Giuseppe, perché scrivi racconti di
Fantascienza?
I racconti di Fantascienza (o di fantasia in generale) permettono
di evadere dalla realtà, dalla monotonia di tutti i giorni,
dal perpetuo sussseguirsi delle "cose della Vita" che incuranti di
Te, ti attorniano e ti annoiano. Scrivo di Fantascienza anche per
permettere alla mia fantasia di ideare trame intricate e
leggermente assurde, sfidandomi poi a risolverle con qualche colpo
di Genio (che raramente arriva) o con un 'normale' colpo di
scena.
Come ti è venuta l'idea di "La Ricerca"?
Avevo iniziato a scrivere "La Ricerca" più di un anno fa,
con un' altra trama. Le idee poi si sono smarrite e il racconto non
funzionava... pian piano però, riprendendolo in diversi
periodi, sono riuscito a dirottare la trama iniziale verso la
struttura che poi ha reso di più, almeno questa è la
mia opinione. Sarebbe distruttivo rivelare il modo in cui mi
è venuta l'idea del racconto, rovinerei tutto.
Quale libro di fantascienza preferisci?
Non ne preferisco uno in particolare: Ubik di Philip K. Dick
è uno dei miei preferiti, ma non è l'unico, e la
lista sarebbe molto lunga.
Quale autore di fantascienza preferisci?
In assoluto Philip K. Dick. Le sue idee sono geniali, superano di
gran lunga tutta la produzione di un Asimov, ad esempio, anche se
l'ultimo è molto più popolare e commerciale.
E, in realtà, la fantascienza di Dick non è vera e
propria fantascienza, ma analisi sociale e psicologica dell'uomo
immesso in un ambiente che non appartiene al presente, ma a un
futuro immaginato dallo stesso autore.
Potete contattare Giuseppe Scapola alla E-mail: entalion@yahoo.it
Avrebbe dovuto già avvistare Arad da un
paio di minuti. La strada però era ancora deserta, solo un
lieve crinale davanti alla sua macchina.
Il cielo era limpido, senza alcuna nuvola che ne offuscasse la
tiepida luce. Superò il crinale e vide subito la
Città di Arad, meta iniziale della sua ricerca.
La sua Ricerca.
Gli era stata assegnata una ben strana ricerca e gli era stata
fornita una poco «loquace « tabella su cui vi erano
indicate le distanze in linea d'aria tra le varie città
rumene.
Lui non si chiese il motivo di questa strano compito. Era il suo
lavoro, e lo svolgeva senza fiatare. Eseguiva gli ordini che gli
erano inviati - nelle più strambe maniere, c'era da dire - e
ne trasmetteva i risultati alla sua società.
Arad era completamente deserta.
Parcheggiò l'auto e scese in cerca di qualcuno. Si
guardò attorno.
Silenzio totale.
Si incamminò in cerca di qualche locale aperto. Per strada
incontrò una vecchia, vestita di tutto punto, che spingeva,
con evidente indolenza, uno sporco passeggino che ospitava un
neonato dormiente.
«Ehm, scusi, saprebbe indicarmi un locale in cui mangiare un
boccone?» chiese lui.
La vecchia si fermò e lo guardò con occhi vacui. Con
una mano scheletrica indicò una direzione.
Lui ringraziò e fu felice di allontanarsi da quel lugubre
esemplare di donna.
Entrò nel locale birreria "Mesc Frumosc"
e gettò un'occhiata veloce agli avventori. Un mormorio
sommesso faceva da sottofondo al tintinnare di bicchieri smossi dal
vecchio locandiere.
«Salute! Una Birra grazie!» chiese lui.
La birra apparve sul bancone in pochi secondi. Lui cercava di
imbastire un discorso dal quale poi trarre informazioni per la sua
ricerca.
«Le potrei consigliare di prendere la strada che porta a
Sibiu, è abbastanza scorrevole e poco trafficata»
disse il birraio «anche se, forse, il percorso per Timisoara
è più breve...»
«Grazie»
Decise di passare la notte in macchina. Vi era
abituato.
