13. Labirinti di lettura
III. Il trono, l'altare (e al-minbar)

"La prode difesa della comunità e la promessa
di farle riguadagnare i favori a essa negati
dai liberali non avrebbero mai visto la luce se non
per il fatto la cavezza con cui le collettività
legano i propri membri a una storia, usanza,
lingua o sistema pedagogico comuni
diventa di anno in anno sempre più logora."

Zygmunt Bauman, Modernità liquida

Sesto percorso
islam europeo?

Ramadan

Dunque, l'islam non rappresenta solo una parte importante di chi crede e una fascia geopolitica rilevante ma, per la prima volta nella storia, sta assumendo dimensioni ragguardevoli all'interno dell'Europa, convivendo con regimi costituzionali del tutto diversi da quelli che ha storicamente conosciuto e prodotto, trovandosi in una condizione di minoranza.
Certo, non bisogna esagerare con questa storia della presenza musulmana in Europa e con i fantasmi sconsideratamente agitati di una minaccia di islamizzazione del continente, che obbligherebbe ad una necessaria difesa dell'identità europea (naturalmente cristiana). In Europa i musulmani non sono più di otto-dieci milioni, secondo il sociologo Stefano Allievi, studioso del fenomeno, oppure da dodici a quindici milioni secondo altre valutazioni, compresi quelli di seconda e terza generazione (la popolazione dell'Unione Europea è di quasi mezzo miliardo di persone). In Italia i musulmani sarebbero poco più di 800.000 (1,4% della popolazione), dei quali circa 160.000 nati qui; compresi i convertiti, che non sono più di diecimila, in grande maggioranza per motivi matrimoniali.
A tutto ciò va aggiunto che, secondo le stesse stime di fonte islamica, i praticanti veri e propri sarebbero in nettissima minoranza, come accade tra i cattolici. Secondo Tariq Ramadan, riferendosi alla situazione media europea, "almeno l'80% dei musulmani non pratica la propria religione regolarmente e, ad esempio, non predica quotidianamente; meno del 40% partecipa alla preghiera del venerdì, mentre circa il 70% digiuna nel mese di Ramadan." Secondo altre valutazioni, non più del 10% dei musulmani che vivono in Italia frequenta regolarmente la moschea, anche se questo non può essere l'unico indicatore per capire quanti sono i praticanti. Come, del resto, nel caso del cattolicesimo, le cui statistiche assumono che tutti i battesimati siano cristiani. Il che nulla toglie, ovviamente, al fatto che esista una diffusa cultura (un condizionamento ambientale e familiare, sia nel caso islamico che cristiano) che si richiama genericamente al contesto dei valori religiosi.
Ora, è del tutto evidente come non sia possibile riassumere in un autore la grande varietà di atteggiamenti, culture e tradizioni espressi dagli immigrati e dai musulmani nati in Europa. Tuttavia, Tariq Ramadan appare rappresentativo di una delle tendenze che sembrano cercare una via di inserimento stabile nei nuovi contesti sociali in cui vivono i musulmani, tentando, nello stesso tempo, di non rinunciare ai fondamenti dell'islam. Ramadan sembra avere un certo successo soprattutto tra i giovani musulmani, ai quali prevalentemente si rivolge.
L'autore si batte su due fronti. Da un lato, contro la ripetizione tradizionalista e arabocentrica della religione e la ghettizzazione degli immigrati (modello britannico, ovvero il mosaico etnico di cui ho parlato nel terzo percorso) e dall'altro, contro l'assimilazione e la mimetizzazione dei credenti islamici (modello francese). In altre parole, è contro il comunitarismo tradizionale dell'islam e, soprattutto contro quella che è stata definita una "servitù etnica", però difende un'identità islamica adattata al contesto occidentale e, quindi, è comunque per quella che definisco una "servitù identitaria". Si tratta, ovviamente di un percorso accidentato e non privo di contraddizioni, che tuttavia non va liquidato in modo semplicistico, ma va esaminato e discusso con attenzione. In un mondo che sta esplodendo, non ci possiamo permettere le facili approssimazioni e nemmeno di ragionare con i mal di pancia.
