Michele Rocchetta ha scritto diversi racconti e
molti li ha pubblicati in vari siti Web. In particolare Il Lupo
della Steppa, Parole di Sicilia, Otherside 2002.
Lavora presso una società che si occupa di indagini di
opinioni e sondaggi, pratica, tempo permettendo, modellismo statico
e divora saggi sulla seconda guerra mondiale.
Michele, perché scrivi racconti di
Fantascienza?
Perché è il genere letterario di cui mi sono nutrito
per anni e di cui mi nutro anche oggi con una certa
continuità. Quando si scrivono racconti fantastici, e di
fantascienza in particolare, si ha la possibilità di
costruire mondi o realtà fantastiche, lasciando correre
l'immaginazione.
Nel mio caso il sottogenere che prediligo è quello
dell'Ucronia o Storia Alternativa. Mi piace immaginare percorsi
storici alternativi a quelli realmente accaduti. La sfida è
quella di rendere verosimili degli avvenimenti falsi, portare il
lettore a seguire una storia, cercando di fargli dimenticare che il
mondo in cui si svolge la narrazione è sostanzialmente
falso. In questo genere di narrativa si deve stare molto attenti a
ciò che si scrive: non si può entrare in
contraddizione e il mondo che si vuole inventare deve essere
assolutamente credibile. Le storie costruite con i "...e se?"
devono essere ponderate con attenzione. Non basta dire: come
sarebbe il mondo se la seconda guerra mondiale fosse stata vinta
dai Nazisti; bisogna anche spiegare come la Germania ha vinto la
guerra (non è facile dimostrarlo). La sfida sta proprio in
questo: trovare le spiegazioni plausibili.
Come ti è venuta l'idea di "Credito
Inesegibile"?
Leggendo un saggio sulla storia militare della Seconda Guerra
Mondiale di Basil H Liddell Hart. Arrivato al luglio del 1944 e
all'attentato ad Hitler, mi sono domandato: cosa ne sarebbe stato
dell'Italia se Hitler fosse morto? se Von Kluge avesse preso il
potere e se la Germania fosse arrivata a una pace separata con gli
Angloamericani? Un paese diviso in due, con un governo Sabaudo al
Sud, appoggiato dagli Stati Uniti, e uno stato federale al Nord,
nato dall'esperienza della Resistenza e integrato in un blocco
Euro-mediterraneo, comprendente Francia, alcuni stati balcanici,
Grecia e i Paesi affacciati sul Mediterraneo Orientale e
Meridionale. Questo blocco sfrutta le crepe e gli interstizi che si
crano tra le superpotenze Urss e Usa, per affermare la propria
volontà di indipendenza e... di potenza. All'interno di
questo scenario si muovono due agenti segreti: un italiano e un
francese che... ma poi bisogna leggere!
Quale libro di fantascienza preferisci?
Quello che preferisco non è un libro, ma un ciclo, a mio
avviso imprescindibile per chi ama la fantascienza: La Fondazione.
Tra i libri di autori italiani: i romanzi di Masali, peccato che
non scriva di più.
Quale autore di fantascienza preferisci?
Coerentemente con quello che ho detto prima, dovrei rispondere
Asimov. In realtà, apprezzo molto i libri di H. Turtledove,
con una predilezione per il ciclo dell'Invasione (soprattuto il
primo libro).
Per contattarlo, scrivete a: alchimick@libero.it
Il grosso Macchi rullava pesantemente lungo la
pista dell'aeroporto internazionale di Verona Villafranca. Il boato
del quadrimotore ad elica si faceva sempre più esasperato
mentre il pesante aereo prendeva la rincorsa per spiccare il
volo.
Seduto al suo posto, la leggera ventiquattro ore scura stretta in
mano, Alberto Scandellari cercava di concentrarsi mentalmente su
qualcosa di molto statico, come una montagna, per vincere la paura
di volare che lo attanagliava tutte le volte che doveva fare un
trasferimento lungo.
Gettò uno sguardo fuori dal finestrino mentre l'aereo
prendeva velocità e vide parcheggiati, bene allineati
nell'area dell'aeroporto militare, i caccia Fiat 947, i quali
denunciavano anche troppo nella linea la loro discendenza stretta
dal Bf 109 tedesco.
In lontananza, davanti agli hangar erano ben visibili alcuni Fiat
952, i primi aerei a reazione della giovane Repubblica d'Alta
Italia.
Pensare ai caccia e accorgersi che l'aereo aveva staccato il
carrello dal suolo fu un tutt'uno.
La carlinga tremò leggermente fino a quando il velivolo non
ebbe preso quota e il pilota non ebbe diminuito la spinta dei
motori; allora tutti i passeggeri slacciarono le cinture di
sicurezza e presero a conversare tra loro.
Tutti tranne Alberto, che tenne la cintura allacciata per tutto il
viaggio fino a Bordeaux.
All'arrivo il tempo era brutto e il vento correva veloce
dall'Atlantico fino a sbattere sulle coste francesi.
L'atterraggio non fu facile.