Chiuse la sicura dello sportello e si sistemò alla meglio.
Chiuse Gli occhi.
Flash.
Si risvegliò di colpo, con la netta sensazione che delle
persone lo stessero guardando attraverso il parabrezza
dell'auto.
Non c'era nessuno. 3.52.
Decise di rimettersi in viaggio. Non voleva più
addormentarsi. Accese l'auto aspettando che si riscaldasse un po'
il motore...guardò nello specchietto retrovisore. Una
sottile nebbiolina si stava alzando dal tubo di scappamento.
Guardò ancora perché gli era parso di scorgere
qualcosa. Si girò per guardare meglio.
Federico Gravina rientrò nel suo ufficio
dopo la pausa caffè durata 3m e 42s. La porta a vetri si
aprì automaticamente. Il palazzo era deserto, a parte gli
agenti di sicurezza ai piani inferiori. Gli unici pubblici accessi
alla struttura.
Si sedette alla sua scrivania e gettò il bicchiere vuoto del
caffè nel cestino della spazzatura.
Il PC era acceso e il cursore del Java Compiler lampeggiava e
aspettava, famelico, nuove righe di codice.
Con un sospiro di stanchezza si rimise al lavoro.
Ma, In realtà, non stava lavorando.
La strada era lunga. L'Auto scivolava silenziosa
nella notte. Un rumore cupo costante sull'onda della terra
bruna.
Si era messo frettolosamente in viaggio dopo aver visto quella cosa
dietro la sua macchina.
Era sulla strada per Timisoara già da tre quarti d'ora e
l'ambiente esterno non era cambiato per nulla. Da quando si era
risvegliato aveva quella sensazione scura che gli attanagliava lo
stomaco. Cercava di guardare fisso davanti a sé la strada
che indifferente gli si dipanava davanti. Non poteva aver visto
quella cosa all'esterno dell'auto. Quelle erano visioni che si
presentavano solo in alcuni film. Film di fantascienza.
Cercò di ricordarsi il nome di quello che aveva proprio
avuto un grande successo ultimamente... si chiamava... si
chiamava... niente, non riusciva a ricordarselo. Tornò a
guardare la strada.
Federico Gravina lavorava alacremente sulla tastiera del computer con la speranza che le guardie non facessero il loro giro di ispezione. Gli mancava ancora parecchio perché potesse porre fine al suo progetto e le ore della notte erano le sue uniche alleate. Di giorno doveva far finta di niente e sedere alla sua scrivania cercando di far buon viso a cattivo gioco. Il gioco che conducevano i suoi colleghi, ignari e tranquilli, su quello che stavano facendo. Guardò il monitor del pc: trecento righe di Java stavano per essere ricompilate; prima di schiacciare il tasto f9 ricordò per un attimo i tempi della sua tesi di laurea. Il tasto venne premuto e una scritta lampeggiante invitò l'uomo ad attendere.
Controllò la tabella delle distanze e
eseguì una fugace correzione. Lasciò l'auto in un
parcheggio che sembrava molto poco custodito e come faceva in ogni
paese che visitava si apprestò a cercare una birreria in cui
attingere informazioni. Camminò fino a quello che credeva
essere il centro cittadino, di fronte a lui si ergeva una chiesa
(Biserica) dall'aspetto poco invitante con un grosso campanile
attaccato alla struttura principale. La piazza in cui si trovava
era larga e ben curata; si guardò attorno per scorgere una
parvenza di locale favorevole alla sua ricerca e dopo aver scelto
si diresse verso il pub che sorgeva sul fianco di un palazzo
disadorno di mattoni grigi. Al suo interno l'atmosfera era
appestata da una spessa cortina di fumo che entrava subito nelle
narici e un incessante chiacchiericcio invadeva il campo acustico
personale fino a dare fastidio. Si sedette al tavolo aspettando che
qualche cameriere si rendesse conto della sua voglia di birra.
