12. Labirinti di lettura
II. Il trono, l'altare (e al-minbar)

Quarto percorso
al-minbar

Cardini Lewis

L'altra grande religione monoteista che compete con il cristianesimo è naturalmente l'islam (accreditato per un 21% della popolazione mondiale, contro il 33% del cristianesimo), e che tutti gli osservatori danno in forte espansione, se non altro per ragioni demografiche.
Al di là di ciò che queste religioni raccontano di se stesse e della comune matrice ebraica, il conflitto principale tra loro è che ognuna di esse si dichiara universale, ossia valida per tutti gli uomini e veritiera, ossia come l'unica vera. In sostanza, tutte e due puntano al dominio universale e ad escludere tutte le altre: o l'una o l'altra, comunque nessun'altra. L'impostazione di fondo non è che gli altri la pensano legittimamente in modo differente, ma che gli altri errano e, come si sa, gli errori vanno corretti o, nel più mansueto degli atteggiamenti, vanno compatiti gli erranti, cercando di convertirli. I metodi per correggere gli errori (religiosi) altrui sono stati e sono diversi, ma se si guarda l'intera vicenda dal punto di vista storico, l'uso della violenza, diretta o indiretta, per convertire intere popolazioni fa parte del bagaglio storico di tutte e due le religioni, anche se ci sono stati periodi più o meno lunghi di tolleranza e sovrani illuminati su un versante e sull'altro: sembra però accertata una netta prevalenza di quelli musulmani.
Fu il santo abate Bernardo di Chiaravalle che nel XII secolo giustificò il malecidio, ossia – precisa il noto medievista Franco Cardini nel libro di cui riparlerò più avanti – che "l'uccisione del nemico diviene necessaria e quindi doverosa nella misura in cui esso è obbiettivamente portatore del male e del peccato che non si possono contrastare se non attraverso la soppressione di chi se ne fa veicolo". Il problema è che una frase del genere fu scritta otto secoli fa, mentre gli imam integralisti e i terroristi islamici la pronunciano oggi (però San Bernardo rimane santo e dottore della chiesa). Con un'interpretazione tutta da discutere, il concetto estremizzato di jihad (un termine che ha molti significati: dalla lotta interiore per la fede fino ad una interpretazione dei tradizionalisti come lotta armata), fa della distruzione fisica del non credente (e anche del credente che non si sottomette) il mezzo più spiccio per raggiungere quell'universalismo che tutte e due le religioni perseguono. Ancora una volta c'è qui un curioso parallelo con la tradizione dei cavalieri e dei paladini cristiani medievali, perché "la lotta dell'eroe guerriero contro l'infedele era anche figura della battaglia da sostenersi lottando con le arma lucis di cui parla san Paolo, del conflitto interiore che ciascun fedele doveva sostenere in se stesso contro il male e il peccato" – scrive Cardini.
Ma, senza risalire così indietro nel tempo, sappiamo bene quanto il veicolo del primo e del secondo colonialismo sia servito al cristianesimo per espandersi. Per cui, paradossalmente, e dal punto di vista religioso, si potrebbe definire provvidenziale la riduzione in schiavitù di centinaia di migliaia di persone e l'eccidio di intere popolazioni, delle Americhe come dell'Africa. Osservazione che era moneta corrente nella cultura del primo colonialismo, compresa una parte degli esponenti religiosi, ma circolava ampiamente anche nel colonialismo più recente.
Comunque sia, nell'ambito delle aree storicamente cristiane i metodi della costrizione, della tortura e dell'assassinio religioso non sono da tempo più praticabili e praticati, e se uno vuole cambiare religione non rischia di essere condannato a morte, come secondo il diritto islamico sarebbe prescritto, anche se non praticato dalla maggior parte degli stati islamici. Per esempio, l'apostasia sarebbe punita con la pena capitale in Pakistan in base ad una recentissima proposta di legge governativa, mentre nell'Arabia Saudita la legge islamica è da molto tempo prevista e applicata nei codici penali. Altri paesi che prevedono il reato di apostasia (assieme, spesso, a quello di blasfemia) sono la Mauritania (sebbene non sia mai stato applicato), il nord della Nigeria dove è in vigore la shari'a, il Sudan, l'Iran, il Qatar (però non applicato), gli Emirati Arabi Uniti, lo Yemen. Ma, al di là dei codici e delle Costituzioni, sono note le fatawa pronunciate da vari imam contro questo o quel personaggio accusato di blasfemia, con l'invito a ucciderlo, mettendo persino una taglia sulla sua testa. Azioni peraltro condannate da una parte dell'opinione pubblica e dei politici islamici.
Il fatto è che in Occidente l'evoluzione civile della religione ha dovuto seguire di pari passo l'evoluzione del pensiero e della pratica politica, per cui sono state le libertà affermatesi nell'ambito civile e lo svincolo dello stato dall'invadenza della religione (ma ci sarebbe da discutere su questo punto, almeno per alcuni paesi) a costringere le autorità religiose a rendere più civile la loro azione di proselitismo. E non già il contrario, come tentano di fare alcune troppo ardite interpretazioni addomesticate della storia del cattolicesimo che provano a cancellare le tracce di ciò che è accaduto rivendicando la mai praticata indicazione di dare a Cesare quel che è di Cesare, almeno da Costantino in poi. Per non parlare di Teodosio che decretò il cristianesimo religione ufficiale dell'impero romano.
Per dirla più chiaramente, quando esponenti cattolici attaccano per esempio il libro di Piergiorgio Odifreddi, Perché non possiamo essere cristiani, del quale riparlerò in un altro percorso, osservando che lui può dire quello che dice della religione perché è un occidentale e lo invitano ad avere il coraggio di dire le stesse cose in Iran, tacciandolo implicitamente di opportunismo e di codardia, parlano come se la democrazia e la libertà di espressione fossero conquiste dovute alla loro tradizione di pensiero. Vorrei ricordare a tutti costoro che essi sono gli eredi di una religione che per secoli ha combattuto la libertà di pensare e la democrazia, le quali si sono affermate contro di loro e non grazie a loro. Certe decisioni conciliari del passato, che la chiesa non ha mai pubblicamente smentito, a leggerle oggi, fanno davvero impressione.
Ora, come vedremo in un successivo percorso, lo scrittore musulmano Tariq Ramadan, riflettendo sul come essere musulmani in Europa, scrive che la responsabilità dei credenti (davanti al loro Dio) è di far conoscere la loro fede e di spiegarne il contenuto ma che "la responsabilità del musulmano si limita a questo, perché l'idea di convertire le persone non ha nulla a che fare con l'islam". Indirizzo che, se praticato davvero, sarebbe persino più liberale dell'utilizzazione dei poteri di intervento (esistenti o reclamati) da parte della chiesa cattolica. D'altra parte l'Oriente islamico è stato a suo tempo più tollerante dell'Occidente cristiano.