Una volta sbrigate le pratiche alla dogana Alberto uscì
dall'enorme sala d'attesa e si diresse verso il bistrot
dall'appariscente tappezzeria gialla e verde.
Si sedette ad un tavolino vicino alla vetrina in modo da poter
osservare il movimento della gente in strada. Al cameriere
ordinò un bicchiere di vino rosso locale in un francese
perfetto.
Le pozzanghere ripresero a vibrare, percosse dalle gocce pesanti
che il cielo scuro aveva ricominciato a scaraventare sulla
città, ancora lucida di pioggia.
Gli uomini e le donne si muovevano svelti lungo i marciapiedi e
attraversavano con circospezione evitando, spesso per un soffio, di
essere travolti dalle veloci auto che affollavano il largo viale
cosparso di pozze.
Uno di questi uomini, un giovane, biondo e magro, entrò nel
bistrot, scrollò il cappello per liberarlo dall'acqua, si
guardò attorno e visto Alberto lo raggiunse con calma.
«Il signor Scandellari?» chiese con un forte accento
bretone.
«No» rispose Alberto «mi chiamo Alain, Alain
Delacourt...» Lasciò cadere l'accento sul cognome.
«Devo averla scambiata per qualcun altro.» Concluse il
nuovo arrivato «Posso?» chiese indicando il divanetto
libero di fronte all'italiano.
«Prego.» acconsentì Alberto e tornò a
guardare fuori dalla vetrina.
Passarono alcuni lunghi secondi mentre i due uomini osservavano il
movimento in strada.
«Non è sempre così il clima...» disse il
biondo
«A volte è peggio.» sentenziò Alberto
asciutto riconoscendo la parola d'ordine.
«Allora non mi ero sbagliato, lei è
Scandellari.» sorrise il francese.
«Sì. Ma che razza di agenti del controspionaggio
siete? Se c'è una parola d'ordine usatela subito!»
Alberto scosse la testa.
«Lei parla un ottimo francese, quasi senza accento.» si
complimentò il giovane.
«Grazie» rispose Scandellari.«lei chi è e
cos'ha per me?»
«Tenente George Leconte, del controspionaggio. Le ho portato
i documenti che ci sono stati richiesti da Reggio Emilia.»
allungò un plico ad Alberto che lo fece sparire rapidamente
sotto la giacca.
«Ha una macchina?»
«Parcheggiata nella strada qui di fianco.»
«Ora io mi alzerò e mi dirigerò al parcheggio
dell'aeroporto. Tra cinque minuti lei prenderà la macchina e
verrà là. Mi farò trovare.» detto questo
Alberto si alzò, fece notare al gestore che lasciava alcune
monete sul tavolo, e uscì con calma.
Dieci minuti dopo saltò all'improvviso sulla macchina di
Leconte e indicando la strada «Andiamo in un posto dove si
possa parlare senza il pericolo di essere ascoltati.»
George fece un cenno di assenso e cominciò a guidare
velocemente nel traffico seguendo la strada litoranea in direzione
nord.
Dopo diversi chilometri parcheggiarono l'auto in un largo spiazzo e
discesero alla spiaggia per mezzo di una scaletta di legno
abbarbicata ad un'immensa duna.
Scandellari alzò il bavero della giacca per ripararsi dal
vento. Almeno aveva smesso di piovere.
In auto aveva controllato il contenuto dell'involto che gli era
stato consegnato. C'erano tutti i documenti richiesti. Carta di
identità, passaporto con alcuni timbri innocui, quali quello
della dogana Svedese e di quella Irlandese, patente di guida,
documento di congedo dall'esercito francese, tessera sanitaria e un
libretto di assegni.
Ora si chiamava André Bouillon, veniva da Tour, si occupava
di antiquariato, di libri antichi in particolare, ed era in viaggio
di affari.
«Mi hanno incaricato di venire con lei in questa
missione» disse George guardando il mare.
Alberto sollevò un sopracciglio come unico gesto di
sorpresa.
«So che questo non era negli accordi, ma il mio governo ha
ragione di credere che dove andrà lei si potrebbero trovare
persone di nostro interesse. Almeno così mi hanno
detto.» raccolse alcuni ciottoli e cominciò a
lanciarli distrattamente verso il mare.
«La sua copertura?» chiese Alberto.
«Sarò un suo assistente, un praticante... un
apprendista?»
Alberto meditò un momento se non fosse il caso di chiedere
istruzioni a Reggio Emilia poi decise di soprassedere «Mi sta
bene, ma sarò chiaro... in caso di difficoltà ognuno
bada a se stesso, quindi... in campana!»
George assentì.
«Un'altra cosa...» cominciò Alberto.
«Sì?»
«I casi sono due: usi una pistola più piccola oppure
ti fai cucire le giacche su misura... hai il bavero che denuncia
una luger sotto l'ascella lontano un chilometro»
George si passò nervosamente la mano davanti all'ascella
sinistra costatando l'imbarazzante rigonfiamento.
«Torniamo all'auto» concluse Alberto.
I due risalirono in macchina e il francese guidò in silenzio
fino in città.
