3. Labirinti di lettura
La riforma intellettuale e morale degli italiani
attraverso una o tre letture

Non è frequente incontrare l'espressione "riforma intellettuale e morale degli italiani". Io la uso abbastanza spesso. Ma cosa significa? Una risposta semplice non è facile, richiederebbe un libro. Le facce di questo problema sono infatti parecchie: storiche, culturali, politiche, sociali e, soprattutto, di carattere religioso. Insomma, la domanda evoca di per sé un labirinto. D'altra parte, di testi del genere ne sono stati già scritti molti, sia di analisi e denuncia del problema sia di proposta. Un percorso di lettura dedicato solo a questo tema risulterebbe francamente pesante. Perciò, potremmo intanto limitarci a parlare di un libro che con gli anni non ha perso di vigore e al quale il passaggio all'attuale fase politica e istituzionale conferisce una nuova attualità. Con l'Orologio di Carlo Levi (edizione in commercio: L'orologio d'Italia. Carlo Levi ed altri racconti, a cura di Giorgio Bàrberi Squarotti, 2001, Libroitaliano World, pp. 213) possiamo infatti felicemente cogliere almeno una parte del problema, trattandosi contemporaneamente di un'opera letteraria, politica e morale.

L'orologio d'Italia Eboli

Sempre ritorna con molta prepotenza nella lettura (e non potrebbe essere altrimenti) il paragone fra le condizioni politico-sociali di ieri e quelle attuali; la registrazione di un certo profetismo politico dell'autore e l'apprezzamento della grande efficacia, anche letteraria, delle descrizioni del gioco politico-sociale del tempo; la rilevazione dei limiti intrinseci di una prospettiva (quella della riforma intellettuale e morale) che non poteva realizzarsi per le condizioni internazionali dell'epoca, per la debolezza e la poca rappresentatività di forze che aspiravano a compiere una rivoluzione civile ma che non avevano radici robuste, popolari, nella storia del nostro paese. Siamo nel 1945, nei giorni del governo Parri di unità nazionale e del suo fallimento. Una lettura tutta politica di Levi è forse ingiusta, ma stiamo parlando di una delle più efficaci descrizioni nella letteratura italiana del secondo Novecento del cosiddetto palazzo, il luogo del potere politico per eccellenza,
Il libro rappresenta infatti, con una grandiosa metafora, lo scontro tra i Luigini, che sono la maggioranza e i Contadini, come categorie storiche che tagliano trasversalmente il territorio, i partiti, le appartenenze sociali e religiose, la cultura. Sarebbe troppo lungo riportare qui il lungo e vivace elenco di esempi che Carlo Levi mette in bocca al suo personaggio, Andrea. Ma, in buona sostanza, si tratta dello scontro tra i ceti produttivi, intellettuali e non (i Contadini), che fanno affidamento sulle proprie forze e non sui favoritismi, su un'etica del lavoro e sulle proprie capacità, sul rispetto delle regole e degli altri, da una parte. Dall'altra ci sono quelli che dipendono e che comandano (i Luigini), cioè che servono e imperano, i piccoli burocrati e gli ossequienti e gli accomodanti, gli opportunisti e gli imprenditori con i soldi degli altri, i sepolcri imbiancati e i corporativi, i profittatori e i "letterati dell'Arcadia", i clericali invadenti e quelli che la cronaca recente chiamerebbe "i furbetti".