Strano, ma non arrivò nessuno: il ragazzo che serviva ai
tavoli gironzolava per il pub per quello che sembrava un percorso
programmato, faceva sempre lo stesso giro. Cercò di attirare
la sua attenzione alzando un braccio: il ragazzo gli si
avvicinò guardandolo con occhi vacui e con un viso che
sembrava disegnato su di una maschera di gomma.
«Whenstelz gutter wan?» gli chiese il cameriere.
«Come scusa? Parli Rumeno?» provò lui cercando
di rispondergli nel miglior rumeno che potesse tirar fuori.
«Ment gutter wan?» gli rispose il ragazzo porgendogli
una carta con le bevande.
«Ma che razza di lingua parla?» si chiese tra sé
«sembra un incrocio di tedesco e ...»
Un leggero pizzicore alla base del collo lo distrasse un attimo.
Gli capitava più frequentemente ora, come se due nervi si
accavallassero.
«Mi wan nique ber!» disse ordinandogli una birra
infastidito. Il ragazzo si allontanò, segno che aveva
capito. Lui non si chiese minimamente come potesse aver comunicato
con il garzone quando fino a pochi secondi prima non capiva un
accidenti quello che diceva.
Gli occhi gli si chiudevano per la stanchezza. Il monitor del pc era ormai un suo nemico mortale. Righe e righe di codice si erano aggiunte al programma originale di Federico Gravina. Per poter continuare aveva dovuto installare una patch. Purtroppo però il problema era sempre il tempo. Erano quasi le cinque e tra un'ora sarebbero arrivati i suoi colleghi per riprendere il lavoro. Il suo responsabile aveva cominciato a guardarlo con uno sguardo indagatore e lui, per non insospettirlo, aveva dato fondo a tutte le sue energie per far vedere che il lavoro andava bene. Non poteva permettersi di essere licenziato. Di Notte Federico faceva un passo avanti, di giorno ne faceva due indietro.
La sua birra era finita da un pezzo. L'atmosfera intorno a lui era più cupa che mai: le fioche luci appese alle pareti non bastavano ad illuminare le losche facce delle persone che erano sedute nei tavoli attorno a lui. Cosa positiva, nessuno sembrava fare caso a lui, tranne forse il cameriere che, nel suo perpetuo e identico giro, gli rivolgeva la solita domanda. Aveva parlato con una vecchia signora - che in un locale pieno di figuri poco raccomandabili era sembrata proprio fuori posto «, le aveva offerto una tisana «Stchonsen» e aveva tratto ulteriori elementi attinenti alla sua ricerca. La signora aveva detto di chiamarsi Eustasia Ristonflen yCannela, era sparita nella nebbia delle sigarette dopo aver mormorato un roco Grazie. Ora aveva la tabella davanti ai suoi occhi e con le informazioni fornitegli dalla vecchina eseguì un'altra correzione sui percorsi e sulle distanze in linea d'aria. La sua Ricerca procedeva bene.
«Buongiorno a Tutti!» disse Jorge
entrando nell'ufficio. Federico alzò quel tanto la mano per
simulare un vago saluto.
«Ciao Fede» riprese Jorge avvicinandosi «come va
stamattina?» e gli strizzò l'occhio. Federico fece
finta di non aver visto e mormorò un «Tutto ok, Jorge,
hai completato il codice che mi avevi promesso per
stamattina?»
«Codice? Quale codice? Mica quello, per caso, della
autovettura?» e sogghignando gli lanciò un cd che
Federico prese al volo abbozzando un sorriso.
«Bravo, e ora a cuccia, stamattina dobbiamo telefonare al
nostro agente per sapere come va.»
«Te ne occupi tu, vero?»
«Già, lo faccio io.» rispose Federico.
Prese il telefono USB collegato al Pc e compose il numero
dell'agente.
Era ancora nella birreria quando gli
squillò il cellulare. Era la Società.
«Sì? Buongiorno.» rispose.
«Sono Federico Gravina, coma va oggi?»
«Tutto bene, la Ricerca procede, ma, avendo appena iniziato,
non ho dei risultati concreti a disposizione da
riferire...»
«Ce l'aspettavamo, anche se è passata quasi una
settimana...»