«Mi puoi scaricare all'Atlantique. Domani prenderò un
taxi per raggiungere la stazione. Ho un posto prenotato nella
carrozza quattro sul convoglio delle 7.50. Raggiungimi dopo la
seconda fermata. Chiaro?» istruì l'italiano.
«Chiaro» confermò George.
Erano arrivati nelle vicinanze dell'albergo. Trecento metri prima
Alberto si fece scaricare.
«Destinazione?» chiese George attraverso il finestrino
abbassato.
Alberto si piegò leggermente, sollevò un
sopracciglio, piegò le labbra in un leggero sorriso
sarcastico e disse sottovoce «Spagna...» poi si
rialzò e si avviò con passo flemmatico verso l'Hotel
Atlantique.
«Spagna... Dannato italiano, questo lo sapevo anch'io»
George, stizzito, inserì la marcia e partì veloce
lungo l'ampio viale alberato.
Il mattino dopo il tempo era cambiato drasticamente. Fiocchi di
nuvole costellavano il cielo di un azzurro tendente all'indaco. Il
sole inondava con una luce quasi bianca ogni cosa e faceva brillare
le bianche costruzioni prospicienti la stazione ferroviaria.
Alberto salì sul treno espresso in partenza per Valencia e
prese posto in un vagone blu e giallo sprofondando in un soffice
sedile di cuoio bruno.
Spiegò la copia di Le Monde e dette una scorsa ai titoli
principali.
Gli Stati Uniti si lagnavano della intollerabile presenza dei
consiglieri di guerra della Repubblica d'Alta Italia in Giordania e
Siria, contemporaneamente però sobillavano rivolte
antidemocratiche in centro america.
Qualche scaramuccia al confine tra India e Nepal manteneva la
tensione in Asia sempre molto elevata.
Il Presidente della Repubblica Francese era in visita a Reggio
Emilia per la firma del trattato bilaterale di collaborazione
economica e finanziaria.
Alberto aprì il giornale e cercò tra gli annunci
economici una particolare offerta immobiliare. Scorse tutte le case
in vendita all'estero fino a quando non trovò quella di suo
interesse.
«Trilocale, piano alto, vista mare... viale tal dei tali, ben
esposta al vento... Eccolo» aveva riconosciuto il messaggio
del suo contatto a Valencia.
Si appuntò il numero di riferimento dell'intermediatore
immobiliare, richiuse il giornale e lo appoggiò nella
cappelliera sopra la sua testa.
Fuori il paesaggio scorreva veloce, il mare alla sua destra era
ancora leggermente agitato di un blu cobalto punteggiato di schiuma
bianca.
Alla sua sinistra, pianura e basse colline erano ricoperte di
vigneti che avvolgevano grandi tenute vinicole dai tetti color
ardesia. In quella parte del paese la guerra non aveva lasciato
troppi segni e dove aveva colpito la ricostruzione era proceduta
con rapidità e precisione.
La seconda fermata importante fu a Toulouse, ai contrafforti dei
Pirenei, prima che la strada ferrata dirigesse con decisione verso
sud e attraversasse la catena montuosa in direzione di
Barcellona.
Dopo qualche minuto dalla partenza Scandellari fu raggiunto dal
giovane George che gli si sedette di fronte, vicino al
finestrino.
All'ultima fermata quasi tutti i passeggeri erano scesi e il treno
era semivuoto.
Non c'era ancora movimento turistico e non erano in tanti dalla
Francia ad andare in Spagna in quel periodo dell'anno.
Alberto, appoggiando la testa contro il finestrino, poteva vedere
chiaramente i contrafforti dei Pirenei scuri di boschi e,
più lontano, le cime più alte candide di neve.
«Spagna, ma dove?» ruppe il silenzio George.
«Valencia, nei dintorni...» lasciò cadere il
discorso Alberto continuando a fissare il panorama.
«Cosa andiamo a fare... Cosa c'è di interessante a
Valencia per un agente del SDF?» riaprì il discorso il
francese.
«George, ascolta» Alberto distolse lo sguardo dal
finestrino e fissò il suo compagno di viaggio «I
particolari che posso rivelarti ora sono solo questi, e forse ti ho
già detto anche troppo. Se ci fermano alla frontiera con la
Spagna meno sai, meno puoi dire. Questo lo capisci?»
Il giovane fece un cenno di assenso. Il ragionamento pareva
piuttosto sensato.
«Intanto, se vuoi, puoi dare un'occhiata al giornale. Non che
ci sia qualcosa di interessante... solo che i Russi oggi sono
riusciti a non entrare in prima pagina.»
George accettò l'offerta e aprì il quotidiano,
cominciando dalla pagina dello sport.
Alberto accennò un sorriso e poi tornò a guardare le
montagne che si erano fatte sensibilmente più vicine.
Alla frontiera non ci furono problemi e il passaporto falso di
Alberto funzionò alla perfezione. La guardia di dogana diede
un'occhiata distratta alla fotografia e, annoiato, passò
allo scompartimento successivo.
Dieci minuti dopo che il treno era ripartito Alberto si alzò
e invitò il suo compagno a fare altrettanto «Andiamo
nella prima carrozza, questa la staccheranno alla prossima
fermata».