D'altra parte, Tariq Ramadan è un personaggio molto discusso, accusato a più riprese di essere ambiguo nelle sue formulazioni e nelle sue posizioni, di usare due linguaggi (uno per le culture occidentali e uno per gli immigrati) e, infine, di essere il nipote del fondatore dei Fratelli musulmani in Egitto e il fratello di un esponente radicale. Anzi, di essere un uomo di punta del movimento. Insomma, dà molto fastidio a una parte e all'altra e la sua proposta di costruire un islam europeo suscita diffidenze, interrogativi e contrarietà. Tra i tradizionalisti musulmani perché tradirebbe il vero islam e tra i tradizionalisti di casa nostra perché rappresenterebbe una specie di cavallo di Troia per la conquista islamica dell'Europa dall'interno. Una rapida ricognizione sul Web dei giudizi assai contrastanti su di lui è piuttosto illuminante, assumendo spesso il classico schema destra-sinistra come unico criterio di giudizio, o meglio, di viscerale pregiudizio.
Ramadan, contro gli attacchi che gli vengono continuamente mossi, protesta chiedendo di essere giudicato per quello che scrive e non per quello che riportano i mezzi di informazione pregiudizialmente contrari all'islam. Per esempio, l'essere stato inviato a discutere al Festival della filosofia di Roma di quest'anno, ha scatenato una valanga di accuse contro gli organizzatori perché si dava ascolto a una specie di fiancheggiatore degli integralisti, se non addirittura ad un simpatizzante dei terroristi. Mentre il suo recente intervento al Festival della letteratura di Mantova ha suscitato le ire di Christopher Hitchens, il noto ateo militante neoconservatore, di cui vedremo un testo in un successivo percorso. Per non parlare del fatto che in molti commenti sulle liste di discussione nel Web e le opinioni pro e contro Ramadan, a proposito della vicenda di Mantova, assumono subito l'incredibile ma usuale scorciatoia di buttarla in politica politichese (di casa nostra), invece di concentrarsi su una critica di merito.
Penso che Ramadan abbia tutto il diritto di essere giudicato per quello che scrive, come pure che sia soggetto all'interpretazione di chi lo legge, anche alla luce del criterio della religione naturale di cui ho parlato nel primo percorso, oltre che di un principio liberale che dovrebbe essere scontato. In altre parole, gli interrogativi che suscita, ciò che scrive e propone sono più seri delle invettive prefabbricate e dei pregiudizi, che non permettono nemmeno di vedere se le sue posizioni rappresentino davvero una novità. Difatti, le cronache sono piene di comunicati stampa in cui è costretto a smentire dichiarazioni attribuitegli da una parte dei media. Preferisco e condivido l'atteggiamento di attenzione critica espressa da Gian Enrico Rusconi su La Stampa.
Il libro di Ramadan Essere musulmano europeo [Troina, Città Aperta, 2002, pp. 340] è corredato da un'ampia e apprezzabile prefazione di Stefano Allievi nella quale si osserva, tra l'altro, che le posizioni dell'autore sono criticate da altri musulmani più radicali di lui nel tentativo di modernizzare l'islam, i quali lo accusano di non spingersi molto avanti sulla strada riformatrice.
In effetti, Ramadan ripete continuamente che non intende spostarsi dai pilastri fondamentali dell'islam. Rimane un fermo credente che tenta di fare un'operazione intelligente dal suo punto di vista. Per esempio, è contro il processo di secolarizzazione, né più né meno di quanto lo è la gerarchia cattolica, ossia conserva una visione del mondo in cui la religione deve avere un posto centrale e condizionante, alla lunga, del potere politico. Non ci sono grandi differenze, su questo punto con ciò che va predicando papa Ratzinger, anche se la maggior parte dei commentatori si guarda bene dal metterlo in evidenza.