«Ascolti bene! Qui lavorare non è facile, la
popolazione collabora poco e i mezzi a mia disposizione non sono
granché!»
«Ok, ok, non si agiti. Ci aggiorniamo a tre giorni. Per i
mezzi a sua disposizione non si preoccupi, le verrà inviato
un surplus.»
«No, un attimo volevo riferire di un mio problema...»
nulla da fare, Gravina aveva riattaccato. Maledetti burocrati.
Chiamò il ragazzo per ordinare un'altra birra.
Federico caricò sul Pc il codice che gli
aveva consegnato il suo collega, lo immise nel file da aggiornare e
compilò il tutto con una bella pressione su f9; fatto questo
si alzò dalla sua scrivania e finse di mettere un po' in
ordine le sue carte sistemandole in uno schedario vicino.
Girò la testa a destra e a sinistra per dare un'occhiata ai
suoi colleghi, bene, tutti erano intenti al loro lavoro, o almeno
così sembrava.
Doveva raggiungere la sala di controllo perché solo negli
orari di lavoro essa era accessibile. Di notte veniva chiusa con un
doppio codice di sicurezza conosciuto unicamente dai ricercatori
che vi lavoravano. Naturalmente non potevano lasciare milioni di
investimenti a portata di chiunque; non potevano lasciare Lui
incustodito.
Si girò e, lasciata la scrivania in un momento che gli
sembrava opportuno, entrò nel corridoio e chiamò
l'ascensore. L'ascensore arrivò, lui si sporse un po',
premette il tasto per il 13° piano e lasciò che
l'ascensore salisse da solo. Di corsa prese le scale e
iniziò a scendere.
Jorge aveva visto Gravina allontanarsi. Aspettò due secondi
e poi lo seguì. Arrivato all'ascensore vide che questi stava
salendo; aspettò che raggiungesse il piano poi prese le
scale.
Decise di pernottare in quel paese, non in
macchina come la sera precedente, ma in una stanza affittata presso
la bettola in cui si trovava.
Salì le scale scricchiolanti seguendo la vecchia megera,
proprietaria della locanda, che lo guidava portando una piccola
lampada ad olio che non illuminava nulla. Le scale erano piene di
polvere, sembrava d'essere in un racconto di Poe, e l'intera
struttura sembrava mantenersi in piedi per miracolo. La vecchia si
fermò davanti ad una porta di legno alquanto malconcia e
apertala diede un'occhiata all'interno e poi gli fece cenno di
seguirlo. Prima di lasciarlo solo gli accese una candela posta sul
cassettone di fronte al letto. Evidentemente lì la corrente
elettrica non doveva ancora essere arrivata.
Si spogliò e si mise il pigiama, spense la candela e, un po'
a tentoni, si infilò sotto le coperte. Si mise a pensare a
quello che aveva visto il giorno prima: non aveva senso, eppure
confermava quello che in una qualche remota parte del suo cervello
si annidava da un po' di tempo. Chiuse gli occhi. Non riusciva a
respirare.
Buio.
Luce. Visi poco familiari passavano dall'ombra alla luce della
lampada posta sopra di lui. Portavano delle maschere sulla bocca.
Bianche. Come quelle dei medici. Ombre confuse. Giravano. Attorno a
lui. Si davano da fare con la sua...Con la sua?
Un viso spiccava in mezzo agli altri, si sforzò di metterlo
a fuoco.
« Come reagisce?» sentì qualcuno dire da... non
riusciva a capire la provenienza della voce, e anche questa gli
sembrava familiare.
« Proviamo con questo.» sentì un altro
rispondere.
Un Urlo. Il suo.
Buio.
Si svegliò all'improvviso, sudato e stanco. Nella camera
ristagnava un odore pessimo. Si alzò per aprire le finestre
e lo spettacolo che gli si presentò rischiò, per un
attimo, di farlo impazzire, ma si riprese subito e decise di
scendere giù per dare una migliore occhiata, o almeno
chiedere spiegazioni alla proprietaria. Mentre usciva dalla camera
guardò distrattamente l'ora sul suo orologio da polso: 3 e
52 am.