Visto lo sguardo interrogativo di George, Alberto spiegò
«Le carrozze fino alla tre vanno a Valencia, tutte le altre
si fermano a Barcellona, e a noi interessa Valencia».
«Adesso posso sapere il motivo della missione?» chiese
il giovane francese.
«Veramente non potresti... comunque sto andando a cercare
qualcuno» concluse Alberto.
George fece un cenno di assenso, si alzò e andò a
fumare una sigaretta nel corridoio, fuori dallo scompartimento
«Sto andando a cercare qualcuno...« scimmiottò
«chiaro che stai andando a cercare qualcuno... è il
tuo mestiere». Si accese nervosamente la Gauloise e si mise a
guardare il paesaggio.
Alberto aprì un piccolo taccuino nero e con una minuscola
matita vergò alcune righe. Era alle prese con il suo eterno
romanzo che non voleva uscire dalla sua testa, meglio, dal suo
stomaco, perché era allo stomaco che si sentiva stringere
quando aveva l'impulso di scrivere.
Quante idee nel dormiveglia, quanti personaggi gli erano venuti
alla memoria, pronti per essere fissati sulla carta.
Ma quando afferrava carta e penna... beh, allora tutto diventava
nero come una lavagna pulita con una spugna bagnata e lui...
Richiuse il taccuino, appoggiò la testa contro il sedile e,
guardando le cime delle montagne che passavano veloci, si
addormentò.
La voce stentorea che annunciava le fermate successive lo
svegliò di soprassalto.
Allarmato, come per istinto, si guardò rapidamente
l'avambraccio dove campeggiava la lunga fila di numeri neri.
Erano sempre lì, e lui si chiedeva quando non ci avrebbe
più fatto caso.
«Sei ebreo?» gli chiese George con la strana,
innocente, insolenza dei giovani.
«No» scosse la testa accompagnando il gesto con un
sorriso amaro »ero un partigiano e mi hanno preso pochi mesi
prima della fine della guerra... mi è andata bene, a
Mathausen ci sono stato solo tre settimane poi, dopo il primo
settembre i tedeschi mi hanno lasciato andare».
Sospirò profondamente «Però il numerino hanno
fatto a tempo ad assegnarmelo»,
George assentì grave «Io avevo un cugino ebreo.
L'hanno preso nel quaranta e non se ne è più saputo
nulla. Io invece per non finire in un campo di lavoro mi sono
attraversato la Loira a nuoto e mi sono dato alla macchia nella
zona di Tours».
La linea ferroviaria correva lungo la costa e dai finestrini del
corridoio si poteva vedere il mare, color bottiglia, infrangersi
con vigore contro la bassa spiaggia di sabbia chiara.
Qua e là gabbiani sonnolenti si lasciavano cullare dalle
onde.
La luce del sole era ancora forte e si schiantava in mille
riverberi quando colpiva una casa bianca o le parti cromate delle
rare auto che transitavano sulla strada litoranea.
George stava fumando l'ennesima sigaretta dalla carta gialla e
Alberto lo osservava pensieroso da dentro allo scompartimento dove
era rimasto da solo.
Era giovane e sembrava un po' ingenuo per essere un agente del
controspionaggio. Parlava un po' troppo ma sapeva ascoltare
concluse Alberto notando il taglio più abbondante dell'abito
nuovo del giovane.
Improvvisamente si alzò e uscì dallo scompartimento
facendo scorrere con decisione la porta a vetri.
Si appoggiò al corrimano che tagliava in orizzontale la luce
del finestrino e guardando un punto posto all'orizzonte
informò il suo compagno «Non scendiamo a Valencia, ma
tre fermate dopo».
«Come mai?» chiese George.
«Valencia pullula di agenti, due francesi che scendono da un
treno che arriva da Bordeaux, senza valige darebbero un po' troppo
nell'occhio».
I due restarono in silenzio per qualche minuto.
«Scendiamo dopo e torniamo indietro in pullman»
informò Alberto.
«Bene» concluse il francese che rientrò nello
scompartimento e si sistemò come per fare un sonnellino.
Alberto rimase fuori, da solo nel corridoio, la luce che
attraversava i finestrini del treno da parte a parte proiettava
l'ombra del convoglio ai piedi della massicciata ferroviaria. Nel
pomeriggio inoltrato la sua memoria tornò ai titoli dei
giornali dei giorni in cui si stava concludendo la battaglia per
Madrid e all'esaltazione del regime per la vittoria dei cugini
spagnoli.
Come era cambiato il mondo. La Spagna ora era un isola di fascismo
nell'Europa postbellica, in quell'Europa che stentava a trovare un
equilibrio.
In un continente dove le guerre più o meno fredde,
più o meno grandi, continuavano a provocare scosse di
assestamento, con conseguenze in tutto il bacino del
Mediterraneo.
Quante volte era stato in Spagna? Tre o quattro, sempre per lavoro,
ma il paese non stava cambiando percettibilmente. Sembrava
imbalsamato dai finanziamenti anglo americani.