Ma, al di là delle differenze, anche profonde, accentuate dal corso della storia tra le due religioni monoteiste principali, mi chiedo se l'islamismo sia in grado di avere la stessa evoluzione che ha dovuto subire il cattolicesimo, come sperano e propongono molti intellettuali musulmani (chiamati impropriamente moderati) a proposito di diritti umani e universali e di democrazia. In alcuni di questi ambienti si denuncia chiaramente che le regole formali della democrazia, quando si riesce a praticarle, vengono utilizzate dagli integralisti islamici come facile strumento di accesso al potere, senza averne la cultura, il programma e la mentalità. Ma soprattutto perché – è una mia convinzione – quando le elezioni vengono espletate su una base di confronto religioso, come è in molti dei casi del mondo arabo, siamo in realtà di fronte a un tradimento della democrazia e del suo fondamento laico, non a un suo esercizio effettivo. Probabilmente, la religione è in questi casi, per la popolazione, l'unica valvola di sfogo, l'unica apparente risposta – per quanto priva di reali prospettive politiche e economiche – a un malessere e a una pratica politica che non riescono a trovare risposte in altro modo. Per cui, è forse la stessa domanda se c'è compatibilità tra islam e democrazia a essere mal posta, perché non sarebbe la religione (almeno, non principalmente) la causa della mancata transizione dell'islam alla democrazia. Attesa poi l'inconsistenza dell'idea di un islam monolitico, la quale fa molto comodo ai sostenitori delle guerre di civiltà, e a tutti quelli che vogliono accuratamente evitare le necessarie terapie politiche e economiche. Ma questo lo vedremo nei prossimi percorsi.
Intanto, un aiuto a comprendere meglio può essere fornito dalle interessanti e chiare conversazioni che l'islamista Massimo Campanini ha tenuto sul sito Il vicino oriente (e che consiglio di ascoltare), cominciando dalla contestazione della proprietà del confronto tra una categoria religiosa come l'islam e una categoria politica come la democrazia. Su questo punto, però, dissento da Campanini, osservando che l'accostamento mi sembra avere invece una certa legittimità, proprio dalla prospettiva della religione come fatto naturale. Né più né meno di come è del tutto legittimo interrogarsi sul rapporto tra cristianesimo e democrazia, vista la invasività della religione e la permeabilità culturale e storica della società ai suoi valori. Del resto, nell'islam c'è una tale compenetrazione tra politica e religione che un tale impedimento sarebbe incomprensibile.
Comunque, in una delle sue agili conversazioni, Campanini mette in evidenza i fattori principali che hanno impedito l'avvento di democrazie compiute nel cosiddetto mondo islamico. Il conferenziere ricorda che nei primi decenni del ‘900 c'è stato un periodo liberal nei paesi musulmani, presto soffocato dai regimi monarchici allora al potere (e dalla presenza militare della Turchia). Poi, il passaggio all'indipendenza degli stati arabi è stato governato da élites militari all'insegna del nazionalismo (estraneo alla tradizione islamica e importato dall'Occidente); queste élites hanno gestito lo stato, assieme ai gruppi dominanti civili, come se si trattasse di un patrimonio personale. Infine, ha pesato enormemente l'impronta e il retaggio coloniale dell'Occidente, che non ha lasciato dietro di sé strutture politiche moderne. Persino nell'unico caso di una transizione civile all'indipendenza, avvenuto in Tunisia, il padre della patria Habib Bourguiba, che del resto è stato al potere per trenta ininterrotti anni, è stato deposto "per senilità" da un militare. Come vedremo nel prossimo percorso, questa insistenza sulla prevalenza del potere militare e autocratico nell'islam appartiene anche all'analisi di Fatema Mernissi.
Ma come mai i fattori indicati da Campanini passano in secondo piano nelle analisi occidentali predominanti, per privilegiare l'aspetto religioso, che pure esiste? Questa storia viene in realtà da lontano e, come spesso accade quando si parla di un'altra parte del mondo, è all'Europa che occorre guardare, cercando le origini di certi fenomeni. C'è chi, come Franco Cardini, in una non recente intervista, ha precisato che: "Il malinteso nasce quando gli europei nell'Ottocento, avendo bisogno di legittimare la loro politica colonialista, hanno interpretato la storia come contrasto tra Cristianità e Islam, perché avevano interesse a dimostrare di aver sempre tentato di esportare cultura e civiltà; poi, gli stessi musulmani hanno creduto a questa chiacchiera romantica ed hanno creduto davvero che la storia dell'Europa fosse quella di una continua tensione tra religioni; e, infine, il cosiddetto fondamentalismo musulmano ha ripreso, per ragioni prettamente politiche, questa idea presentando la propria azione come la reazione, giustificabile e giustificata, del mondo musulmano a un'annosa politica di aggressione e spoliazione subita. Questa impostazione dimentica che l'Occidente non si può più definire con il termine di Cristianità da almeno tre secoli, da quando si sono avviati profondi processi di laicizzazione degli Stati." La qualcosa, insisto, è proprio uno dei fondamenti della democrazia.
A proposito del già citato libro di Cardini, Europa e Islam. Storia di un malinteso [Roma-Bari, Laterza, 2006, pp. 347], penso che un approfondimento dei temi trattati in questo Labirinto non possa fare a meno di uno sguardo storico. Il rapporto dell'Europa con il mondo musulmano viene infatti da lontano e sarebbe sciocco pensare che le nostre reazioni nei suoi confronti nascano solo dall'attualità e non anche da una tenace stratificazione di storie e giudizi diventati senso comune, trasmessi senza neanche pensarci troppo. Per queste ragioni, il libro di Franco Cardini ci può dare un contributo fondamentale a eliminare quei pregiudizi che condizionano le nostre idee in proposito, almeno, come precisa l'autore, per quanto riguarda l'islam mediterraneo.
Intanto, la sua lettura può contribuire a rimuovere l'anacronistica eredità di un conflitto tra Europa e Vicino oriente concepito come incontro-scontro tra cristianità e islam. Se non altro perché (e ciò dovrebbero tenere a mente sia gli integralisti islamici che quelli occidentali) "il processo di secolarizzazione, connaturato alla modernità occidentale, impedisce di continuare a considerare l'Europa non solo come la Cristianità, ma anche semplicemente come Cristianità". Né più né meno di come non si può considerare una la galassia dell'islam.
Insomma, si tratta anche di uscire da una geopolitica tutta giocata sul filo delle religioni, sulla quale giocano persino le vulgate storico-umanistiche dell'antica contrapposizione tra Europa e Asia (con la Grecia antica alfiere della civiltà contro l'orientale Persia), come, almeno ai miei tempi, ci veniva somministrato a scuola e nei grandi affreschi storici.
Naturalmente, la questione del terrorismo (con l'abito religioso di cui si è rivestito) e l'emergere di un'interpretazione rigorista e feudale dell'islam rappresentano i fenomeni su cui si concentra l'attenzione dell'opinione pubblica, tuttavia è importante sapere che essi vengono veicolati non dall'islam in quanto tale, ma dalla sua versione integralista, rischiando di cancellare una pluralità di tradizioni e di interpretazioni che attraversano invece tutta la storia di quei paesi. Questo accade anche in Europa, dove secondo Dalil Boubakeur, che regge la Grande Moschea di Parigi (peraltro contestato da alcune correnti islamiche francesi) e che è favorevole a un islam illuminato e tollerante, c'è in atto un conflitto interno alle comunità musulmane, specialmente nei confronti degli integralisti, in particolare del wahhbismo di origine saudita.