Per certi versi, suggerisce Stefano Allievi, il tentativo di Ramadan è "la riforma protestante che qualcuno ciclicamente rimprovera all'islam di non avere vissuto". Insomma, l'autore cerca di trovare quel giusto mezzo "tra quelli che chiama i musulmani senza islam, che in Europa si secolarizzano fino all'invisibilità culturale, e coloro che vivono in Europa come se fossero fuori dall'Europa, ancora con la mente rivolta ai paesi d'origine o che ricostruiscono il proprio paese di origine in quello in cui vivono, chiudendosi in comunità etniche rinserrate su se stesse, non comunicanti con l'esterno." Si tratterebbe insomma, se non fosse questa una definizione impropria riferita all'Europa nel suo insieme, di una specie di tentativo di nazionalizzare l'islam. Un tentativo a mio avviso apprezzabile, un passo avanti, senza con ciò nulla togliere alle critiche di merito che continuo a muovere alla religione e alle sue conseguenze. Un tentativo con molti vuoti e molti silenzi, come quelli della mancanza di una riflessione fondativa sul rapporto con le altre religioni, come sottolinea Allievi. Mi sembra però trasparente il tentativo di Ramadan di attuare, almeno parzialmente, una riforma dell'islam tradizionale, tenendo conto del fatto che staccandosi troppo nettamente da mentalità e tradizioni secolarmente radicate, rischierebbe di esprimere una testimonianza senza riuscire a incidere minimamente sulla realtà. Del resto, di ambiguità e di contraddizioni è ricco anche il cristianesimo, ma siccome siamo abituati a conviverci non sempre le notiamo.
Ramadan mette quasi subito in chiaro qual'è uno dei problemi di fondo, osservando che la situazione dei musulmani europei "è resa più difficile per la presenza di due tendenze contraddittorie in cui una cultura iniziale e intima del dovere e della comunità entra in contrasto con un ambiente che dà la priorità alla libertà e all'autonomia, valori che esercitano un'attrazione naturale sugli esseri umani." Questo è il problema sul quale ho insistito e continuo a insistere in questi percorsi (l'assenza di autonomia della persona nelle religioni), assieme all'esistenza, che Ramadan ripete, di una "fede affermativa portatrice di una comprensione globale della creazione, della vita, della morte e dell'umanità." Non si poteva essere più espliciti su quanto il passaggio alla modernità debba superare una strettoia che può essere allargata soltanto dall'acquisizione di un abito mentale laico, che però l'autore non fa proprio. Ramadan parte dall'idea che i riferimenti islamici debbano essere molto chiari nel credente e che si tratterebbe di valori universali, assieme al fatto che "l'incapacità di fornire riposte adeguate" sia dovuta alla negligenza dei musulmani e non già alla loro fede, la quale incoraggerebbe invece costantemente "la ricerca e le scoperte sia scientifiche che giuridiche". Il che, contrasta discretamente con la storia del mondo arabo, mi pare, di cui l'autore intende per l'appunto saltare tutta la tradizione, ricollegandosi direttamente alle fonti primarie dell'islam. Ma non so come si regoli – a proposito di libera ricerca - con il versetto coranico in cui si afferma che Allah "ha taciuto alcune cose che non bisogna cercare di conoscere". È vero che anche sant'Agostino nelle Confessioni [XXXV], a proposito della curiosità, la chiama sprezzantemente cupidigia "che si riveste del nome di cognizione e di scienza". Ma, oltre a non essere un profeta, per fortuna Agostino non è stato seguito, almeno su questo punto, per quanto il desiderio di conoscenza abbia dovuto lottare parecchio (e ancora lotta) contro i divieti della religione cattolica. Una situazione che, a proposito di bioetica, si ripropone oggi.
D'altra parte, Ramadan sottolinea anche che l'espansione storica tra popolazioni persiane, indiane, bizantine e africane di antica civiltà, oltre a influenzare lo sviluppo dell'islam, lo ha obbligato a misurarsi con situazioni del tutto nuove, ossia "come mantenere viva la fede e restare fedele agli insegnamenti coranici e profetici in situazioni storiche, sociali e politiche nuove." Esattamente la situazione in cui si trova oggi l'islam in Europa, per di più in condizioni minoritarie. Un tema, questo, che torna di frequente nel libro.