Un paese utile a bilanciare la nuova irruenza di Francia e Alta
Italia.
Fresche neopotenze, portatrici di un'idea pericolosa: è
possibile non allinearsi.
Valencia passò in un frastuono di passeggeri vocianti e
venditori di vivande che urlavano i loro prodotti a fianco di
carretti multicolori stracarichi di involti, sacchetti e
bottiglie.
Il convoglio proseguì il viaggio giungendo finalmente a
Jativa.
I due scesero dal treno guardandosi attorno per vedere se sulla
banchina ci fosse qualcuno dall'atteggiamento sospetto.
Non c'era nessuno e, uscendo dalla stazione, si aveva la sensazione
che la cittadina stesse già dormendo, quando, in
realtà, tutti stavano cenando.
I due agenti si diressero verso un piccolo albergo segnalato dalla
guida turistica tascabile presa alla stazione.
Il portiere assegnò loro due camere al primo piano con le
finestre sulla strada.
Una volta lasciati i bagagli Alberto e George si ritrovarono nel
piccolo ristorante situato a pochi metri dall'albergo, ordinarono
paella valenciana e una caraffa di vino rosso del posto che si
premurarono di allungare con acqua per renderlo maggiormente
accettabile a palati più raffinati.
Terminata la cena si spostarono sotto il vasto terrazzo che si
apriva in direzione delle brulle colline, seduti su comode
poltroncine di vimini, sorseggiarono un liquore locale ambrato che
rilasciava un forte profumo di basilico.
George si accese una sigaretta ed espirò una densa nuvola di
fumo azzurro. Alberto estrasse un sottile pacchetto di Milit e si
apprestò a fumare la sola sigaretta della giornata
«Fumi troppo» sentenziò nei confronti del
collega francese.
«Può darsi, ma è l'unico vizio che ho. Credo di
potermelo permettere»
«Certo» concluse l'italiano.
Rimasero in silenzio assaporando l'aria che li accarezzava con
folate sature di caldi aromi di erbe, terra bruciata dal sole e
mare agitato.
«Vorresti sapere come ci muoveremo adesso?» chiese
Alberto spegnendo la sua sigaretta dentro un posacenere pieno di
sabbia.
«Mi sarebbe utile per dare un senso al mio viaggio»
rispose George.
Alberto assentì «Bene, domani andremo verso Valencia
con qualche mezzo locale che non sia un taxi. Pullman o treno
locale va bene comunque. Ci fermeremo prima di arrivare in
città. Il posto che ci interessa si trova lungo la
litoranea. Lì mi presenterò come mercante di libri
antichi. La persona che cerco ha con sé un vero patrimonio
in libri e non naviga in buone acque, quindi ha necessità di
vendere».
«Ma siamo qui davvero per recuperare qualche libro?»
chiese George.
«Intanto entriamo in casa di questa persona, poi si
vedrà».
Il mattino successivo i due salirono di buon ora su un pullman che
aveva visto altri splendori. La carrozzeria bianca e rossa era
ammaccata in più punti e ossidata quasi lungo tutto il
perimetro della vettura, i copri cerchioni un tempo cromati erano
anneriti e polverosi.
All'interno le scomode poltroncine in pelle sintetica sembravano
amplificare il calore per tormentare i malaugurati passeggeri.
L'autista dai grandi baffi grigi macchiati di nicotina era
assolutamente in tono con il proprio mezzo. Fumava una sigaretta
puzzolente che gli pendeva dalle labbra come se fosse stata
attaccata con una goccia di colla e portava una camicia, troppo
stretta per contenere il ventre prominente, spavaldamente aperta
sul torace a mostrare una grossa catena con madonna addolorata.
Il tutto in poco meno di un metro e mezzo di altezza.
Assegnava i biglietti in cambio di poche pesetas cercando,
contemporaneamente di non far cadere dalla testa impomatata il
cappello dall'enorme fregio dorato, simbolo delle linee pubbliche
della municipalità di Valencia.
Alberto e George si sedettero in fondo al pullman in modo da poter
controllare agevolmente tutti i passeggeri e si apprestarono a
subire i cinquanta minuti di viaggio previsti dall'orario appeso
sotto la pensilina.
Il viaggio trascorse monotono con George che guardava il paesaggio
brullo fuori dal finestrino, così differente da quello della
sua Bretagna, e con Alberto che rimuginava un piano d'azione che
non voleva prendere forma nella sua mente.
«Poco male» risolse con una leggera alzata di spalla
»andrò là e suonerò il
campanello».
L'agente italiano ebbe anche qualche momento per pensare alla sua
casa, in via S.Carlo, una parallela di via Roma, zona di casini e
di vecchie cantine che nascondevano antichi mulini da seta.
Pensò ai suoi cinquanta metri quadrati di
quotidianità e fu preso da un moto di nostalgia.
Non fece in tempo a rendersene conto che dovettero scendere dal
mezzo.
Il pullman ripartì rombando come un carro armato e
sollevando una leggera nube di sabbia che il vento aveva depositato
sull'asfalto gibbuto.