Forse la domanda più giusta dovrebbe essere come mai una parte dell'islam religioso subisca una simile involuzione pericolosa per sé e per il resto del mondo. Che l'estremismo religioso, non solo quello terrorista, sia attivamente sostenuto da certi stati, anche da quelli alleati dell'Occidente, come l'Arabia Saudita, è un fatto accertato e documentato. Per cui c'è da chiedersi come mai si parli così sottovoce del regno saudita. Ragioni di petrolio, naturalmente. Però non è che si possano credibilmente sostenere la democrazia e i diritti umani a seconda delle dimensioni delle forniture di petrolio. Da un sito semiufficiale della Mecca, ad esempio, provengono prediche contro gli ebrei, i cristiani e l´Occidente di una violenza verbale agghiacciante. La notizia è vecchia di cinque anni, ma non posso aggiornarvi sul sito in questione, che si chiama appunto al-minbar(il pulpito), perché da poco tempo – chissà perché – la sua versione inglese non è più accessibile. Però ho fatto in tempo a dare un'occhiata prima che la traduzione fosse oscurata e debbo dire che sono rimasto impressionato dalla violenza religiosa e politica contenuta nelle prediche raccomandate a tutti gli imam del mondo.
Amartya Sen ha dichiarato a La Stampa del 30 gennaio 2003 che "ci sono musulmani di ogni tipo. L'idea di chiuderli in una sola identità è sbagliata." Vero. Così come ci sono cristiani di ogni tipo, e induisti di varie tendenze, e così via. Vedremo in seguito, proprio commentando un testo di Sen, come sia piuttosto stupido costringere dentro classificazioni preformate intere popolazioni, come ha tentato di fare Samuel P. Huntington con il suo Lo scontro delle civiltà e il nuovo ordine mondiale, costruendo una pericolosa caricatura delle dinamiche politiche e culturali mondiali.
Personalmente sono indifferente all'islam nelle sue varie versioni, né più né meno di quanto sono indifferente al cristianesimo o a un'altra religione. A parte la critica che muovo loro dal punto di vista di una visione naturalistica del mondo. Ma l'indifferenza si trasforma in problema e persino in ostilità quando le religioni tentano di cancellare il confine tra sfera laica e sfera religiosa della vita, si tratti dell'ambito politico come di quello civile e di costume. Per esempio, se una religione, considerando peccato qualche comportamento tenta di sanzionarlo solo con gli strumenti propri (purché non ledano diritti umani e costituzionali), considero ciò un affare interno della comunità dei credenti di riferimento. Contenti loro... Sapendo che in campo civile non esistono peccati ma solo reati, se una religione cerca di far diventare reato ciò che considera peccato, anche se quel peccato non attenta ai diritti umani e riguarda la sfera dei comportamenti e delle scelte personali, allora non bisogna esitare a parlare di una minaccia alla democrazia e al rispetto dei diritti umani. Così come, se una credenza religiosa mi impedisce di esercitare una scelta di vita, di gusti, di costume, di sesso – sempre nei limiti del lecito - attraverso le leggi e le autorità civili, allora siamo in presenza di una tirannia, ossia della manifestazione concreta del totalitarismo insito nelle grandi religioni monoteiste. Questo è un problema serio e per ora non rimovibile, sia per il cattolicesimo sia per l'islam, quale che sia l'idea che abbiamo del pluralismo culturale.
Dovrebbe essere piuttosto chiaro, infatti, che l'offensiva di stampo religioso integralista per condizionare o assoggettare il potere civile, in varie gradazioni e sotto varie forme, è in corso sia in Occidente sia nel mondo musulmano. Mi piace citare, a questo proposito, un aforisma di Ludwig Feuerbach in L'essenza del cristianesimo [Roma-Bari, Laterza, 2006, pp. 367]: "non abbiamo bisogno di una legislazione cristiana; abbiamo bisogno soltanto di un diritto ragionevole, giusto, umano". Un concetto che vale anche per islamismo, l'induismo e qualsiasi altra religione.
Insomma, dovunque la libertà di scelta è conculcata, allora c'è un problema politico e civile che va risolto. Ovviamente, esistono diverse tradizioni e storie sociali, perciò non sostengo affatto l'adozione di un modello, di uno stile di vita occidentale (e, dentro questo, di stile americano) da applicare a tutto il mondo. La pluralità dei costumi, delle usanze rappresenta una ricchezza per l'intera civiltà umana, in quanto diversificazione e varietà. D'altra parte, chi ha una cultura evoluzionista non può non apprezzare la varietà. Il che non significa però che non ci sia bisogno di una società mondiale e di un'etica davvero universale e condivisa. Come ha scritto il filosofo Fernando Savater, esiste il diritto alla differenza non alla differenza dei diritti. E, a questo proposito, non posso non ricordare che nel documento de Il Cairo, sottoscritto da tutti i ministri degli esteri degli stati musulmani nel 1991, si sostiene che i diritti contenuti nella Carta dei diritti umani sono applicabili nei limiti in cui non contraddicono la legge islamica (shari'a), ossia il Corano e le fonti originali dell'islam. Si delinea così una differenza dei diritti a seconda dell'appartenenza religiosa delle persone, la maggior parte della quali non ha potuto esercitare veramente la libertà di scelta su ciò che può credere o non credere. E questo non è accettabile.
Ma quanto del problema della democrazia è dovuto all'islam in quanto religione e quanto alla storia sociale, economica, politica e militare di quei paesi? E quanto alla sopravvivenza di costumi arcaici?
Posso intanto osservare che una società comunitarista, come è tendenzialmente quella islamica, non può essere spacciata come equivalente ad una liberale (che non vuol dire liberista) dal punto di vista delle libertà personali? Nella tradizione islamica i diritti individuali, pur riconosciuti, sono subordinati alla comunità in senso forte, ben più forte del concetto di interesse generale che predomina nelle democrazie storiche. Anche se su questo punto ci sarebbe molto da approfondire, circa la netta differenza tra l'idea di interesse generale e quella di comunità dei credenti. Ha ragione Jervis, nel libro di cui abbiamo parlato in un precedente percorso, quando scrive: "Incidentalmente va osservato che laddove prevalgono strutture di tipo familistico e/o tribale si può dubitare che esistano rapporti interpersonali liberamente scelti. Qui non ci sono libere contrattazioni, e c'è poco da esplorare la disponibilità altrui: le forme di collaborazione sono rigide perché dipendono da minacce, affiliazioni e obblighi di gratitudine". Come scrive Amartya Sen, i comunitaristi pretendono che l'identità personale sia persino predeterminata, "come per natura". Una gabbia senza libertà di uscita, ossia di scelta. In questo caso, il problema di una lesione pressoché quotidiana dei diritti umani, prima ancora che giuridico, è culturale e politico. Naturalmente, il confronto per il suo superamento non può essere affidato a mezzi coercitivi, ma a un dialogo che non esclude la polemica, alla difesa delle libertà personali di scelta, a giuste politiche di integrazione. Il problema nel problema è che queste usanze, spesso di origine preislamica e feudale, tendono a rivestirsi di una corteccia religiosa, come vedremo che denuncia lo stesso Tariq Ramadan, attraverso un'impropria sacralizzazione dei rapporti sociali che è destinata a ingessare la società e a impedire alle persone di pensare con la propria testa. L'alleanza o la totale identificazione tra tradizione (una certa tradizione) e religione rappresenta il più micidiale killer delle libertà personali e un principio reazionario da combattere senza timidezze.