Ora, la maggior parte dei giuristi (che sono anche, un po' impropriamente, secondo il nostro criterio, dei teologi, forse più assimilabili ai canonisti cattolici) ha seguito nella storia, secondo l'autore, la via "della cieca imitazione" e della ripetizione di quanto stabilito dopo l'involuzione abbaside di cui abbiamo parlato con la Mernissi. Per quanto mi riguarda, ripeto l'affermazione di Feuerbach, di essere contrario ad un diritto islamico, così come a un diritto cristiano, comunque a un diritto improntato ai valori religiosi. Ma Ramadan evita la discussione su questo punto, perché dà per scontata la legittimità di un diritto islamico, certo diverso da quello tramandato, per mettere in evidenza il pericolo, presente nelle posizioni tradizionaliste e integraliste, che l'islam tenda a definirsi "per opposizione a ciò che è la civiltà occidentale", invece di puntare sulla rielaborazione e l'aggiornamento dei propri modi di essere. La conseguenza di ciò è che se l'Occidente accetta "i cambiamenti, l'evoluzione, la libertà e il progresso", allora, logicamente e per opposizione, l'islam deve rifiutarli. Che è per l'appunto la posizione assunta dai tradizionalisti e dagli integralisti, condannando l'islam – come affermava già Fatema Mernissi – all'emarginazione. Che, nel caso europeo, vuole dire l'autoemarginazione dalla società in cui i musulmani vivono e lavorano. Ramadan, a questo proposito, rifiuta però di considerare la religione e la civiltà islamiche attraverso il prisma di un'altra civiltà "o per rifiutarla integralmente o per accettarla totalmente." Insomma, anche lui è alla ricerca di una terza via, tendenza che va molto di moda anche in altri ambiti, attraverso un'interpretazione più larga della shari‘a, disancorata da prescrizioni e interpretazioni storicamente superate. Ma il punto centrale delle sue tesi rimane che l'uomo non si appartiene totalmente davanti a Dio, opinione del resto condivisa con il cristianesimo e, in particolare, con il cattolicesimo.
Ci sono, nel libro di Ramadan, lunghi passi che trattano questioni di tecnica e di storia dell'interpretazione della tradizione, dove l'autore si sforza di sgombrare il campo dalla legittimità e soprattutto dalla possibilità di adattare al mondo moderno le vecchie e ossificate esegesi e sentenze. Sono passi che si rivolgono al credente musulmano e agli specialisti di islamologia, piuttosto che al lettore laico. Tuttavia, mi sembra opportuno osservare che Ramadan sostiene la necessità di revisionare il patrimonio giuridico alla luce di una più attenta filologia e attendibilità degli hadith e "della nostra capacità di comprensione contemporanea (per ciò che riguarda le recenti ricerche sulle questioni sociali, politiche ed economiche)". Strano che non citi le scienze naturali - il motore della modernità e di una diversa visione del mondo - tra le ragioni che richiedono una revisione profonda della tradizione. Una dimenticanza o ci troviamo di fronte alle solite limitazioni mentali umaniste, questa volta in versione islamica? Oppure sarebbe davvero troppo imbarazzante, servendosi della scienza, entrare in conflitto con talune delle affermazioni contenute nell'intoccabile Corano? Naturalmente, sarebbe agevole citare (e viene fatto di continuo nell'area islamica) una caterva di versetti coranici che esaltano la conoscenza e la scienza, ma questi ultimi sembra che vengano utilizzati soprattutto per dimostrare quanto fosse lungimirante il Profeta, interpretando oscure sentenze contenute nelle Sure in chiave di scoperte moderne. Se volete potete dare una scorsa a questo tipo di argomentazioni in una guida islamica sul Web.
La matrice e il vertice di tutta la conoscenza rimane comunque la religione, in modo del resto non dissimile da quanto sostengono gli integralisti islamici e cristiani. Questa inesauribile e multiforme interpretazione delle scritture sacre, adattandole alle tesi che si vogliono dimostrare e estraendone precetti contraddittori è tipico di tutte le religioni rivelate. Come nel caso della pace e della guerra. Se si vuole sostenere che l'islam è una religione aggressiva, ci sono dei versetti che lo confermano; così come se si vuole dimostrare che l'islam è una religione di pace.
