14. Cronache di politica economica:
L'Unione monetaria affronta la crisi

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La solidità della struttura dell'Unione monetaria europea si fonda sul "patto di stabilità e di crescita", vale a dire sul vincolo che i conti pubblici dei paesi partecipanti siano mantenuti sotto controllo (deficit non superiore al 3% del PIL e debito pubblico al di sotto del 60% del PIL o comunque tendenzialmente in rientro): la rigidità di tale previsione era già stata criticata a suo tempo da autorevoli osservatori sulla base della difficoltà, poi confermata dai fatti, di rispettare vincoli così stringenti anche in situazioni congiunturali avverse, che invece richiederebbero politiche espansive.

E infatti, puntualmente, al manifestarsi della recente crisi – prima finanziaria, poi economica tout court – la necessità, per i governi, di porre in essere interventi consistenti e tempestivi ha reso necessario derogare da quegli stringenti vincoli; l'iniziativa di renderli più elastici, asseverata obtorto collo dall'Ecofin nel 2003, è partita proprio dalle economie più solide dell'eurozona: Francia e Germania.

L'allentamento dei vincoli stabiliti dal "patto" fornisce però spazi alla speculazione contro i Paesi in difficoltà, come attualmente per la Grecia, il cui deficit accertato per il 2009 è pari al 12,7% del PIL e il debito al 130%.

Nella specifica situazione, le istituzioni europee stentano a trovare una chiara ed efficace linea di intervento; linea che potrebbe dover essere tenuta anche in altre, deprecabili, analoghe occasioni. Nel caso della Grecia, dopo un solenne attestato di solidarietà, peraltro solo verbale, da parte di Francia e Germania, la Cancelliera Merkel, per scongiurare pericolose tentazioni di moral hazard, ha successivamente avanzato l'ipotesi di escludere dall'unione monetaria i paesi che non siano in grado strutturalmente di rispettare gli impegni di finanza pubblica.

Mentre si dibatteva sul se e sul come intervenire in aiuto della Grecia, il primo ministro Papandreou, pressato da esplosive tensioni sociali interne a causa del piano di austerità imposto ai cittadini, in occasione di una sua recente visita negli Stati Uniti, ha ventilato un intervento del Fondo Monetario Internazionale. Tale ipotesi è malvista dagli altri partner europei, e in particolare dal Presidente della Banca Centrale Europea Trichet, i quali la considerano una non gradita ingerenza (di Washington) nei propri affari e, soprattutto, un segnale di incapacità dell'Unione a far fronte ai suoi problemi interni. È stata anche ventilata la costituzione di un Fondo di solidarietà europeo con attribuzioni e scopi analoghi a quelli del FMI, ma l'ipotesi va attentamente valutata per evitare la creazione di un costoso doppione di dubbia utilità o addirittura controproducente dal punto di vista dell'impegno al rigore da parte dei paesi in difficoltà.

Più realisticamente, in occasione della riunione dell'Eurogruppo del 25 marzo, è stato raggiunto un accordo che prevede la possibilità di aiuti bilaterali per la Grecia, su base volontaria e subordinati al rispetto degli impegni assunti da quel governo in materia di conti pubblici. Le forme e l'entità degli interventi restano indeterminate: nel caso di prestiti o sottoscrizioni di titoli di stato, questi dovranno avvenire a tassi di mercato. L'accordo prevede anche la possibilità di un intervento del Fondo Monetario Internazionale in misura "minoritaria", inferiore cioè rispetto a quello dei paesi dell'euro. La Germania ha subordinato il proprio assenso a una revisione del patto di stabilità che lo renda più stringente, prevedendo anche sanzioni per i paesi inadempienti; sanzioni, però, che se comminate aggraverebbero una situazione di per sé già difficile.

