Poesia geologica di Carlo d'Urso
di Emiliano Ventura

Continuo a cercare e a scavare sotto
Terra, l'humus della poesia
Tumulato vivo da un secolo di velocità
Carlo D'Urso

Per le edizioni "Il Melograno" è uscito, finalmente mi viene da dire, un bel libro di poesia dal titolo Sursum corda di Carlo D'Urso. Già di suo l'evento dell'edizione di un testo esclusivamente poetico è una rarita e quindi una festa, un sintomo di una certa vitalità. Nel panorama delle patrie lettere la poesia è un genere in estinzione, non tanto perché manchino i poeti, ma per la politica generalista delle case editrici; sono veramente pochi gli editori disposti ad investire in giovani poeti e nella ricerca. Per questo e tanti altri motivi è una gioia vedere edito un libro di poesia: con le sue 131 pagine è già un unicumrispetto ai soliti libriccini di quaranta o cinquanta poesie; una spia rivelatrice di quanto l'autore si sia "dato", quanto se stesso abbia investito in queste liriche, concessi a quel nettare tutto me stesso, è il bel verso che apre le liriche e il libro.
Poesia geologica, stratificata nel tempo e nei tempi del pensiero dell'umanità, D'Urso ci trascina in epoche prossime o distanti, sui ruderi della grandezza che fu per andar verso un mediocre che sarà; dalla superfice della crosta sprofonda nel fondo di tempi arcaici, qui l'affinità psicologia dell'autore si compiace di ritrovarsi e di ritrovarci. Con Luzi si potrebbe dire la contemporaneità di tutti i tempi, la realizzazione del'Aleph borgesiano, il punto in cui tutte le epoche si squaderno ai nostri occhi senza seguire la freccia cronolgica del tempo.
La distanza dal tempo attuale è manifesta anche dalla spia fonetica della caduta della vocale finale in molte parole, il tutto a rendere le liriche di sapore ottocentesco.
È proprio dalle viscere della terra che l'autore lancia il suo Anatema contro la corruzione del quotidiano, gli altri esseri infinitamente quotidiani, siamo nel tempo che per lui più di tutto disconosce il bello, l'estetica, la tradizione, l'etica, gli dèi quindi sono sempre più in esilio. Così estraneo e distante l'autore è un Marziano; distante e rinnegato/ voglio esser dalla razza vostra che dal tempo diacronico e di sospensione disconosce Voi, entità dalle scarne vite, non siete morti! Perché mai viveste!!. Tutto ciò può sembrare il romantico distacco del poeta nella sua torre d'avorio, ma è un errore grossolano il crederlo, la sua inventiva è contro una cultura che così superficialmente non ha più senso del sacro, una frenesia tecnologica che non conosce bellezza né rispetto, al progresso scientifico non è seguita nessuna rivoluzione etica, nessuna nuova morale.
Viene naturale inserire il poeta Carlo d'Urso in quella linea poetica (un tempo si sarebbe coniato un "ismo" di turno, come "geologismo" ad esempio) di coloro che ancora sentono la ferita di aver perso il mito, il sacro, il contatto divino con la natura; si percepisce il rimprovero all'uomo, come fece un vecchio capo indiano, di non sapersi stupire più di fronte al sole che torna a sorgere il giorno dopo. Possiamo tracciare una linea imprecisa, come tutte le classificazioni o definizioni, che parta da Leopardi passando per Campana, Luzi e che arrivi a Conte, Mussapi e Guzzi.
Il poeta geologo si inoltra tra valli, monti e pianure con il suo strumento per scavare, per svellere strati ad una troppo "waste land", per trovare fossili di pensieri e glorie, alla ricerca di un germoglio primaverile, il mutamento d'un'epoca.
Accade che al profondo dello scavo, in una indicibile profondità, è come se si trovasse, per una poetica finzione, nel quarto canto dell'inferno dantesco. Nel castello del limbo in compagnia degli spiriti immensi e gloriosi che non hanno conosciuto la salvezza di cristo, lì dove soggiorna Virgilio tra "filosofica famiglia" e dove Dante fu "sesto tra cotanto senno"; il procedere del poeta geologo, il suo andare dove i cancelli del tempo si frantumano, lo conduce a dialogare coi suoi spiriti magni, eco visivo di una stella spenta.
Da Nerone a Cesare a Bach, Alessandro Magno, Ulisse, Shakespare, un troppo lungo elenco che potrebbe annoiare il miglior amico dell'enumerazione, è sufficente lasciar scorrere gli occhi sulle liriche per averne chiara l'idea.
È da questo banchetto di sapienza che trova sollievo il poeta D'Urso, da quel convivio d'eccellenza passata, immergendosi in quel calderone celtico trova la sua scintilla d'eternità, e noi con lui.

Indefesso e irretito da stupore/
Mi reincarnai nei miei versi e mi/
Abbandonai ad un sonno medievale

Confido nella speranza che questo sonno medievale non sia troppo lungo, e che la luce di quell'evo che ha visto Giotto e Dante possa illuminare i versi di questa poesia geologica.