Nello sforzo di mostrare quanto la situazione attuale si discosti da quella del passato, l'autore si addentra nella distinzione tradizionale e georeligiosa tra dar al-islam (il territorio dell'islam) e dar al-harb (il territorio della guerra, del conflitto, quello, insomma, in cui prevalgono altre religioni). Due concetti non appartenenti né al Corano né agli hadith. Si tratta di una visione binaria della realtà geopolitica nata dieci secoli fa che, applicata al mondo attuale, significa la continuazione di una visione medievale del mondo, quando anche in Europa - però a partire dal basso Medioevo - chi non era cristiano veniva considerato un invasore. Le cronache, anche nostrane, sono però piene delle gesta di individui, politici e non, che continuano a pensarla così.
In realtà, nella tradizione islamica esistevano anche altre classificazioni georeligiose, come dar al-amn (territorio di sicurezza, dove il credente poteva praticare tranquillamente la religione) o come dar al- ‘ahd (territorio con il quale esistevano dei patti interstatuali e dove quindi il credente era al sicuro). L'interpretazione che è però di gran lunga storicamente prevalsa è stata la prima classificazione binaria e i giudizi che "un musulmano non poteva considerarsi come facente parte di una società non musulmana" e che "i musulmani non potevano vivere in dar al-harb, salvo per circostanze eccezionali", continuano a essere ripetuti da molti imam.
Come la mettiamo ora che milioni di musulmani vivono in contesti non islamici? E non bisogna pensare solo all'Europa o all'America, ma anche all'India. La conseguenza di conservare le antiche classificazioni, sottolinea l'autore, è la permanenza e l'autoesclusione dalla società civile dei musulmani che hanno portato con sé le vecchie concezioni. Ma è anche il problema degli imam provenienti da un altrove e da una tradizione del tutto diversa e che perciò sono assolutamente digiuni della cultura occidentale, che vivono come una pericolosa nemica fomentatrice del peccato e di una visione materialistica della vita. Per inciso, l'autore auspica che cessino i finanziamenti per sostenere e orientare le strutture religiose europee da parte degli stati arabi (Arabia Saudita in prima fila), al fine di poter conquistare un'autonomia finanziaria e, quindi, di giudizio.
La tesi di Ramadan è che i musulmani europei, riesumando le vecchie distinzioni (sempre questa necessità di dover ricorrere ai precedenti...), vivono nel dar al-‘ahd (territorio del patto), visto che ci sono le Costituzioni che assicurano la libertà di culto) e che perciò la regola a cui debbono attenersi "è il rispetto del quadro legale nazionale e la volontà di cercare per ciascuno dei punti di vista apparentemente in contrasto con i principi islamici la soluzione più soddisfacente o, almeno, la meno peggiore." Solo così sarà possibile costruire un'identità islamica in Occidente, diversa, ovviamente, da quella tradizionale, più strettamente araba. Torna di nuovo qui la questione dell'identità, sulla quale l'autore stesso ammette che "non è solo una serie di prescrizioni, poiché essa è composta contemporaneamente di sentimenti emozioni, mentalità, culture, costumi eccetera". Vero, e non solo per questi aspetti, come vedremo più in dettaglio tra due percorsi, ma mi chiedo come sia possibile restringere e riassumere una tale varietà di componenti in una identità singola e necessariamente islamica. L'unica risposta possibile è che essendo l'islam (come altre religioni) totalizzante, qualsiasi aspetto della persona deve, alla fine e per forza di cose, essere ricondotto ad esso. E, infatti, più avanti, nel tentativo di definire meglio una tale identità l'autore cade in una generica banalità: "l'identità musulmana nel suo asse primario, è [...] una fede, una pratica e una spiritualità: essenzialmente è la dimensione dell'intimità e del cuore." Temo che tutto ciò non significhi alcunché.