Alberto si mise una mano davanti agli occhi, coperti comunque da
due spesse lenti scure, mentre George si riparava la bocca con un
fazzoletto.
Una volta lasciata depositare la polvere i due si guardarono
attorno.
In spiaggia alcuni ragazzi scherzavano e schiamazzavano.
Dall'altro lato della strada una fila ordinata di piccole ville
circondate da fitti giardini rispendevano di allegri colori
pastello.
Macchie di buganvillee esplodevano tra cipressi, ulivi e grossi
agglomerati di fichi.
«Sembra di essere nel Regno d'Italia» commentò
asciutto George.
Alberto confermò con un mugugno aggiungendo infine
«Sì, ma qui non c'è stata la guerra»
Attraversarono la strada e si incamminarono in direzione della
città controllando i numeri civici.
«Non manca molto ormai» annunciò l'italiano
«ora io andrò a suonare al cancello e tu rimarrai qui
a vedere se arriva qualcuno. Non dovrebbe comunque essere un
problema, Ma in caso di emergenza mi farà comodo qualcuno
che mi copre la fuga».
«Ma quale fuga?» chiese George «se non abbiamo
nemmeno un mezzo con il quale scappare!»
«Uomo di poca fede...» Alberto fece ballonzolare
davanti agli occhi del francese la chiave di avviamento di
un'automobile e indicò una vettura parcheggiata sull'altro
lato della strada.
Al sole, coperta di polvere, una Lancia con qualche anno di troppo
li stava aspettando, forse da qualche giorno.
«Il mio basista a Barcellona ce l'ha procurata e prima di
partire ho ricevuto una copia delle chiavi» sorrise l'agente
dell'SDF «sul giornale il numero di riferimento
dell'intermediatore immobiliare rappresentava il numero di targa
dell'auto a nostra disposizione.»
«Molto bene» sorrise il giovane «Qual è il
piano B?»
«Non c'è nessun piano B» rispose Alberto
guardandosi attorno.
«Come sarebbe a dire 'Non c'è nessun piano B'
«
«I piani secondari servono soltanto a deviare gli sforzi dal
piano principale. Tendi a rilassarti mentalmente, sapendo che
c'è un'alternativa» fissò negli occhi il
giovane collega «non è legge, sia chiaro. Io agisco
così e mi è sempre andata bene».
George assentì con poca convinzione e andò a sedersi
in macchina.
Alberto si diresse verso il cancello di entrata del piccolo
giardino, tirò un profondo sospiro e spinse con vigore il
pulsante del campanello.
Passarono un paio di minuti e un'anziana donna con i capelli grigi
raccolti in cima al capo e la vita cinta da un ampio grembiule
venne con lentezza esasperante ad aprire il cancello.
Esprimendosi in uno spagnolo scolastico si identificò come
l'antiquario André Bouillon che desiderava parlare con
José Castillo per una proposta d'affari.
La donna lo fece attendere sotto il sole rovente mentre andava a
prendere istruzioni. Alberto ebbe modo di guardarsi attorno e
costatare che il giardino era ben curato e lussureggiante di ogni
tipo di pianta mediterranea.
Qui un folto cespuglio di oleandri dai delicati fiori rosati,
là si ergevano tre cipressi scuri ed austeri, le aiuole
erano bordate di piccoli fiori gialli che non seppe riconoscere,
violette screziate di un giallo intenso occhieggiavano dall'ombra
di un paio di panchine di pietra poste ad angolo sotto un maestoso
fico.
Tra la vegetazione volavano e rimbalzavano numerose farfalle
inebriate dal calore e dalle fragranze di salvia, timo e
basilico.
Di quando in quando qualche iridescente cetonia attraversava il
vialetto andando a posarsi goffamente su qualche fiore carnoso.
L'atterraggio non era mai semplice e gli scarabei paffuti dovevano
sempre sistemare le ali sotto le elitre con movimenti goffi.
Sembrava essere trascorsa un'eternità quando, dopo cinque
minuti, la vecchia tornò con il suo passo cadenzato e
dondolante.
Gli rivolse una frase sparata a una velocità che Alberto non
era in grado di sostenere, ma il cenno della mano fu sufficiente
per capire che era stato ammesso a proseguire oltre.
Accompagnato da questo Caronte muliebre entrò nella bassa
costruzione liberty perdendo momentaneamente la vista nella
penombra dell'ingresso.
Attraversarono un ampio salone dall'arredamento sobrio ma elegante
e si fermarono davanti ad una porta finestra ampia e contornata da
due pesanti tende a fiori stampati.
La donna si fece da parte e indicò ad Alberto di proseguire
sull'ampio terrazzo verso un ombrellone verde.
Antonio si fece avanti con decisione socchiudendo gli occhi per il
rinnovato riverbero.
Qualcuno si mosse all'ombra dell'ampio parasole. Una figura si
alzò da una delle poltrone in vimini con lo schienale alto e
uscì alla luce del sole.
Il primo pensiero di Alberto fu 'Non è lui, i nostri
informatori hanno preso un abbaglio', poi, avvicinandosi lo
riconobbe nonostante tutto.