Ora, in questo Labirinto non mi interessa tanto ripercorrere il Corano o i detti del Profeta (hadith), perché sul piano della religione come fenomeno naturale vale per l'islamismo quanto detto nel primo percorso di questo Labirinto. Né io sono un esperto in materia di religione musulmana. Si tratta piuttosto, tornando alla domanda principale, di vedere se e in quale misura sia vero quanto vanno dicendo alcuni osservatori occidentali e cioè che esisterebbe un'incompatibilità strutturale tra l'islam e la democrazia. Meno genericamente, limitando l'ampiezza dell'interrogativo e volgendolo in positivo: è possibile una separazione tra religione e stato e una libertà di culto e di pensiero nell'islam?
Prima di cercare di rispondere a questi interrogativi, è però opportuno approfondire alcuni dei caratteri peculiari della civiltà islamica e in questo ci può molto aiutare il libro di Bernard Lewis, Gli arabi nella storia [Roma-Bari, Laterza, 1006, pp. 230]. Lewis è accreditato come il maggior mediorientalista del mondo e la lettura del suo testo può spazzare via molte delle generiche nozioni occidentali sulla storia degli arabi. In particolare, con tutte le cautele del caso dovute quando si tentano delle generalizzazioni - come avverte lo stesso Lewis - il capitolo VIII del libro riguardante La civiltà islamica merita una riflessione attenta. Specialmente là dove afferma che "l'islam – prodotto dell'Arabia e del profeta arabo – non era soltanto un sistema di credenze e di culto. Era anche un sistema di Stato, società, legge, pensiero e arte: una civiltà in cui la religione era il fattore unificante, e alla lunga dominante". Questo è punto da tenere costantemente in mente quando si cerca di capire il rapporto tra mondo moderno e islam: tutto si muove in modo più o meno stringente in un alveo religioso. La legge fondamentale, la shari‘a, la legge sacra che i giuristi elaborarono a partire dal Corano e dalle tradizioni del profeta, "non era solo un codice giuridico normativo, ma anche, nei suoi aspetti politici e sociali, un modello di condotta, un ideale verso il quale la gente e la società dovevano tendere". Diritto pubblico, internazionale, costituzionale, penale e civile sono/erano regolati dalla legge divina. Non è un caso che i musulmani che cercano una via alla modernizzazione e alla democrazia nell'islam criticano, come vedremo, la tradizione interpretativa della shari‘a che si è consolidata attraverso i secoli e alla quale invece si richiamano gli integralisti, che operano tuttavia spesso delle torsioni inesistenti nella precedente storia del mondo arabo.
C'è un altro aspetto che colpisce nell'analisi di Lewis della cultura islamica, per lo meno nella sua origine medievale, la quale conserverebbe tuttavia una certa continuità di mentalità. Mi riferisco al carattere atomistico del pensiero arabo, ossia alla tendenza "a considerare la vita e l'universo come una serie di entità statiche, concrete e separate, vagamente collegate dalle circostanze o dalla mente di un individuo, in una sorta di associazione meccanica o addirittura casuale ma senza alcuna interrelazione organica propria."
Ogni settore del sapere veniva concepito non come parte di un sapere più complessivo, ossia come una parte della verità che si riferiva al medesimo oggetto, ma come un accumulo indipendente di pezzi di conoscenza organizzati in compartimenti separati. In altre parole, mi sembra che l'organicità del sapere, della conoscenza non fossero concepibili, perché una concezione del mondo che fosse nata dal progresso delle scienze sarebbe entrata immediatamente in conflitto con la legge divina totalizzante. Nella quale tutto procede da Dio, non come causa prima accompagnata da cause secondarie (qui non esistono leggi o cause naturali), ma come origine esclusiva. "Tutto procede direttamente dalla volontà di Dio, che ha stabilito certe abitudini di susseguenza o concomitanza", di tutto ciò che accade. Questa è comunque la teologia che ha trionfato nell'islam, una teologia "determinista, occasionalista e autoritaria [che] richiede l'accettazione incondizionata della Legge e della rivelazione divina bila kayf – senza chiedere come."
Come vedremo ancora parlando del libro di Fatema Mernissi, è stata proprio questa svolta nell'interpretazione della religione che ha segnato, dice Bernard Lewis "la fine della speculazione e della ricerca libera, sia nella filosofia che nelle scienze naturali e [che] frustrò i promettenti sviluppi della storiografia islamica." Era però una strada più compatibile con l'ordinamento feudale che si andava affermando e che ha dominato il mondo islamico fino alle soglie della contemporaneità.
Ciò detto e tornando all'attualità, occorre stare molto attenti alle generalizzazioni che vanno troppo di moda tra gli integralisti, i teocon e i neocon di casa nostra, mentre, per capire davvero, è necessario non oscurare le profonde differenze esistenti all'interno dell'islam, nonostante i suoi tratti comuni. Ma se non bisogna commettere l'errore di schiacciare l'islam sulla sua versione fondamentalista (come del resto occorre fare per le altre religioni: pensiamo all'induismo, come al cristianesimo o all'ebraismo, il quale ultimo è affetto dalla ultraortodossia), non si può però nemmeno tralasciare di metterne a confronto alcuni valori e indicazioni fondamentali con quelli propri della democrazia, intesa nella sua accezione liberale e laica, partecipativa e progressiva.
Si può ragionevolmente sostenere che la versione che sembra essere la più accreditata dell'islam dai mass media non è niente altro che una degenerazione dell'islam, la cui eco a livello di opinione pubblica araba viene amplificata da altri fattori che esamineremo più in dettaglio in seguito. Proprio quei fattori che all'Occidente conviene prendere meno in considerazione, concentrando invece sulla questione religiosa un confronto che ha per posta il controllo della globalizzazione. Oltre tutto - lo ripeto - un esame più approfondito della questione porterebbe alla luce che alcune delle strade che portano all'attuale situazione allarmante nascono proprio in Occidente. Tutto ciò senza togliere nulla a una critica dell'islam in quanto religione.
In una delle recenti trasmissioni del programma televisivo si affrontava la questione del nesso tra terrorismo e religione islamica. Le posizioni presentate dai vari esperti (in maggioranza di provenienza o osservanza musulmana) si dividevano in quattro tesi non comunicanti tra loro. La prima sosteneva che il terrorismo appartiene strutturalmente alla religione islamica, essendo quindi geneticamente impossibile coniugare islam e democrazia. La seconda sottolineava come la colpa di tutto fosse del colonialismo e dell'Occidente e come non rimanesse a quest'ultimo che ritirarsi dal Vicino oriente, montandogli intorno una specie di guardia armata, oppure di rinegoziare i rapporti di forza (politici e economici internazionali). La terza metteva l'accento sulle origini del terrorismo come reazione del nazionalismo arabo al colonialismo europeo e come saldatura tra nazionalismo e cultura popolare islamica. Il quarto osservava che il terrorismo colpisce soprattutto gli arabi e che si tratta di una lotta prevalentemente interna che richiede una maggiore determinazione occidentale nell'intervenire a sostegno dei regimi laici arabi.
