.
I due cantori serbo e albanese sono invitati in un grande castello del posto insieme ad altri francesi e tedeschi. Pur avendo molta paura iniziano a cantare nelle loro lingue che riprendono sempre parole di odio per il Kosovo, in eterno oggetto di discordia.
Quando il loro messaggio è tradotto e compreso, l'atmosfera che li circonda diventa tesa, solo una gran dama capisce ciò che gli altri non potranno mai cogliere, per mancanza di strumenti di conoscenza. È lei a chiedere che raccontino la loro storia: raccontare? Impossibile! Non lo hanno mai fatto, non sanno che cantare. Ma poi iniziano: il primo è Vladan, il serbo, poi gli dà il cambio Gjorg. Quello che raccontano è tutto un mondo ormai scomparso, gli dei di un tempo, la cultura greca, la cultura ormai dimenticata. E la gran dama che tanto si era battuta per il mantenimento di ciò che serve per capirsi continua a chiedere di continuare a raccontare.

Ecco raccontare, ascoltare può forse aiutarci a superare le insondabili tenebre, si che il nostro viaggio non sia un Viaggio al termine della notte.

Preghiera regale

«Quando l'esercito si mise in marcia portandosi via il mio cadavere, lasciandosi alle spalle soltanto il mio sangue racchiuso in un vaso di piombo, ebbi la sensazione che il mondo fosse ammutolito per sempre. Poi sentii lo stridore dei pesanti carri, lo smorzato calpestio degli zoccoli dei cavalli che si allontanavano, e mi resi conto che mi avevano abbandonato al mio destino.
Avevo sentito dalla bocca di mio padre, come lui stesso aveva sentito dal suo, che l'insania, la memoria, l'ira, la vendetta umane sono iscritte nel sangue. Nondimeno, pareva proprio ch'io fossi il primo monarca il cui sangue fosse stato tanto brutalmente separato dal corpo in questa pianura maledetta.»
È il sultano turco che innalza questa preghiera nell'attesa di ricongiungersi, almeno ora, a quel che resta del suo corpo, ed è un'attesa in cui «il tempo disperato trascorre assai più lento di quello abitato dalla speranza». Poi, ecco che sente un brontolio avvicinarsi, sono rumori conosciuti, forse è il suo popolo che è infine giunto a riprenderlo, a portarlo nel suo paese, lontano da un esilio durato così a lungo. No, si sbaglia, in quella stessa terra sono i Balcani stessi, ora, a farsi guerra: «Possiate divorarvi a vicenda, miscredenti! Esclamai fra me e me, rinnovando la mia maledizione».
E poi l'attesa riprende, cinque secoli, sei secoli ormai... »Il vento porta in giro pezzi di giornali portati dai pellegrini. Talora m'istruiscono sul corso delle cose... Strani nomi di paesi o di visir: [...] Madeleine Albright, massacro di bambini a Srebrenica, Milosevic, Mein Kampf. Di nuovo il nome della visiressa [...]».
Ed ecco le parole finali di questa preghiera senza speranza:
«Allah! Sono passati più di dieci secoli e sono stanco, sovrano solitario nelle immensità cristiane. Talora, nei momenti più tristi, mi chiedo se non ci sia il mio sangue all'origine di tutti questi orrori. So che è un'ipotesi insensata; nondimeno, nel non essere in cui mi trovo, Signore, Ti supplico, concedimi infine l'oblio! Fa' in modo che il mio sangue sia cavato fuori e portato lontano da questa gelida pianura. E che non ci si limiti a togliere il vaso di piombo, ma si rivolti la terra laddove ci fu la mia tenda, dove il suolo s'impregnò per primo di questo sangue. Sì, mio Dio, fa' frantumare ben bene questa terra attorno a me, poiché basterebbero poche gocce per ritrovarvi addensata tutta la memoria del mondo...»

Eccoci giunti alla fine di questo libro. Nelle sue pagine l'insania degli uomini ha il sopravvento, anche se lo scrittore mette in bocca al narratore ciò che sarebbe potuto succedere se gli uomini avessero capito che in quella terra, che può essere intesa come la terra, c'era, c'è spazio per tutti; e che le religioni non possono dividere: in cielo c'è spazio per tutti, sostiene il narratore. La cultura può essere un aiuto, come sostiene la gran dama, forse la comune sofferenza può avvicinare gli uomini... Speriamo!

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