«Monsieur Bouillon...» disse l'uomo tendendo la mano in
un amichevole segno di saluto.
Parlava un francese ben accentato anche se si capiva subito che
mancava di pratica.
«Senor Castillo, piacere» rispose Alberto e aggiunse
cambiando idioma «se vuole possiamo parlare anche in
italiano...»
Sul volto di Castillo, tra la folta barba ben curata, apparve un
sorriso sollevato «Temevo parlasse soltanto francese, lingua
che conosco, ma alla quale non sono avvezzo».
«L'italiano è una lingua che nel mio mestiere è
fondamentale, un po' come l'inglese nell'alta finanza».
Alberto si accomodò su una poltrona di giunco ricoperta da
sottili cuscini rosa antico.
«Lei è antiquario, se non erro» disse
Castillo.
Iniziava ora una delle due parti tra le più spiacevoli del
suo mestiere: mentire per accertarsi di non essere in errore.
«Mi occupo soprattutto di libri antichi, di incunaboli, ma
non disdegno dipinti e piccolo mobilio» assentì
Alberto.
«Come ha avuto il mio nome?» chiese asciutto
Castillo.
«Un collega di Lisbona, mi ha detto che forse lei possiede
una rara edizione napoletana del XVIII secolo della Divina
commedia. Potrei essere interessato» rispose Alberto.
L'informazione era giusta e il presunto collega in realtà
non sapeva di aver dato questa informazione ad uno degli agenti
dell'SDF in Portogallo.
Il mercante portoghese era stato contattato a sua insaputa durante
una fiera scambio a Madrid e sempre a sua insaputa era diventato un
informatore.
Castillo assentì soddisfatto «Abbiamo fatto diversi
affari proficui, io e il suo collega, negli ultimi
tempi».
«Così mi ha detto» confermò Alberto
«mi ha detto anche, che per problemi fiscali, le trattative
dovrebbero essere condotte con una certa discrezione».
«Ovviamente» disse asciutto Castillo.
La barba nascondeva a stento un mento volitivo e il leggero panama
copriva con scarso successo una calvizie completa.
Castillo poteva avere una settantina d'anni e anche questo dato
coincideva.
La voce ferma e profonda aveva perso l'abitudine a scandire le
parole e si era fatta un poco strascicante, non sgradevole,
però.
Alberto stava scrutando il suo interlocutore cercando tutti i segni
che potessero confermare la convinzione che si era già fatto
di essere di fronte alla persona giusta.
«Vuole qualcosa da bere?» chiese Castillo
all'improvviso e al cenno di assenso di Alberto aggiunse
«alcolico o analcolico?»
«Analcolico, per favore. Andrebbe perfettamente
un'orzata»
«Benissimo» il padrone di casa fece un segno e come per
magia un uomo uscì da dietro ad un cespuglio avvicinandosi
con solerzia.
L'uomo teneva a bandoliera un mab.
«Dì alla signora che ci porti due orzate e che si
unisca a noi, poi tu e Andrea prendetevi il resto della mattina di
libertà» ordinò.
«Ma, d... senor...» cercò di protestare
l'uomo.
«Nessun ma! Portate con voi anche la vecchia Anita»
ordinò Castillo con un tono che sembrava la vibrazione di
una lama di acciaio.
L'uomo armato piegò il capo, squadrò Alberto e si
ritirò in buon ordine, seguito da un altro mastino che era
comparso da un vialetto laterale.
Durante lo scambio di battute Alberto aveva notato un teschio
sormontato da un dieci in cifre romane tatuato sull'avambraccio
della guardia.
«Questo è un bel paese» disse Castillo
osservando lontano la sottile linea di costa «Bello e
ospitale».
Castillo sembrava prendere tempo, pareva voler fare
conversazione.
«Molto bello» confermò Alberto.
Il discorso sarebbe potuto anche vertere sulle condizioni
meteorologiche quando dalla grande porta che si affacciava sul
terrazzo uscì una donna che portava su un vassoio in legno
due bicchieri colmi di bibita.
Si avvicinò con passi misurati, sorridendo.
Alberto la riconobbe immediatamente.
«Grazie Claretta» esordì Castillo facendole
segno di sedere.
«Ti presento il signor Bouillon, è un antiquario
interessato ad alcuni oggetti che sono in nostro possesso. Sarebbe
disposto ad acquistarli, sempre che tu sia d'accordo...»
La donna, ancora affascinante, per quanto invecchiata rispetto a
come se la ricordava Alberto, fece un sorriso mentre porgeva la
mano che l'agente strinse delicatamente.
«Mio caro, sai bene che qualche soldo ci può tornare
utile per il futuro».
«Le donne sono sempre immerse in progetti»
affermò Castillo con un sorriso. Poi adombrandosi
leggermente «Anch'io un tempo ero pieno di progetti, poi le
cose non sono andate come avevo desiderato e ora mi ritrovo a dover
vendere il patrimonio di famiglia».
Scosse la testa sconsolato «Ora che siamo rimasti soli
possiamo concludere il nostro affare».