«Buongiorno ragazzi! Come va?»
Gravina tentò l'approccio diretto con gli agenti della
sicurezza di guardia alla sezione 27"A.
I custodi grugnirono un freddo «Tutto Ok» e rimasero,
gelidi, ai loro posti.
«Cercavo il Dottor Lucas e mi domandavo se era dentro.»
e fece per passare l'inaccessibile porta.
«Mi spiace Signor Gravina ma oggi il Dottore non si è
visto.» e con la mano una delle guardie lo fermò.
«Non abbiamo l'autorizzazione a farla passare.»
«Ragazzi, sapete che il progetto è anche un po' mio!
Anzi, "po'" mi sembra riduttivo. Sono uno degli ideatori! Su fate i
bravi e lasciatemi passare...»
«Spiacente.» rispose l'agente, e occupò con
tutta la sua stazza l'ingresso alla sezione.
«Volete guai?» tentò l'ultima carta
«Sapete benissimo...»
«Federico! Come va?» Alle sue spalle il Dottor Lucas
gli aveva messo una pesante mano sulla spalla.
«Bene grazie, Dottore. E a Lei?»
«Vieni, prendiamoci un caffè...»
«Ma, veramente...» la mano sulla spalla però non
ammetteva repliche. Si diressero verso la sala Caffè.
«Federico, cosa c'è che non va?»
«Mi chiede cosa c'è che non va, caro Dottore?»
il bicchiere di caffè era bollente, quindi lo tenne poggiato
al tavolino prima di berlo.
«Sono uno dei fondatori del massimo progetto che ha questa
Società, e non posso nemmeno accedere alla sezione 27"A in
cui è custodito...»
«Federico, Federico, suvvia... Siamo in un luogo
pubblico!» e girò la testa come ad indicargli gli
altri impiegati che prendevano il caffè.
«Capisco la tua amarezza, però non è stata una
decisione mia, ma del consiglio. Ed è soprattutto colpa tua.
E' il tuo comportamento strano di queste settimane a insospettire
un po' tutti. Guardati un po' allo specchio: sembra che tu non
dorma da giorni. Hai una faccia! Sei scorbutico con il tuo
staff...Non lo so. Cos'hai?»
«Ascolti bene. L'Idea è in parte mia. Abbiamo ceduto
il progetto a questa società perché ci sembrava la
più preparata tecnologicamente. Eravamo tutti "Padri
Fondatori" e ora io mi ritrovo sotto di lei, a lavorare per lei
come se fossi l'ultimo degli impiegati. Non mi sembra più di
avere tanta voce in capitolo e infine...»
«Basta! Prima che tu dica sciocchezze. Ti ho già detto
che non è stata una mia idea. Riconquista la fiducia del
consiglio. E' l'unico suggerimento che ti posso dare.»
dettò questo se ne andò lasciando il caffè,
ormai freddo, sul tavolino.
Federico Gravina sorrideva.
Sotto regnava il silenzio.
Bussò alla porta di quello che credeva essere l'ingresso per
le stanze della proprietaria. Non sentiva alcun rumore. Sotto il
quieto scricchiolare degli assi raggiunse la porta di un'altra
stanza e bussò anche lì.
Nulla.
Bussò più forte, molto più forte. Dalla porta
caddero piccoli granuli di legno.
Nulla.
Decise di rinunciarci e di uscire fuori per poter osservare meglio
lo spettacolo.
Fuori faceva freddo, e non aveva pensato nemmeno a coprirsi.
Alzò gli occhi al cielo e gli si mozzò il fiato.
Sto sognando. È l'unica spiegazione: sto sognando.
O Sto Impazzendo.
Gravina passò quasi tutta la giornata
alla sua scrivania. Con indolenza batteva vaghe righe di codice che
puntualmente cancellava scuotendo la testa. Ormai aveva preso una
decisione: si sarebbe intrufolato nella sezione 27"A e poi...poi
non sapeva nemmeno lui cosa fare. E, soprattutto, se sarebbe
riuscito ad entrare. Ma per questo problema aveva ideato una
piccola soluzione, forse un po' rischiosa, ma le guardie
l'avrebbero bevuta.