Ora, nessuno dei convenuti - e i conduttori del programma meno che mai - ha osservato come sia più sensato pensare che un fenomeno così complesso, che connota pesantemente questo avvio del nuovo secolo, presenta molte sfaccettature e possiede diverse radici. E che la cosa più sbagliata che si può fare è di non avere un'idea integrata e differenziata di queste componenti, eliminando le interpretazioni più unilaterali, che servono la politica di determinati interessi di potere, ma non la ricerca di una soluzione accettabile del problema.

Quinto percorso
Islam e democrazia

Mernissi

Il libro di Fatema Mernissi, Islam e democrazia. La paura della modernità [Firenze, Giunti, 2002, pp. 222] prova a dare una risposta proprio a una parte degli interrogativi sollevati. La Mernissi è una docente universitaria marocchina di sociologia, fortemente impegnata nella società civile per promuovere l'uguaglianza delle donne e una democrazia reale, ma è anche una studiosa del Corano che gode di un certo seguito e rispetto. Naturalmente è invisa ai tradizionalisti e agli integralisti. Se vogliamo, considerando l'ampio credito di cui gode, è una delle tante dimostrazioni viventi delle differenziazioni esistenti nel cosiddetto mondo musulmano.
I libri dell'autrice insegnano molto sul mondo islamico, ma quello di cui parlo qui rappresenta uno sforzo particolare per individuare la possibilità di esistenza di un altro islam e lo fa ricostruendo le radici storiche di correnti di pensiero musulmane che sono state sconfitte secoli fa, ma che sono riemerse continuamente nelle vicende storiche, preoccupando i dispotismi di volta in volta al potere. Si tratta di una tradizione più colta che comporta anche un diverso atteggiamento nei confronti delle donne.
Intanto, per l'islam "il modello democratico rappresenta una rottura con la miseranda storia di sempre, quella dei massacri e dei pogrom sia intestini sia tra stati rivali", ma nell'opinione pubblica più corrente del mondo arabo essa ha una certa connotazione negativa perché "richiama ciò che, nei secoli delle tenebre preislamiche, coniugava la violenza con la sua legittimazione."
A me pare che tutto il libro confermi che il problema primario o uno dei problemi principali, nel confronto tra Occidente e mondo islamico, sia il conflitto tra individualismo, nel senso della responsabilità personale, e il comunitarismo tenace, tradizionalista e invasivo delle società arabe. "Le donne che camminano per strada senza hijab [il velo] sono percepite come fuori della norma, fuori delle frontiere" – scrive l'autrice. E questo perché hanno superato la frontiera dello haram, ossia dello spazio proibito e interdetto agli uomini, per sconfinare in territori non loro. Quello spazio è, nello stesso tempo, una protezione e una segregazione e, nelle polemiche occidentali sul velo, viene messo l'accento – a seconda della tesi che si vuole sostenere – sull'una o sull'altra accezione. Ma quel che deve essere chiaro è che "circolare liberamente con il viso scoperto equivale a esibirsi allo sguardo dell'altro e in questo caso l'uomo è privo di difese contro simili tentazioni." Non potrebbe essere messo meglio in evidenza il camuffamento religioso di un maschilismo retrogrado e umiliante. È la donna che tenta e che fa cadere nel peccato l'uomo, quindi: coprire, relegare, confinare... Ora, rimettere in questione il rapporto ineguale tra uomo e donna esistente nell'islam significa scompigliare il progetto divino. L'odore di Medioevo e di costumi tribali che emana dall'intera faccenda è facilmente percepibile, quali che siano gli argomenti che tentano di giustificare l'uso del hijab.
La Mernissi non sfugge al problema di fondo e attacca i vari regimi integralisti e semi integralisti del mondo islamico, per cui "identificare la democrazia con una malattia occidentale e rivestirla del chador dell'estraneità, è un'operazione strategica che vale milioni di petrodollari". Cioè, aggiungo, sull'interpretazione restrittiva del Corano campano non solo la metà maschile della popolazione, ma anche regimi tirannici e oligarchici come l'Arabia Saudita, strettamente alleata dell'Occidente. Nonché il potere del clero, sul quale va però annotato che mentre nell'Islam sciita (minoritario) all'imam si deve obbedienza, nell'Islam sunnita l'imam non è mai infallibile.
Eppure, nella storia dell'Islam non sono mancati gli esempi di pensatori e anche di movimenti che difendevano la libertà di pensiero. Accanto ai filosofi sufi e a quelli influenzati dall'ellenismo, i quali rigettavano l'idea della piena sottomissione dell'individuo e cercavano un posto adeguato per l'opinione personale e per la ragione, un altro filone (i Kharigiti) lottava contro l'autoritarismo e per gli stessi obbiettivi dedicandosi però ad "assassinare gli imam che non piacevano loro" (ma c'è anche un ramo che rifiuta la violenza, gli ibaditi, oggi assolutamente minoritario).
Tutte e due le tendenze, come altre similari che si manifestarono più volte nella storia dell'Islam, furono ferocemente represse dai califfi, ma continuarono a riemergere sotto vari nomi lungo tutto il corso della storia musulmana. Ora, la cosa assurda, nota la Mernissi, è che gli argomenti che erano al centro di quei conflitti storici, ossia quello dell'obbedienza al leader della comunità e quello della libertà individuale, "oggi ci vengono presentati come importati dall'Occidente". Un'osservazione che riprende per altri versi anche Amartya Sen.
I Mu'taziliti sollevarono la questione "se gli individui siano responsabili dei propri atti" irrobustendo la tradizione razionalista, che "propose di reintrodurre la ragione (‘aql) e l'opinione personale (ra'y) nel processo politico". La tradizione razionalista dei Mu‘taziliti "trionfò e riuscì a seppellire una dinastia corrotta, gli Omayyadi". Il citato testo di Bernard Lewis getta una luce di maggiore comprensione sulle ragioni economiche e sociali che portarono non ad un semplice cambio di regime, ma ad una vera e propria rivoluzione. La Mernissi simpatizza per quelle prime scuole storiche, che propendevano per l'uso della ragione e per un'interpretazione allegorica delle Scritture, al fine di superare le loro evidenti contraddizioni e l'impossibilità di metterne in pratica alcune indicazioni, nonché una concezione assai materialista dell'al di là.
Ma ben presto la successiva dinastia degli Abbasidi divenne dispotica e i razionalisti vennero condannati e dispersi come succubi degli antichi filosofi greci e come atei. La feroce repressione da parte dei califfi di qualsiasi autonomia intellettuale e della possibilità di una ricerca libera, spense la fioritura scientifica e intellettuale del mondo musulmano, alla quale l'Europa deve molto, e lo fece rotolare "verso il precipizio della mediocrità, dove tuttora vegeta". Accentuando anche quella che il medievista Franco Cardini giudica come "la tendenza tipica della cultura musulmana tradizionale, consistente nell'ignorare quelle diverse da lei." Per inciso, è davvero assurdo che gli integralisti islamici attuali usino l'argomento del debito culturale del medioevo europeo nei confronti dell'islam, quando i loro predecessori distrussero, per l'appunto, la libertà di ricerca e l'autonomia della ragione, recidendo quel fiore con le persecuzioni. Una fioritura, preceduta dalle traduzioni in arabo delle opere dell'antichità, le quali gettarono le basi della medicina, della scienza e della filosofia arabe, alle quali attinse a piene mani un'Europa medievale dimentica del suo passato. Vero è – osserva Bernard Lewis – che "di solito i traduttori erano cristiani [soprattutto eretici nestoriani] ed ebrei, in maggioranza siriani". Ma anche persiani, alessandrini e persiani. Dopodiché nacque una generazione di scrittori e di studiosi musulmani originali.