Ora, si chiede ad un certo punto Levi, "come si fa a tenere insieme il Presidente e Teresa?". Anzi "come si potevano mettere insieme cose così disparate, gli uccelli [i dirigenti del Partito d'Azione, simbolo dei politici], il Presidente [Parri, simbolo delle istituzioni] e Teresa [la borsara nera, simbolo della indistinta folla romana]?". Per tenere ferma e rendere concreta la prospettiva di un cambiamento reale dell'Italia, che abbracciasse e coinvolgesse la gente in carne ed ossa (il suo arrangiarsi quotidiano, i suoi bisogni, le sue saggezze e le sue miserie) - assieme ad un modo di far politica nel quale la dirittura morale, l'assenza di machiavellismo, la chiarezza e la comprensibilità dei fini, un progetto nutrito di astratta razionalità, potevano persino confinare con l'ingenuità - assieme, ancora, alla metafora di un paesaggio in cui la libertà (gli uccelli, per l'appunto) sono la veste delle incomprensibili geometrie politiche che tendono ad una vita autosufficiente, incuranti dei "contadini che non cantano" e delle speranze nuove accese dall'irruzione della Resistenza nella storia italiana?
Effettivamente quei tre simboli non potevano stare insieme nelle condizioni esistenti a quel tempo (e non mi soffermerò su questo punto, abbastanza evidente), ma penso che la sofferta ricerca di Levi, per tutta la sua vita e soprattutto a partire dal suo confino politico in Lucania, durante il fascismo, affinchè quei simboli potessero stare finalmente insieme, sia una chiave di lettura importante de L'Orologio e della stessa vita di Carlo Levi. In questo senso, il libro è più la premonizione del futuro itinerario di ricerca dell'autore, che una profezia politica divenuta quasi attuale a distanza di cinquant'anni.
Dall'insuccesso dei cosiddetti Contadini, descritta ne L'Orologio, Levi esce con la decisione di compromettersi ulteriormente. Registra insomma la sconfitta dell'astratta categoria politica dei Contadini (come più tardi dovrà registrare quella concreta dei contadini del sud) ma non cessa per questo la sua ricerca per "mettere insieme il Presidente, Teresa e gli uccelli". E lo farà nell'impegno politico che sappiamo, nel suo essere dentro i processi che l'Italia ha attraversato, come testimone e come facitore di storia, tentando di utilizzare la cultura degli uccelli, come valore che non autorizza gli altri a fare una politica che trova in se stessa le ragioni della propria autosufficienza.
Tuttavia - forse la mia è una semplificazione - penso che il Carlo Levi de L'Orologio sia per davvero comprensibile solo all'interno del triangolo forte tracciato da questo libro, assieme al Cristo si è fermato ad Eboli, Torino, Einaudi, pp. 242 e a Le parole sono pietre, Torino, Einaudi, 1955, pp.161. Soltanto così la sua inquietudine, la sua ansia di una democrazia pulita, nonostante le grandi trasformazioni nel frattempo sopraggiunte in Italia, si restituiscono a noi ancora vitali e fertili. Almeno a tutti quelli che considerano l'impegno sociale e politico come un valore civile.
La discussione descritta tra Carmine ed Andrea sotto il Traforo di Roma, a proposito di Luigini e Contadini, ha un senso attuale solo se la si collega alla presa d'atto di Levi di un fallimento annunciato che non annichilisce un'idea ma che apre un itinerario diverso, più sofferto e forse meno lineare, ma non per questo meno fecondo. Perciò penso che sia sbagliato intepretare L'Orologio come una profezia sospesa che torna d'attualità dopo sessanta anni e che mette fra parentesi la storia di questo periodo come una specie di deviazione, una sorta di ospite abusivo dal quale potersi finalmente liberare.
Del resto, si possono sostenere queste impressioni anche con altre chiavi interpretative de L'Orologio. Come non considerare una metafora dell'orizzonte appena dichiarato lo stesso sogno della scomparsa e del ritrovamento dell'orologio, che dà per l'appunto il titolo al libro? Quell'orologio solidamente borghese, dal meccanismo preciso e robusto che, ad un certo punto, viene sottratto, generando nell'autore l'angoscia della perdita e della ricerca. E quel tribunale sognato, presieduto da Benedetto Croce, che rassicura Levi sulla legittima proprietà dell'orologio (una metafora nella metafora), ma che non per questo restituisce al proprietario l'orologio. Il quale proprietario l'orologio dovrà cercarselo da sé e scoprirlo quasi immediatamente, sotto i propri occhi, celato nella cassa di "una di quelle sveglie popolari, dal ticchettio penetrante e dalla soneria fragorosa". Questa sì, sembra quasi una profezia dell'itinerario successivo di Levi: la via di uscita da una sconfitta annunciata e descritta.