Alzò la testa: Jorge era alla sua postazione e sembrava
leggesse un grosso volume di C#. Pensò che l'indomani
sarebbe finito tutto. Tutti i suoi colleghi avrebbero perso, molto
probabilmente, il suo lavoro, e la Società avrebbe perduto
gli ingenti capitali investiti nel progetto. Ma lui, Federico
Gravina, non permettere il protrarsi di tali atrocità nella
sezione 27"A...
«Ragazzi, io vado. Ho lavorato abbastanza!» disse,
rivolto un po' a tutti.
E con un'espressione serena si avviò nei piani bassi,
dov'era parcheggiata la sua macchina.
Arrivato a casa con il computer stampò una lettera, prese
dei documenti vecchi e confrontò alcune firme. Aveva poco
tempo a disposizione, le guardie avrebbero smontato di lì ad
un'ora.
Era di nuovo al palazzo della Società alle 19.30.
La sua Ricerca poteva andare al diavolo.
Prese le sue poche cose, si diresse verso la macchina. Aveva
lasciato del denaro sul bancone in un estremo atto di
onestà. Si meravigliava come il suo cervello potesse ancora
accompagnarlo dopo quanto aveva visto. Aperta la macchina
notò un pacco sul sedile di fianco a quello del guidatore:
non c'era prima. Entrò e con molta circospezione lo prese
tra le mani soppesandolo. Decise di aprirlo (una bomba?) e si
ritrovò tra le mani un palmare (...Per i mezzi a sua
disposizione non si preoccupi, le verrà inviato un
surplus.). Quindi quello era un regalino della sua Società.
Ma come aveva fatto, nella notte e in così poco tempo
a...
Gettò il piccolo computer sul sedile e mise in moto
l'auto.
Decidendo di tornare all'aeroporto si assumeva una grande
responsabilità, ma due erano le questioni: o diventare pazzo
e proseguire nella ricerca o rimanere quello che era, ma almeno
sano di mente. O quasi.
Fece retromarcia e prese la strada che l'aveva portato fin
lì.
«Leggete qui.» disse e porse il
foglio alle guardie del settore 27"A. Fortunatamente si erano date
il cambio e quindi quelle che si trovava davanti non avevano
assistito alla pietosa scena della mattina. Dopo essersi scambiate
il foglio per accertarsi della sua veridicità, le guardie
guardarono Gravina e gli fecero un cenno di assenso, quasi
all'unisono. La firma falsa del Dottor Lucas spiccava sul fondo del
foglio di "Autorizzazione per l'ingresso di Federico Gravina nella
sezione 27"A".
«Ha mezz'ora di tempo» disse una delle due guardando
l'orologio «anzi meno. Noi smontiamo alle 20.00»
«Grazie Ragazzi. Sarò velocissimo.»
Ancora sudando freddo Federico vide le porte della sezione aprirsi
e si preparò a varcare la soglia che lo divideva dal suo
traguardo.
«Signor Gravina, mi scusi!»
Si girò aspettandosi di essere stato smascherato.
«Il foglio dell'autorizzazione. Lo stava
dimenticando.»
Federico Gravina, sorridendo, agguantò il pezzo di carta ed
entrò.
Macchinari di ogni genere monitoravano costantemente i valori
principali dell'uomo ingabbiato nella grande struttura chiamata
granMadre. Tubicini di ogni genere erano legati agli arti, ormai
quasi atrofizzati, e soprattutto al cervello al quale erano anche
connessi cavi dati per trasmettergli informazioni e riceverne.
Gli occhi dell'uomo erano chiusi e Federico non credeva che li
avrebbe più utilizzati. Si fermò un attimo a
contemplare quello spettacolo affascinante e allo stesso tempo
terrificante e poi si diresse verso il centro nevralgico della
granMadre, il grande mainframe sulla destra della sala, alle spalle
dell'"esperimento".