Dopo di allora, dopo le persecuzioni della seconda fase del califfato abbaside, che era diventato un'autocrazia, l'unico spazio di opposizione, aggiunge l'autrice, rimase soltanto "alla sfida religiosa che predica la violenza come linguaggio politico". Lo stesso Lewis conferma la tesi di Fatema Mernissi, scrivendo che "l'accettazione dell'eredità greca da parte dell'islam diede vita a una lotta tra la tendenza scientifica razionalista del nuovo sapere da una parte, e la natura atomistica e intuitiva del pensiero religioso islamico dall'altra." Vinse il punto di vista religioso e, nonostante il lungo periodo di ulteriore espansione islamica, la radice della successiva eclissi araba e del sorpasso operato dall'Occidente viene, a mio avviso, essenzialmente da quella vittoria. Ma da lì, da quella tradizione secolare di resistenza a un potere dispotico, aggiunge la Mernissi, proviene anche il fenomeno del terrorismo attuale. È la tradizione dell'islam ribelle che reagisce all'invadenza e all'ingiustizia del potere uccidendo il leader senza porsi il problema del poi e del cambiamento strutturale degli assetti politici e sociali. Una specie di ribellismo anarcoide e senza speranza. Osservo però che il terrorismo attuale sembra operare un rovesciamento totale della tradizione, perché si impadronisce del tema dell'obbedienza cieca e persegue la ricostituzione del califfato di tutto l'islam con un progetto di potere totalizzante. Comunque, fu la dinastia abbaside a far precipitare i musulmani nell'oscurantismo condannando gli intellettuale liberi e chiamando a collaborare con il califfato la scuola di pensiero "basata sulla ta ‘a [l'obbedienza], che metteva al bando la riflessione. Questa tradizione è chiamata shari‘a, e ha dato luogo alla confusione che ancora oggi blocca il processo democratico, legando la nostra cieca obbedienza al leader con il nostro rispetto per la religione".
La sistematizzazione di questo indirizzo venne formulata dall'iraniano Abd al-Karîm al-Shahrastânî nel XII secolo, il quale fece coincidere l'obbedienza con la rivelazione, per cui tutta la civiltà islamica era riassumibile con il solo sapere rivelato in lingua araba. L'autrice trascrive un passo centrale dell'opera di Shahrastani, secondo cui: "Un musulmano è colui che crede e obbedisce. La religione è obbedienza. Un musulmano che obbedisce è uomo di religione. Colui che dà la priorità alla propria opinione è un innovatore modernizzante e un creatore". Le parole chiave che segnano il conflitto interno nelle società islamiche attuale sono, per l'autrice, tutte già contenute nell'opera di Shahrastani: nel polo dell'obbedienza al leader ci sono la fedeltà a Dio, la religione, il credo e l'obbedienza; nel polo razionale ci sono l'opinione personale, l'innovazione, la creazione. Attualmente, le tre parole chiave del polo razionale vengono presentate nelle prediche degli imam tradizionalisti come straniere.
Il problema di fondo, per l'autrice, risiede nel fatto che "la rottura con lo stato medievale, che usava il sacro per legittimare e mascherare un governo arbitrario, non ha mai avuto luogo nel mondo arabo." In sostanza, nel mondo islamico non c'è mai stata una fase in cui lo stato svolgesse la funzione di garanzia per il rispetto delle opinioni individuali e una cultura che sopportasse l'esercizio della critica, salvo brevi periodi dovuti all'autonoma decisione di califfi o di regnanti illuminati, in India come nel Vicino oriente. Oltre tutto, il periodo del colonialismo occidentale fu altrettanto brutale e miope, per cui l'esperienza della modernità che la gente fa nel mondo arabo è priva di uno schema mentale di base. Perciò non ne comprenderebbe i fondamenti, i concetti di base. La libertà di pensiero, ad esempio, viene identificata – anche grazie alla propaganda che gli stati arabi fanno nelle scuole – con il terrorismo kharigita e con il disordine.
D'altra parte, i movimenti nazionalisti che portarono all'indipendenza degli stati musulmani, per radicarsi tra il popolo, adottarono una specie di approccio nazional-popolare, ricuperando le tradizioni più durature e consolidate, e innestando su queste i concetti della democrazia moderna, come il parlamento, la costituzione e il suffragio popolare. Ma saltarono completamente alcuni passaggi essenziali, come "la sovranità dell'individuo e la libertà di opinione, che costituiscono la base filosofica di queste istituzioni e concetti". Ora, durante la fase della decolonizzazione, i riformatori (e i militari che presero il potere), dialogando con i religiosi ma escludendo le espressioni del pensiero razionale e indipendente, "cercarono di legare il concetto di costituzione statale alla shari‘a, la legge di origine divina". Sarebbe come se in Occidente le costituzioni fossero direttamente ispirate e chiamassero esplicitamente in causa i Vangeli e le prescrizioni religiose, che è peraltro una prospettiva accarezzata da molti ambienti tradizionalisti cristiani. E che, in modo più mediato ma non meno insidioso, fa anche il Vaticano con la sua insistenza di inserire nella costituzione europea le radici cristiane. Comunque, nel mondo arabo, coloro che chiedevano di tenere distinto il concetto di costituzione da quello di legge divina "furono condannati come infedeli, blasfemi, alleati dei colonizzatori, agenti del nemico."
L'autrice non si sottrae all'inquietante interrogativo di come mai il fondamentalismo islamico possa reclutare tanti adepti nei dipartimenti scientifici e negli istituti tecnologici, cioè proprio là dove l'idea di un pensiero libero è improntato a un metodo naturalistico. La risposta che non si possono formare degli scienziati "in società che rigettano la libertà di pensiero come contraria all'identità islamica", è convincente ma non esauriente. Qui c'è qualcosa di più profondo, che da un lato riguarda forse un sentimento fortemente interiorizzato di storica emarginazione a cui qualunque musulmano reagirebbe in qualche modo e, dall'altro, c'è l'inprinting che in tutte le scuole e nelle famiglie viene fissato nel cervello dei bambini, proprio sulla questione della non autonomia della persona e sul rapporto tra umano e divino. Il premio è la pace interiore, purché si sacrifichi il desiderio: "rinunciare alla libertà di pensiero e sottomettersi al gruppo è il patto che condurrà alla pace." E, probabilmente, c'è anche il retaggio di quel modo di pensare atomistico di cui parlava Bernard Lewis.
Più avanti, la Mernissi descrive i metodi di insegnamento in uso nella scuola coranica di massa dove si impara a leggere e a scrivere a partire dai tre anni, mandando a memoria i versetti del libro sacro in una lingua in genere non più parlata. Una specie di lavaggio del cervello, più o meno come in una vecchia scuola catechistica a tempo pieno, dove un'identità preformata viene scolpita nella mente dei fanciulli. "Tutte [le scuole coraniche] – aggiunge l'autrice – assomigliano molto alle descrizioni delle scuole medievali". Ma la differenza, rispetto al passato, è che oggi i bambini più ricchi frequentano scuole di impronta occidentale. La scuola coranica di quartiere, d'altra parte, quella che ha un'affluenza di massa, assicura la sorveglianza di un bambino per l'intera giornata e non costa più di tre dollari al mese.