Naturalmente, Ramadan chiede spazi giuridici ulteriori alla praticabilità della religione. E aggiunge che - essendo l'evoluzione della legge l'essenza del diritto - "non si può escludere, in particolari situazioni, che si debba prima o poi ricorrere a una modifica della legge e della sua applicazione (o semplicemente nei casi di giurisprudenza) per raggiungere una maggiore equità del diritto nei confronti di una popolazione di sui è stata riconosciuta la diversità sul piano religioso." Forse è proprio questo uno dei punti che suscita maggiore diffidenza. Il gesuita egiziano Samir Khalil. Samir sostiene che con la linea seguita da Tariq Ramadan "si tenta una conversione del sistema socio-giuridico europeo per arrivare a convertire le persone. Si tratta in questo caso – aggiunge - di islamizzare le strutture, partendo dalla premessa: l'Europa non ha più anima, ha solo tecnologia; l'Islam è l'unica religione a poter colmare questo vuoto." Ritengo questa tesi una discreta forzatura e un processo alle intenzioni, per quanto sembra che ogni tanto a Ramadan scappino, nelle sue numerose conversazioni pubbliche, giudizi assai negativi sul "predominio della razionalità e della tecnologia" in Occidente. Ma mi sembrano le stesse lamentele che si levano dalle file cattoliche.
Piuttosto, Ramadan, pur riconoscendo che nei paesi europei non ci sono impedimenti formali a praticare qualsiasi religione, lamenta che essa sia scomparsa dallo spazio pubblico, né più né meno di quanto lamentano di continuo le gerarchie cattoliche, con ben altri non commendevoli risultati. Qui sfugge evidentemente all'autore che se l'islam ha un crescente spazio per esprimersi in tutta Europa, questo è esattamente dovuto a Costituzioni laiche (non alla benevolenza di altre religioni) e al contenimento che le Costituzioni stesse operano nei confronti dell'invasività delle religioni. Per cui, non si rende conto che chiedendo l'abbassamento di queste salvaguardie fa correre dei rischi grossi alla libertà religiosa dei musulmani europei. Quanto al riconoscimento di specifici spazi giuridici praticabili per le varie religioni, rinvio alle osservazioni di Richard Dawkins in un prossimo percorso.
Il problema di fondo è in realtà il fatto che in Tariq Ramadan, come nei fondamentalisti americani o nei tradizionalisti europei, non è superata la compenetrazione tra pensiero politico e pensiero religioso. In sostanza, c'è un problema di soglia antropologica anche in questo caso.
L'altro problema, che l'autore non affronta, riguarda l'interpretazione delle Scritture, nel senso che una volta definite come differenti dal passato le interpretazioni giuridiche necessarie per vivere in Occidente e una volta accettata la pluralità delle esperienze islamiche, rimane il fatto che "l'islam, e i suoi riferimenti islamici, è uno e unico", come l'autore sottolinea. Ciò significa ovviamente l'intangibilità dei testi fondamentali (Corano e hadith), a differenza della riformabilità delle interpetazioni giuridiche e socio-culturali tramandate. Mi chiedo però, a questo punto, qual'è l'atteggiamento non sfuggente nei confronti di certi passi di alcune Sure coraniche, come quella che afferma chiaramente che "gli uomini sono preposti alle donne, a causa della preferenza che Allah concede agli uni rispetto alle altre e perché spendono per esse i loro beni [...]"; oppure quella che stabilisce di tagliare "la mano al ladro e alla ladra, per punirli di quello che hanno fatto e come sanzione da parte di Allah [...]; oppure che il compenso per coloro che [...]"seminano la corruzione sulla terra è che siano uccisi o crocifissi, che siano loro tagliate la mano e la gamba da lati opposti o che siano esiliati sulla terra [...]". Non mi sembrano sufficienti le dichiarazioni dell'autore a favore dell'allentamento di certe tradizioni riguardanti la donna.
Si tratta di sapere se questi e altri versetti si ritengono soltanto non applicabili, visto che si vive in un regime che non tollererebbe la loro osservanza, conservando tuttavia la loro validità di principio, in quanto contenute in libri intoccabili. Poiché la recitazione liturgica da parte del fedele musulmano deve avvenire sempre e comunque in arabo, essendo il Corano Parola di Dio, mi chiedo se continuano ad essere tramandati a memoria e recitati anche i versetti citati.