Quelle astratte evoluzioni degli uccelli avrebbero potuto risolversi in una concreta possibilità di cambiamento accettando le condizioni storiche che si erano venute creando, registrando i rapporti di potere effettivi, dentro e fuori il Paese. Insomma, accettando la realtà e lavorando assieme a Teresa, la popolana.
Si trattava di abbandonare un'ispirazione politica un po' giacobina e di fare i conti con la categoria del popolare, così come si era venuta storicamente e concretamente manifestando. Per rimanere nella metafora, dopo che Levi avrà svitato il suo orologio dalla cassa della sveglia in cui era stato inserito, girerà per giorni e giorni alla ricerca di chi sappia ripristinarlo nel suo primitivo splendore. Questo vuol dire che le idee, i valori non possono vivere in astratto, né farsi politica se non si innestano nel corpo crudo dei rapporti sociali. Da una prospettiva senza gambe, Levi passa così ad un possibilità di prospettiva: quella stessa per la quale milioni di persone hanno lottato, sofferto, si sono illuse ed hanno dato un senso alla propria vita nell'ambito di tradizioni politiche popolari.
Quel che permane vitale ne L'Orologio, come in tutta l'opera di Carlo Levi, fino ad affiorare prepotemente oggi come occasione reale (il mettere insieme il Presidente, Teresa e degli uccelli che non volino per proprio conto) è la prospettiva del compimento della rivoluzione democratica o almeno, per l'appunto, dell'avvio di una riforma intellettuale e morale del Paese.
Non si tratta di discutere di una possibile vittoria di Contadini sui Luigini - i quali ultimi, lo ricordo, forse sono maggioranza - bensì dell'affermazione o, almeno, del prendere corpo di quello che non si deve esitare a chiamare di nuovo il valore di una religione civile, della quale Levi era portatore. Vittoria possibile, non necessariamente probabile. Tanto più oggi, perché se sono cambiati i condizionamenti internazionali ed interni che determinarono allora gli esiti politico-sociali che conosciamo, i Luigini si sono moltiplicati, mentre il processo di riforma religioso avviato dal Concilio Vaicano II sembra essersi arrestato.
Così come occorre essere ben coscienti dell'impossibilità attuale di ridurre l'interpretazione della società, di quella che continuiamo sbrigativamente a chiamare una società complessa, a coppie antagonistiche semplificate. Proprio a questo proposito, Levi scrive altrove pagine splendide e tremende, dei veri tableaux vivants sulla piccola borghesia: quella paesana del Cristo si è fermato ad Eboli, la quale dovrà necessariamente essere trasformata da una futura rivoluzione contadina, come condizione del suo riscatto, e quella impiegatizia della Roma ministeriale ed accentratrice.
Quelle pagine bisogna meditarle ancora oggi, anzi proprio oggi, nel pieno di mutamenti e trasformazioni che viaggiano sul crinale di opposti esiti. Le cose che Carlo Levi dice su Roma come emblema di un potere gelatinoso che riproduce se stesso grazie al disincanto e alla passività dei cittadini, ad esempio, non possono non colpire e non essere confrontate con l'attualità politica cittadina e italiana.