Poi c'è la radicalizzazione imposta dall'aumentata distanza tra ricchi e poveri, che coinvolge idealmente anche gli intellettuali benestanti (o una parte di loro), un malessere sociale diffuso, "radicato nella frustrazione economica e nelle impari opportunità" che "usa il linguaggio della religione sia come linguaggio di protesta e di rivolta che di dissimulazione e manipolazione". In queste condizioni, con il tramonto di ideologie politiche alternative di speranza e con lo strapotere occidentale nei mercati e nelle ragioni di scambio, la religione appare come l'unica via di uscita, dotata di una sufficiente potenza emotiva, per sperare in un mondo migliore. D'altra parte, aggiunge con amarezza l'autrice, gli uomini di affari e i governi arabi temono la democrazia e la richiesta di rispettare i diritti dei cittadini, così come "i principi del petrolio, sarebbero pronti a investire in tutte le religioni del mondo se ciò potesse bloccare l'invasione della democrazia".
Un capitolo del libro è dedicato al conflitto tra la Carta delle Nazioni Unite e il Corano. Che è, a mio avviso, il punto politico (e filosofico) di fondo che nelle accese discussioni a cui si assiste viene raramente citato. Un documento fondamentale di cui, per inciso, non possono essere depositari i soli occidentali, perché rappresenta un patrimonio comune dell'umanità e che ha radici – come sostiene Amartya Sen – non solo nella tradizione della rivoluzione francese o di quella americana, ma anche nella storia di numerosi altri paesi.
Ma l'esistenza della Carta, scrive l'autrice, è un segreto ben custodito nelle valigette dei diplomatici arabi, del tutto ignoto alla grande massa delle popolazioni arabe. Certamente la storia sarebbe cambiata se l'Arabia Saudita (uno degli stati firmatari originari della Carta) "avesse mobilitato il suo enorme apparato educativo e di propaganda e la sua rete di banche per spiegare che lo stato secolare sancito dall'Articolo 18 [l'articolo che riconosce il diritto alla libertà di pensiero, di coscienza, di religione] non è tanto uno stato composto da funzionari atei, quando uno stato che proibisce ai suoi agenti di sperperare fondi pubblici per imporre la propria interpretazione della religione." Invece, le leggi interne della maggior parte di questi stati contrasta con la Dichiarazione universale dei diritti umani da essi sottoscritta, anche dei rari stati che hanno ufficialmente adottato un regime laico. Ma lo stato che è più fuori dal rispetto della Dichiarazione è l'Arabia Saudita, la quale, come si sa, è la sorgente principale del finanziamento delle scuole coraniche che, in tutto il mondo, predicano il credo wahhabita, ossia una versione integralista dell'islam e una interpretazione letterale del Corano.
Nei pochi stati arabi in cui la modernizzazione è stata proposta al posto della tradizione, l'ossatura della modernità, che coincide in larga parte con la libertà di parola e di pensiero e di associazione, è stata paradossalmente negata. I presidenti lo sono stati praticamente a vita e i cittadini non hanno avuto alcuna voce in capitolo su come spendere i soldi che lo stato ricavava da loro. Comunque, "le libertà pubbliche di cui parla la Dichiarazione Universale dei Diritti Umani suonano in modo strano in una società che teme l'individualità, perché la considera la fonte di ogni squilibrio." A me pare, come ho ripetutamente detto, che sia qui il centro del problema e del confronto culturale da sviluppare.
In quale misura il comunitarismo tradizionale di quelle terre blocca la conquista di una più ampia libertà civile e politica, oltre alla creatività e all'innovazione, in quanto pericolose per la compattezza del gruppo? È possibile una separazione tra sfera politica e sfera religiosa, che attenui, se non elimini, il controllo totale che la religione pretende di avere sulla mente delle persone? E come mai anche nei rari casi in cui lo stato arabo si dichiara laico le libertà democratiche sono limitate se non inesistenti?
Se la scelta fatta alla Mecca nell'anno 8 dell'Egira, di vincere l'anarchia e le lotte fratricide del tempo assoggettando l'individuo ad un collettivo più vasto del clan tradizionale, in nome di una divinità totalizzante, per avere la pace era giusta allora, si deve osservare che "se la stessa scelta ci si presenta oggi, la risposta non ha gli stessi parametri e le stesse dinamiche, non richiede le stesse soluzioni." Mi sembra che sia qui il punto della divergenza centrale tra quanto sostiene la Mernissi e il tradizionalismo imperante nelle società islamiche, fino all'estremismo wahhabita e alle altre correnti integraliste. La tradizione deve essere reinterpretata alla luce dell'evoluzione della storia e ciò che manca nella cultura araba diffusa è quello storicismo (o il relativismo, così vituperato delle gerarchie cattoliche) che da noi può considerarsi superato solo perché è diventato patrimonio culturale acquisito e genericamente diffuso: è un meme, direbbe Dawkins. Non a caso, nel proseguire la sua analisi, l'autrice si dedica alla ricostruzione storica della predicazione del Profeta e alle ragioni del suo successo.
Certo, aggiunge la Mernissi, non aiuta la diffusione di una cultura della modernità il fatto che tutti gli interventi militari siano stati praticamente presentati dai presidenti americani in nome del dio cristiano. A partire dalla dichiarazione diffusa in tutto il mondo da Bush senior nel 1991 nella quale si concludeva: "Questa sera, mentre le nostre forze armate combattono, loro e le loro famiglie sono nelle nostre preghiere. Dio benedica ognuno di loro e le forze di coalizione al nostro fianco nel Golfo." La gente araba si chiese: "Ma di quale Dio sta parlando?". E il fatto che Bush junior mischiasse di continuo ragioni politiche e menzogne sull'esistenza di armi di sterminio di massa in Iraq con degli appelli e con un linguaggio intrisi di religione, ha semplificato il compito della propaganda integralista islamica di presentare ciò che avveniva come un'aggressione cristiana. Quelli frullavano insieme Dio e democrazia, questi percepivano di conseguenza le azioni militari come se fossero gli "attacchi mercenari delle orde preislamiche del Settimo secolo e delle successive crociate cristiane".
La reazione delle masse arabe all'iniziativa occidentale, che ha attraversato in modo pressoché omogeneo tutti gli stati islamici e che ha sorpreso gli occidentali, poggia sul concetto fondamentale della umma che trae origine da un versetto del Corano. La umma come "comunità formata da uguali, e quella della umma la cui solidarietà attraversa i confini e include le culture, dando ai musulmani il confortante senso di appartenenza, di comunione universale che colpisce così tanto quando si viaggia all'estero". Un universalismo, debbo notare, che mentre include popoli e storie assai diversi, esclude nello stesso tempo tutti quelli che non hanno la stessa fede. Un universalismo non dissimile, come abbiamo già visto nel precedente Labirinto, dall'universalismo degli altri monoteismi. Un universalismo che afferma l'uguaglianza solo tra chi crede nello stesso Dio, e che non è il frutto di una convenzione tra le genti ma discende da un ordinamento presunto divino. Un universalismo di grado inferiore a quello laico, insomma. Eppure, osserva l'autrice, non si potrebbe spiegare l'enorme espansione storica e anche attuale dell'islam "solo con lo spirito combattivo degli arabi pieni di fervore religioso", senza tenere nel debito conto un fattore molto importante: "l'insistenza del Corano sull'uguaglianza di tutti, a prescindere dalla razza o dall'estrazione sociale". Osservo però che ci sarebbe molto discutere sulla realizzazione storica di questi principi (ancora una volta il mio riferimento è a Bernard Lewis e alla sua storia del mondo arabo) e sulla sua pratica attuale.