Insomma, si può condividere l'opinione che Ramadan rimanga molto al di qua di un approccio riformatore profondo. Tutto il testo di Ramadan parla, per esempio, di libertà di scelta della religione e abroga implicitamente le conseguenze dell'apostasia previste dalla legge islamica. Il problema, in questo come in altri casi, sta proprio in quell'implicitamente. L'algerina Leïla Babès, autrice del libro L'altro islam. Indagine sui giovani musulmani e la religione [Roma. Edizioni Lavoro, 2000, pp. 216], rimprovera a Ramadan – come osserva Stefano Allievi – "di non spingere abbastanza in là l'elaborazione di un figh [dottrina giuridica] europeo che sia capace di assumere argomenti scottanti, come lo statuto dell'apostasia, della conversione ad altra religione e quello della scomunica conseguente, presente nella shari‘a e soggetta, in linea di principio, a morte."
Il fatto è, mi sembra, che una dottrina giuridica del genere dovrebbe smentire la lettera delle Scritture e imboccare la strada della interpretazione allegorica e della loro storicizzazione, da applicare non solo alla tradizione giuridica ma alle stesse norme coraniche. In sostanza, si tratterebbe di sterilizzare alcune prescrizioni in un testo considerato non modificabile, in quanto diretta Parola di Dio. Del resto, nessuno si sogna (a parte i fanatici ebrei e cristiani) di applicare alcune delle criminali indicazioni giudiziarie, di cui riparlerò, contenute nella Bibbia. Tariq Ramadan non compie nessuna revisione di questo tipo, perché immagino che ciò lo metterebbe automaticamente fuori dell'islam. C'è da dire che anche fuori dell'Europa ci sono voci autorevoli, come quella del teologo libico Aref Ali Nayed, che ammettono la necessità di un lavoro di revisione e di adattamento. Un compito che non riguarda solo l'islam, secondo Nayed, se si vuole conciliare la tradizione religiosa con i concetti e i termini provenienti dalla Rivoluzione francese e dall'insegnamento liberale britannico.
Ma c'è un punto del libro di Ramadan che funziona come una cartina di tornasole nello stanare la limitatezza della sua adesione ai principi di laicità e di autonomia della persona. È quando – uscendo dall'ambito propriamente religioso - affronta la questione del rapporto tra islam (adattato all'Occidente) e arte, perché prova a misurare con una sfera culturale fondamentale la portata degli aggiornamenti che propone.
Dopo avere esaminato le varie prescrizioni storicamente esistenti nell'ambito dell'islam, che vanno dalla proibizione integrale dell'arte all'ammissione della sua pratica entro limiti più o meno ristretti, Ramadan, sembra assumere un atteggiamento più liberale. Ma non parte dall'idea che l'arte deve essere libera (come recita la Carta europea dei diritti) e dal rifiuto che una religione possa dettare norme su ciò che può o non può essere considerato arte. L'autore consiglia di rassegnarsi al fatto che, vivendo in Occidente le arti non possano essere evitate e che esse possano essere assimilate da parte dei musulmani a certe condizioni, come la formazione di una coscienza critica, il nutrimento del "senso di un'arte e [di] un'estetica dignitosa". Che diamine significhi un'estetica dignitosa mi limito solo a supporlo. L'accusare di eccesso di commercializzazione l'arte e osservare che "dietro la facciata della cultura popolare o della libera espressione si nasconde spesso la realtà della sola cultura del profitto e del denaro. Altro che arte e artisti", non è una grande novità. Ma provenendo da una cultura religiosa, c'è da temere una riedizione censoria all'insegna del rigore islamico. Tanto più che, aggiunge Ramadan allargando l'orizzonte, si tratta di dare vita a una cultura islamica europea nutrita di "parole che abbiano significato e che siano belle, musica che esprima armonia e sensibilità, canti di pace e di elevazione, quadri di luce e di pace". Insomma, conclude, un'arte che sia un "ponte che va incontro al Vicinissimo." Mi pare proprio di sentire un odore di vecchia sacrestia.

continua con il settino percorso

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