Il computer era il mezzo di connessione all'uomo. Si loggò
(fortunatamente non avevano pensato di disattivargli l'account) e
iniziò la fase di contatto con lui.
Parcheggiò l'auto fuori dal piccolo
aeroporto rappresentato da un grande casermone con 3 soli gate e
una torre di controllo che sembrava fosse stata costruita 2
settimane prima, il giorno del suo arrivo.
Una discreta folla era presente nella sala d'aspetto (tutta
questa gente dove vuole andare?) e lui si diresse al terminal
per fare il biglietto.
«Buongiorno. Vorrei un biglietto per...»
«Mi spiace signore, non ha visto il visore delle
informazioni? Tutti i voli sono cancellati.»
«Cosa? Ma io devo partire! E tutta questa gente cosa ci fa
qui?»
«Si calmi. Questa gente aspetta che tutti i voli siano
ripristinati. Come farà lei, immagino, se ha voglia di
partire il prima possibile. Se vuol lasciarmi il suo numero di
cellulare... Signore!»
Si stava allontanando dallo sportello quando venne avvicinato da un
tizio con un lungo cappotto di pelle, gli occhiali scuri e una
sigaretta tra le labbra.
«Si chiama immagine residua di sé.» disse l'uomo
in nero.
«Cosa?»
«Nulla. Non la fanno partire, vero? Venga con me. Lavoro
anch'io per la sua Società.»
«Ma...»
«Mi segua e non si faccia troppe domande. Dov'è la sua
auto?»
«E' qui, nel parcheggio. Ma esigo una spiegazione!»
«L'avrà.»
Si fermarono a parlare in una losca birreria.
Ogni birreria sembrava losca in Romania. Pareva d'essere in un
romanzo di Stoker.
«Sembra d'essere in un romanzo di Stoker; non mi aspettavo
che fosse tutta così la Romania.»
L'uomo in nero lo fisso un attimo prima di rispondergli, come se
faticasse. - A Jorge piacciono queste atmosfere...» disse,
quasi sottovoce, tra sé «Il mio nome è Federico
Gravina, ci conosciamo per telefono.» Assaporò il
mutamento nel viso dell'altro.
«Signor Gravina, non credevo che...non avevo capito...Mi
scusi, io...»
«Lasci stare, sono qui...»
Si avvicinò un cameriere per prendere le ordinazioni. Due
birre, per ora, andavano bene.
«Dicevo, sono qui per te, permettimi di darti del tu, per
farti capire quello che non riesci tu da solo a capire. Ma ho poco
tempo e quindi sarò un po' diretto. Forse lo sarò un
po' troppo.»
«Ma lei non è qui per lavoro? La Ricerca...»
«Niente di tutto questo. Ti devo dire una cosa molto
importante: notato niente in questi giorni? Eventi strani,
inspiegabili, mal di testa, senso di nausea improvviso e altre cose
del genere?»
«Sì, a dir la verità, sì. È da
quando è iniziata questa maledetta Ricerca. Giusto ieri
sera...»
Con un gesto Gravina invitò l'uomo ad abbassare la voce.
«Non dobbiamo dare nell'occhio. -
«Ok. Quindi, se non ho capito male, lei può spiegarmi
cosa succede? Mi avete drogato? Sono in uno stato catatonico? Sto
sognando perennemente?»
Gravina aveva preso un tovagliolo e con una grande matita nera vi
aveva scritto sopra:
NON GRIDARE. |
Buio.
Buio.
«Com'è ridotto?» chiese una voce alle sue
spalle. In qualunque direzione girasse la testa non vedeva
niente.
Era cieco.
«Male, ma forse riusciamo a connetterlo. Altrimenti sono
soldi buttati.»
«E tu pensi ai soldi! Idiota. Spostati, fammi provare una
cosa...»
Un breve bagliore. Dolore. Il viso di Federico Gravina davanti al
suo.
Buio.
Provò a stimolare le sue corde vocali, ma nemmeno quelle
funzionavano più.
Aveva la sensazione di non riuscire a trattenere i suoi pensieri,
come se un immenso buco nero li risucchiasse via. Voleva
concentrarsi su quello che gli stava succedendo intorno e non ci
riusciva. Non sentiva più nessun arto.