L'analisi e la reinterpretazione dell'islam da parte della Mernissi prosegue addentrandosi in una ricostruzione della sua storia iniziale, quando gli arabi avrebbero osato fare due cose che nessun'altra civiltà avrebbe tentato di fare: "rinnegare il passato, un passato oscuro [quello preislamico], e nascondere il femminile". Dubito che nascondere il femminile sia una prerogativa del solo islam. Ma è vero che, per quanto riguarda il passato, in Europa, dopo un periodo di sistematica cancellazione della civiltà classica e pagana (la celebrata funzione di trascrizione e di salvataggio dei manoscritti antichi da parte dei monaci non può nascondere il fatto che centinaia di altri testi furono distrutti o non riprodotti per motivi religiosi), c'è stato un Rinascimento che ha ricuperato le radici della propria storia, sia pure reinterpretandola. Nulla di tutto ciò sarebbe avvenuto nel mondo islamico. D'altra parte, sarebbe un po' azzardato sostenere che le società preislamiche potessero essere una fonte di civilizzazione e di ispirazione per le età successive. Anzi, ho l'impressione che il loro tribalismo, traghettato intatto nel nuovo contesto religioso, è stato ed è un dei problemi di fondo del mondo islamico.
Le divinità preislamiche della jahiliyya (un termine abbondatamente usato durante le recenti guerre da parte delle televisioni arabe) sono state, dunque, del tutto cancellate e associate all'oscurità, alla violenza, al demonio. Ora, gran parte di quelle divinità erano femminili e ciò ha comportato l'affermazione di una cultura antifemminile. "Al pari dell'era moderna – afferma la Mernissi – l'età dell'oscurità era caratterizzato da un circolo di povertà, violenza e disordine. L'islam spezzò questo circolo e insegnò agli arabi ad appropriarsi delle stelle e del tempo per fabbricarsi un presente. Ma per poter fare questo, prima di tutto bisogna distruggere al-‘Uzza [la venere araba preislamica] fisicamente, ma anche cancellarla dalla memoria: il femminile non avrebbe più dovuto comparire dove si esercita il potere. L'epoca del femminile doveva essere l'epoca morta, il tempo zero". Il veto islamico nei confronti del femminile sembrerebbe collegato alla soppressione del culto sanguinario delle dee di quel tempo.
Le tesi dell'autrice, accompagnate da una minuziosa ricostruzione del passaggio dal mondo preislamico al trionfo dell'Islam e da metafore affascinanti, sono suggestive e rappresentano certamente una delle chiavi più interessanti per avvicinarsi alla comprensione del mondo musulmano. Tuttavia, ci si riferisce sempre al periodo meccano dell'islam. Ma l'islam –osservo - si è espanso anche su altre terre, di ben più antica e avanzata civiltà e di altre tradizioni. Anzi, osserva Bernard Lewis, la civiltà islamica non "fu portata bella e pronta dagli invasori arabi fuori dal deserto, ma fu creata dopo le conquiste grazie alla collaborazione di molti popoli, arabi, persiani, egiziani e altri", come anche dalla collaborazione di coloro che musulmani non erano e che vivevano nelle terre di cui spesso avevano favorito la conquista, in odio ai bizantini. Ma, se il ragionamento antropologico-culturale, anche degli islamici moderati come la Mernissi, continua a ruotare, quasi ipnotizzato, intorno alle usanze, alle culture e ai luoghi di quanto accadde e venne detto nella città della Mecca, ciò non fa che confermare il fatto che la religione costituisce il dominus, non so davvero quanto superabile, di una mentalità che non riesce a porsi davvero il problema del futuro. Tuttavia, il tentativo dell'autrice di storicizzare la tradizione, fin dal momento della sua nascita e, anzi, di andare più in profondità rivisitando il periodo preislamico costituisce, se non mi sbaglio, un tentativo di superare questa difficoltà.
Il libro della Mernissi si conclude con un canto di speranza e di libertà che parte proprio dalla donna, perché la sua umiltà "è il perno dell'intero sistema politico. Interi capitoli nella collezione degli hadith (detti e azioni del Profeta) ci impongono come legare i nostri capelli, come abbassare gli occhi, come indossare il pudore al modo di una sottoveste." Tanto che i codici civili dei paesi musulmani, salvo che in Turchia e in Tunisia – ma anche qui con minacce concrete di regresso – riproducono "la figura di una famiglia a immagine del palazzo califfale, nel quale è richiesta la ta‘a [l'obbedienza] e la volontà del leader domina su quella di tutti gli altri". L'integralismo islamico colpisce anche quel tanto di processo di liberazione che ha attraversato l'islam, dove l'hijab [il velo] è una manna dal cielo per i politici che affrontano una crisi. Non è un semplice pezzetto di vestito, è una divisione del lavoro. Rimanda le donne in cucina." È anche, secondo me, il simbolo di una insuperata ineguaglianza civile e culturale tra donne e uomini, dove l'aspetto religioso non mi interessa minimamente.
In conclusione, mi sembra che una delle tesi dell'autrice sia che le guerre scatenate dai fondamentalisti occidentali, magari in nome della democrazia, non fanno altro che favorire i fondamentalisti islamici, bloccando qualsiasi processo di liberazione delle donne, per non parlare di tutti gli altri aspetti della vita sociale, politica e culturale.
Per l'autrice, gli scenari aperti sono due. Il primo vede un Occidente che realmente si sforza di esportare la democrazia e di aiutare la liberazione delle donne, ma che dovrà farlo contro i suoi interessi di breve periodo e rinegoziando i rapporti economici e politici. Il secondo è la strada della smilitarizzazione. Le spese per gli armamenti divorano gran parte delle risorse dei paesi islamici (21,8% del PIL l'Arabia Saudita, 17% la Siria, 16& la Giordania, tanto per fare qualche esempio). Certamente la strada della pace e dell'universalizzazione dei diritti umani non passa attraverso l'alimentazione forsennata degli armamenti nei paesi dell'area musulmana, investendo "nelle industrie belliche occidentali." Tanto più che - aveva in precedenza osservato l'autrice – "è certo che se il destino delle donne è già precario in una società araba che vive in pace, diventa vacillante in presenza di guerre e di invasioni da parte di forze straniere."
Nonostante tutto, l'autrice si dichiara una inguaribile ottimista e lancia un appello da condividere: lasciateci avere meno armi e più istruzione.
Fin qui abbiamo ascoltato una delle voci islamiche riformatrici che vivono in un paese arabo. Ma che cosa ne pensano dei problemi sollevati i musulmani che ormai vivono stabilmente in Europa? Lo vedremo nel prossimo percorso del successivo Labirinto.

(continua al Labirinto n. 13)

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