Sul modo migliore per risolvere i problemi fioccano i consigli da parte degli esperti; resta comunque il fatto che accanto ai problemi oggettivi delle pubbliche finanze di un paese occorre anche fronteggiare quelli dovuti alla speculazione finanziaria internazionale che scommette sull'insolvenza del paese medesimo; lo costringe così a collocare i propri titoli sul mercato a tassi più elevati di quanto sarebbe economicamente adeguato. E tassi più alti, si rammenta, significano oneri maggiori per il bilancio e, in definitiva, minori investimenti pubblici e tasse maggiori per i cittadini.

A questo riguardo, il premio Nobel 2001 per l'economia Joseph Stiglitz (i), in occasione di una lectio magistralis tenuta all'Università Luiss lo scorso 5 febbraio, ha osservato che "i governi hanno contratto molti debiti per salvare il sistema finanziario, le banche centrali tengono bassi i tassi per aiutarlo a riprendersi oltre che per favorire la ripresa. E la grande finanza cosa fa? Usa i bassi tassi di interesse per speculare contro i governi indebitati. Riescono a far denaro sul disastro che loro stessi hanno creato". Il fatto è che occorrerebbe contrastare la possibilità stessa di speculare sulle difficoltà di un paese, aggravandole, piuttosto che porre rimedio ai guasti prodotti dalla speculazione stessa, imponendo sacrifici ai paesi che ne sono oggetto. I mezzi sono diversi ma di efficacia limitata a causa della dimensione internazionale del fenomeno speculativo e della sostanziale deregulation di quei mercati: si pensa alla possibilità di tassare pesantemente i relativi proventi; di regolamentare in modo più stringente i mercati dei credit default swap, che sono in realtà scommesse sull'insolvenza di una società quotata o di un paese, o quelli dei rischiosi hedge fund, ipotesi che si scontra però con gli interessi della piazza di Londra; si studiano norme che consentano di orientare il credito delle banche verso le imprese piuttosto che su transazioni finanziarie – le quali peraltro rendono di più grazie anche a un regime fiscale in genere più favorevole rispetto ai redditi da attività produttive – e così via. Il Presidente della Commissione europea Barroso si è impegnato a sollevare il problema della normativa sui mercati finanziari in occasione del prossimo G20, sede peraltro consultiva che non può certo emanare norme cogenti.

Non si pretende qui di formulare ricette miracolistiche o di valutare terapie elaborate in ben più autorevoli consessi. Si ritiene comunque di svolgere qualche riflessione di carattere generale per accennare poi ai fatti di casa nostra.

Emerge anzitutto che, una volta posto riparo alle occorrenze di natura finanziaria, le politiche economiche degli stati interessati paiono volte a perseguire l'obiettivo di aumentare il reddito prodotto, curando in minor misura sia gli aspetti relativi alla sua distribuzione fra le diverse categorie sociali sia le sinergie con gli altri partner della comunità. Emblematica è in proposito la polemica di questi giorni tra Francia e Germania (ii) circa la scelta operata da quest'ultima la quale, in virtù di una politica di moderazione salariale concordata con i sindacati e di crescita della produttività, grazie a significativi interventi dalle stesse industrie, ha ottenuto un ridimensionamento dei costi di produzione e della domanda interna e, di conseguenza, il contenimento delle importazioni e un robusto avanzo della bilancia commerciale. La Francia, come altri paesi dell'eurozona, ha difficoltà a collocare i propri prodotti sui mercati esteri ed auspica, per superare tali difficoltà, una ripresa della domanda interna degli altri paesi e, in particolare, della Germania; lamenta poi uno scarso coordinamento fra le politiche economiche dei paesi dell'euro. In effetti, nell'Unione, a una politica monetaria comune non fa riscontro un'analoga integrazione delle altre strategie. In tale prospettiva è stato assegnato all'Eurogruppo il compito di elaborare proposte volte a realizzare più efficaci forme di governance economica comune.