Solo il nudo Cervello.
«Aspetta che provo a connetterlo a granMadre.»
«Sei sicuro che sia pronto?»
«Lo sapremo subito.»
Ci fu il suono di un interruttore. Clack.
Luce.
Come all'uscita di un tunnel buio la luce forte ti dà fastidio, così senti di dover chiudere gli occhi. Solo per un attimo.
Riaprendoli vide ancora Gravina davanti a
sé. Ed erano ancora nel locale in cui gli aveva scritto quel
bigliettino assurdo.
L'aveva ancora tra le mani.
«Pessimo scherzo.» disse guardando Gravina negli
occhi.
«Ho poco tempo. Sai benissimo che non è uno scherzo.
Quello che c'è scritto sul tovagliolo è vero. Lo
senti anche tu. Ti abbiamo salvato però. Diciamo
resuscitato. Ti abbiamo dato una seconda possibilità dopo
l'incidente.
O questo o il coma irreversibile. Ho scelto io. Ci conosciamo da
una vita, ma il ricordo ti è stato tolto. Siamo andati a
scuola insieme... Sono tante le cose da dirti, ma non è il
momento di rivangare il passato.»
«Scollegami.»
«È quello che volevo fare, sono stato io a "offrirti"
per l'esperimento della Res. e mi sono reso conto che è
stato un errore. Purtroppo ho lavorato con lentezza per liberarti:
loro ti tenevano ingabbiato qui, in questo mondo irreale con la
Ricerca da eseguire, così avresti tenuto impegnata la tua
mente... una parte di essa però non credeva a tutto questo:
è per questo che ti svegliavi di notte verso un'ora precisa.
Quella era l'ora in cui il sistema, granMadre, si assestava e
generava, durante la fase di compilazione di parti di codice,
quelle cose che tu hai visto. Sei stato, in pratica, il baco di te
stesso.
Alla Res. qualcuno si è accorto che facevo il doppio gioco,
soprattutto il mio supervisore, e temo che questa mia conversazione
con te venga scoperta mentre la stiamo ancora facendo.
Hai il palmare che ti ho "spedito"?»
Sull'orlo del tuo abisso personale senti quelle parole che ti scivolano addosso come pioggia. Ti bagna ma te l'aspettavi.
«È in macchina. Aspetta, vado a prenderlo.»
Accese il palmare.
«Grazie. Ho installato una backdoor in modo da potermi
scollegare da qui. Ma...»
Il viso del Dottor Lucas pulsava sullo schermo del palmare.
«Mi spiace Federico. Devo farlo. Non mi hai lasciato altra
scelta.» La voce fuoriusciva dal piccolo altoparlante sulla
base del miniPC. Gracchiante e stridula allo stesso tempo.
«Ti sei chiesto come hai fatto ad entrare così
facilmente?» Lucas era ora sfocato «Addio.»
«Nooooooooo!» L'urlo di Federico Gravina venne
interrotto da un bagliore soffocante di
Luce.
Avrebbero dovuto già avvistare Arad da un
paio di minuti. La strada però era ancora deserta, solo un
lieve crinale davanti alla loro macchina.
Il cielo era limpido, senza alcuna nuvola che ne offuscasse la
tiepida luce. Superarono il crinale e videro subito la Città
di Arad, meta iniziale della loro Ricerca...
Fine
Post Scriptum
Niente è reale. Oppure, tutto è reale, basta che lo
credano i nostri sensi. Basta che il cervello analizzi in maniera
sbagliata i dati inviatigli dagli organi esterni ed ecco, viene
creata una cosa che in Realtà non esiste.
Quando sogniamo non abbiamo forse la sensazione di vivere in un
ambiente reale? Il nostro corpo, quello che sta dormendo ed
è in fase r.e.m. non la sua immagine onirica, non si muove e
si comporta di conseguenza con quello che si sta vivendo nel
sogno?
Adesso, sei sicuro di non stare sognando?
O di non essere connesso ad un computer?