Fece per alzarsi ma si trovò di fronte alla canna del
silenziatore montato sulla Beretta di Alberto.
Lo sguardo si ottenebrò di colpo e il corpo dell'uomo
ricadde sulla poltrona mentre la donna si lasciò sfuggire
soltanto un leggero mugugno di sconforto.
«Duce, sono venuto ad esigere un credito che gli Italiani
hanno nei suoi confronti» la voce di Alberto non denotava
emozioni particolari, stava semplicemente facendo il suo
dovere.
«Prima o poi doveva succedere» disse asciutto
l'uomo.
Poi guardò Claretta «Troppe volte siamo sfuggiti ad
agguati, troppe volte abbiamo vissuto pericolosamente» poi
rivolgendosi ad Alberto «è stato abile
signor...?»
«Scandellari, Alberto Scandellari.» lo informò
«dopo tutti i tentativi che sono stati fatti da colleghi
più irruenti, i miei superiori hanno pensato che si dovesse
cambiare strategia e mi hanno chiamato»
«Ora lei ci ucciderà, vero?» chiese con voce
ferma la Petacci.
«Non vedo quale altra conclusione si potrebbe prendere in
considerazione...» rispose Alberto.
«Faccia il suo dovere, dunque.» li interruppe Mussolini
«Un figlio d'Italia non teme la morte»
Alberto inarcò perplesso un sopracciglio in direzione del
Duce ed esplose sei colpi silenziosi sulla coppia che tanta parte
aveva avuto nella storia dell'Italia negli ultimi quarant'anni.
I due corpi giacevano, come afflosciati, sulle poltrone del
giardino.
Alberto raccolse il panama che era caduto dalla testa del Duce e,
dopo aver riposto diligentemente la pistola nella fondina si
avviò verso l'uscita.
Percorse con calma il vialetto verso il cancello e raggiunse l'auto
dove George lo stava aspettando.
Il giovane lo guardò interrogativo.
«Torniamo all'albergo, dobbiamo prendere il treno per
Valencia dove ci aspetta un'imbarcazione del mio paese che ci
riporterà nell'Alta Italia»
George guidò silenzioso per un quarto d'ora, poi
tornò alla carica «Il bersaglio chi era?»
«Mussolini» rispose senza battere ciglio Alberto.
Il giovane francese bloccò i freni e accostò con una
manovra brusca.
«Il Duce?» esclamò «Dovevi eliminare il
Duce e non mi hai detto nulla per tutto questo tempo?»
Alberto lo guardò da sotto la tesa del panama «Certo
che non te l'ho detto. Mica lo dovevi eliminare tu».
George riprese a guidare «Come è andata?»
«Come vuoi che sia andata. Li ho ammazzati.»
«Ammazzati chi?»
«Mussolini e la Petacci» rispose Alberto «ma non
è stata una cosa pulita»
«Perché?»
«Perché avrei preferito che fosse solo, in fondo il
bersaglio era soltanto lui».
Ci fu un lungo silenzio.
Poi sottovoce ripeté «Ho ucciso dei simboli, non delle
persone», gli occhi gli divennero lucidi, ma nemmeno una
lacrima spuntò da sotto la sottile tesa del cappello.
L'uomo robusto osservò, da una finestra
del primo piano, Alberto che si allontanava e, soltanto dopo
qualche secondo, lasciò ricadere le tende di pizzo.
Si voltò scuotendo la testa con aria sconsolata.
«Fortunatamente ti ho dato ascolto quando mi hai suggerito di
non fidarmi del mercante d'arte» si rivolse all'uomo dagli
spessi occhiali neri che stava seduto su una poltrona in fondo alla
stanza, lontano dalla finestra.
«I nostri servizi segreti ci avevano avvertito che alle sue
costole era stato lanciato un mastino molto astuto»
rispose.
«Voi americani siete sempre molto bene informati, dottor
Kissinger» osservò l'uomo più anziano.
«Il mio compito è preservare la sua vita e quella dei
suoi cari, Duce» sostenne con naturalezza l'americano
«Per questo ora noi ci imbarcheremo su una lancia, qui sulla
spiaggia, e lasceremo la Spagna, che ha dimostrato di non essere
più un luogo sicuro per lei».
«Dove andremo?» chiese Mussolini.
«Questo, Duce, glielo dirò una volta che saremo a
bordo» rispose asciutto Kissinger.
«Quanti altri attori dovranno rischiare e perdere la vita per
noi?» chiese la donna rimasta in silenzio fino a quel
momento.
«Signora Petacci, sanno quello che rischiano e sono ben
pagati glielo assicuro. Speriamo che questi siano gli ultimi e che
il governo dell'Alta Italia sia convinto di avervi
eliminati.» le rispose l'americano «Ora andiamo, la sua
vita è preziosa, Duce».
«Soprattutto per gli Stati Uniti» sostenne
Mussolini.
«Anche... per gli Stati Uniti» aggiunse Claretta
seguendo il Duce fuori dalla stanza.
Kissinger, con un sorriso sornione, richiuse la porta della camera
e li raggiunse mentre scendevano le scale.