L'Orologio ha un'apertura splendida, con una rappresentazione di grande efficacia della città, con la sottolineatura della sua arcaicità. Ma poi, subito, come un maglio, sopraggiunge la sentenza dell'ozio, opposto all'operosità torinese e del nord. Perfino nel rumore notturno: sguaiato quello di Roma, vitale quello di Torino. E poi, lungo il libro, la magistrale galleria dei personaggi felliniani, rappresentanti della piccola borghesia accidiosa e opportunista, e le invettive antiministeriali che chiudono in un solo fascio i vizi di un potere centralistico e i suoi chierichetti sociali. Oggi questa rappresentazione appare molto datata. La città è cambiata e riesce non solo a camminare sulle proprie gambe, ma a produrre persino cultura e un certo sviluppo. Si potrebbe persino apprestare, correggendo qualche antico vizio che ancora permane (l'approssimazione, la mancanza di continuità, un debole spirito civico, un'idea poco rispettosa del lavoro e facile ad affidarsi alla raccomandazione) a costituirsi in uno dei modelli di riferimento per le metropoli del XXI secolo.
Levi amava Roma come fatto astratto, come espressione culturale, come un magnifico quadro, purché fosse priva dei suoi abitanti. Roma pagava ancora, nella sua interpretazione, il centralismo sabaudo e poi quello fascista, fino al punto di rendere possibile l'imputazione alla città in quanto tale delle responsabilità dei gruppi dirigenti nazionali sui ritardi economici, sociali e politici del paese. La colpa della città, in certi passaggi del libro, sembra ridursi semplicemente al fatto di esistere. Ce la potremmo cavare dicendo che la qualità della minuteria borghese, anche romana, è speculare alla qualità della grande borghesia nazionale, ma - dice il personaggio del giudice parlando di Roma - "qui, tutto si impantana e perde forma o meglio, prende forma retorica e perde la propria sostanza". Per cui non possiamo non osservare che alla passività e al qualunquismo tipici di alcuni ceti romani corrisponde il furore pericoloso dei corrispondenti ceti del nord e un'altrettanta carenza di spirito civico, di orizzonti larghi, cioè una prevalenza di cultura piccola.
Forse è vero che i romani, ai tempi di Carlo Levi, comprendevano poco della realtà nazionale, chiusi come erano nella doppia prospettiva di un localismo strapaesano e della atemporalità della città universale, come avveniva da secoli. Forse è per questo che i centralizzatori più scalmanati non sono nati a Roma. Tuttavia non è questo il punto, quanto quello - oggi come allora - di come si può ancorare ad una religione civile, ad un'etica della responsabilità la popolazione italiana, compresa la propria ineliminabile ancorché da riformare piccola borghesia.
Per tornare al dialogo del Traforo, se la storia non è che una battaglia falsamente antitetica fra forze che di volta in volta prendono il nome di Papato ed Impero, di Riforma e Controriforma, di Comunismo e Vaticano, che una volta tolte lasciano intravvedere un polverio indistinto di comportamenti umani, c'è da chiedersi chi sono oggi i Luigini e i Contadini, magari consentendo ad una maggiore elasticità classificatoria di quanta Levi stesso non ne ammise a suo tempo e, soprattutto, sarebbe da continuare a chiedersi da chi sono costituite oggi le forze in campo. Non in termini politici ma prepolitici, senza la soggettività di una bipartizione tra ciò che è rock e ciò che è lento, come è stato fatto recentemente, ma con l'ancoraggio a regole condivise di convivenza. Il punto, ieri come oggi, è come si fa a traghettare stabilmente almeno una parte dei Luigini dalla parte dei Contadini, non tanto come consenso elettorale ma come acquisizione profonda e convinta di una sostanza morale effettivamente pratica e del rispetto non formale della persona.
Perché, conclude l'Andrea di Levi, "i Luigini puri non esistono, e neanche Contadini. Tutti hanno un po' dell'uno e un po' dell'altro, soltanto in diversa misura. Bisognerà concedere al Luigino di sfogarsi nei partiti, e preparare, per i Contadini, un altro piano. Adesso è ancora presto. La ruota sembra ferma ma ha già girato dalla loro parte, e per qualche anno non potremo fermarla. Ne sentiremo delle parole luigine! Ne vedremo, degli atti! Ma, a queste cose, siamo sordi e ciechi; e zapperemo la terra."
Ora, sono passati sessant'anni da quelle previsioni.

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