Gli effetti della crisi in Europa restano comunque assai pesanti: basti considerare che secondo i dati pubblicati da Eurostat nel 2009 nell'Unione si sono persi oltre quattro milioni di posti di lavoro di cui 2,7 milioni nell'area dell'euro. In questa situazione e considerando le difficoltà del più ampio contesto internazionale l'impulso alla ripresa dovrà trarre origine dalla dinamica dei consumi interni piuttosto che confidare nella domanda estera, il che presupporrebbe l'esistenza di mercati strutturalmente importatori; occorrerà, in sostanza, porre rimedio alla consistente perdita di potere d'acquisto delle famiglie, specie di quelle di coloro che sono stati espulsi da mondo del lavoro.

E l'Italia? Quale orientamento stanno seguendo i responsabili della politica economica del nostro paese? Stimolare la crescita del reddito o operare una redistribuzione a favore delle categorie più sfavorite? Mantenere sotto controllo il debito pubblico o sostenere la domanda interna con iniezioni di spesa pubblica?

Sul piano dei concreti provvedimenti, il bilancio appare piuttosto deludente. Anzitutto si è provveduto a dirottare i fondi europei destinati allo sviluppo delle regioni per la doverosa copertura delle esigenze finanziarie derivanti dal vertiginoso aumento dalla Cassa Integrazione Guadagni. Si può poi menzionare il famoso scudo fiscale (terzo della serie) che ha consentito a esportatori di capitali, evasori e riciclatori di ripulire per 95 miliardi di euro i loro averi, facendone però effettivamente rientrare nel paese soltanto 35 miliardi (fonte Banca d'Italia). Considerato poi che nell'ultimo anno i consumi per generi alimentari sono diminuiti del 3,3%, è stata varata di recente l'iniziativa di erogare incentivi per l'acquisto di motocicli, cucine, elettrodomestici e case eco-compatibili; tutti generi che costituiscono necessità primarie per disoccupati, cassintegrati e pensionati sociali? Il Ministro per il Turismo, inoltre, ha manifestato la ferma intenzione di presentare un disegno di legge volto a promuovere la realizzazione di nuovi campi da golf...

Infine, in una situazione in cui il tasso di disoccupazione è salito all'8,6% (26,8% per i giovani, 9,8% per le donne), in cui due milioni di persone sono in cerca di occupazione, non si è trovato di meglio che smantellare le garanzie previste dall'art. 18 dello statuto dei lavoratori contro i licenziamenti senza giusta causa dei lavoratori a tempo indeterminato (quelli a termine vengono estromessi alla scadenza del contratto): nei contratti collettivi o con decreto del Ministro del Welfare (si fa per dire) la decisione su controversie della specie sarà demandata a collegi arbitrali escludendo il ricorso alla magistratura del lavoro. Il tutto nell'assordante silenzio di due delle tre maggiori confederazioni sindacali.

Nel complesso, sembra quindi prevalere uno svagato atteggiamento attendista che non solo non risolve i problemi ma rischia di appesantire la situazione. Il settore produttivo italiano è stato colto dalla crisi in condizioni più fragili di quelle delle altre economie sviluppate, essenzialmente per carenze sotto il profilo della struttura industriale e della bassa produttività. Sono stati comparativamente minori gli effetti della crisi sul settore creditizio e finanziario, meno permeabile alle turbative di origine internazionale.

Occorrerebbero perciò interventi significativi sul fronte del sostegno alle imprese, dell'occupazione, dei consumi interni. Ma più in generale sarebbero necessarie quelle riforme strutturali, auspicate da più parti – Confindustria inclusa - in tema di infrastrutture, di disciplina e trasparenza dei mercati, di sicurezza sociale, di lotta alla criminalità e alla corruzione, di riequilibrio delle diverse realtà territoriali. Occorrerebbe una politica industriale coerente e condivisa. In mancanza di tutto ciò si rischia un lungo periodo di stagnazione quale quello sperimentato dal Giappone – economia ben più strutturata della nostra – nell'ultimo decennio del 1900.

Note:
(i) Intervista riportata da La Stampa del 5 febbraio 2010.
(ii) Si veda al riguardo l'intervista al Ministro francese delle finanze Christine Lagarde al Financial Times del 14 marzo 2010.

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