Henry Roth
di Ornella Milani

Scrittore ottuagenario, Henry Roth è uno dei casi più sconcertanti della letteratura mondiale contemporanea: ha scritto, infatti, nel corso della sua lunga vita, due soli romanzi, distanti uno dall'altro quasi cinquant'anni, anni nei quali si è chiuso nel silenzio più assoluto, rifiutandosi di scrivere per pubblicare.
Chiamalo sonno è il primo romanzo, del 1934, quando era «l'autodidatta arrogante, sicuro di sé, egoista, del suo primo romanzo», come scriverà tantissimi anni dopo, nell'altro romanzo Una stella sulla collina del Monte Morris, un'opera di Roth ottuagenario, che rivisita il passato, intenzionato a riprenderlo in un ciclo romanzesco: Alla mercé di una brutale corrente di cui Una stella... è la prima parte.

Chiamalo sonno Requim per Harlem Legami alla merce

Call it sleep o anche CIS, come ama chiamarlo l'autore, così come l'altro sarà MORS, è un romanzo autobiografico, che narra gli anni della sua infanzia a New York, dove con la madre era emigrato a soli otto mesi per raggiungere il padre.
Dalla Galizia all'America, da un villaggio dell'impero austro-ungarico, patria anche dell'altro grande J. Roth, a New York dove tanti ebrei dell'Europa orientale avevano sognato di far fortuna, spinti ad abbandonare la terra natia dalla miseria e dalla disperazione, con la speranza di una vita migliore. Purtroppo il povero, sprovveduto ebreo, quasi sempre si smarrisce e rischia di perdere la sua identità, irrimediabilmente solo, sradicato da una patria, che conserva nel cuore, in una società capitalistica, avida e disumana, che tende a fagocitarlo. In questa realtà, agli inizi del secolo, nei quartieri poveri, abitati dagli ebrei, si svolge lo struggente racconto di David, lo scrittore bambino, che guarda il mondo circostante con occhio acuto e critico e tutto registra, tutto filtra attraverso la sua esasperata sensibilità. Attraverso David, Henry Roth rimuove il passato, esorcizzando l'infanzia difficile, vissuta accanto ad una madre dolce e protettiva e ad un padre violento e irascibile, che lo ossessionava in un conflitto drammatico, termine continuo di confronto, nel quale si sente perdente. Questo padre odiato e amato, cui si ribella, non senza provare un tormentoso rimorso, è anche la causa del rifiuto dell'ebraismo, con tutti i suoi modi di essere, di pensare, le assurde tradizioni religiose. Nel rievocare i turbamenti, le ansie, l'incapacità di aprire gli occhi sulla vita, nel denunciare la sua inettitudine, nel momento in cui, alla fine del romanzo, si chiude nel sonno, sembra voler ripudiare definitivamente il passato ingombrante, cui si sente estraneo, per non dire ostile e prendere le distanze da quel «bravo ragazzo ebreo cocco di mamma»che era stato. Chiamalo sonno è un'opera piena di incanto, di poesia, di forte risonanza emotiva: un vero capolavoro, che ritrae splendidamente il disagio dell'io segreto, insospettato, di una coscienza infantile, i suoi trasalimenti e smarrimenti, »le maledette cose che accadono all'innocenza... nei quartieri poveri ed estranei, eterogenei, cose che devastano e gettano nel caos la personalità».
L'opera è senz'altro uno dei capisaldi della letteratura moderna, che può essere letta come «metafora di una condizione storica esistenziale che vede l'individuo «ebreo» esiliato dalla pienezza e dalla totalità della vita vera» (1), la sua trasformazione, una volta arrivato nel mondo occidentale americano, in un individuo» che deve acquistare l'arte di recitare e di sdoppiarsi...l'arte di essere ebreo, ma di non essere come un ebreo» (2), con tutte le lacerazioni interiori che questo comporta. Può anche essere letto CIS come romanzo dell'anima, che, con un linguaggio molto allusivo e simbolico, ci porta nel complesso mondo di un bambino, tormentato da una «sensibilità precoce». Il romanzo suscita subito un grande interesse, ma tante polemiche;il giovane Roth è pressoché uno sconosciuto, pur gravitando nel gruppo degli intellettuali ed artisti del Villane, dove lo aveva introdotto la scrittrice Eda Lou Walton, cui era sentimentalmente legato.
L'intellighenzia marxista, allora dominante, lo critica aspramente, per aver scritto un'opera di evasione, in cui manca una chiara presa di posizione politica, ideologica, una forte solidarietà con i problemi sociali. Roth accusa il colpo e, spinto da una sorta di rimorso, si accinge a scrivere un secondo romanzo, raccontando storie del proletariato, ma la prova è deludente e non c'è da meravigliarsene. Il problema, infatti, è di natura linguistico-espressiva, paradossalmente è il suo stile che non va bene, è quella particolare, sospesa atmosfera, che attraverso le parole si crea, che rende l'opera suggestiva, così ricca com'è e vibrante. Ogni parola possiede un alone semantico, un valore affettivo, vissuto totalmente dall'autore, che ad essa conferisce il suo accento personalissimo. Non era questo che l'autore voleva ottenere, bensì « prendere in considerazione, riconoscere, in qualche modo indicare implicitamente...i crudeli rapporti sociali sottostanti, crudeli rapporti di classe, la rovina inflitta dalla depravazione nascosta nel ridicolo. » Sotto l'influenza di Joyce « il suo letterario signore feudale di un tempo» si era perduto nel labirinto del suo io profondo e insondabile, alla ricerca di quello « scavezzacollo, egocentrico, viziato, sempre a disagio, solitario e petulante che era... »e deliberatamente aveva evitato di avere a che fare con l'ideologia « chiuso nelle sue manette forgiate dalla mente «. Avrebbe voluto lottare, cimentarsi, non restare « impassibile di fronte allo squallore di Harem, con la sua composizione e il suo contesto mutevole, il suo disegno, lasciartelo sfuggire di mano, una montagna di materiale, come direbbe un giornalista, di colore locale, di cose nuove fin dal momento in cui uscivi per strada, uscivi-o entravi-dalla porta. L'hai perso e te lo sei fottuto. Era per questo che «oggi si ribellava a Joyce con tanta animosità... con il suo sterile baloccarsi con il proprio mezzo di espressione» invece di « combattere per emanciparsi dal suo vasto ego», come ai confini della vita gli sarà concesso. Decide di non scrivere più, perché non può scrivere come vorrebbe, ma non può nemmeno scrivere come dovrebbe e l'abbandono della letteratura avviene senza spiegazioni e solleva una molteplicità di congetture nel mondo culturale del tempo. Sposa una musicista e va a vivere a Boston, poi nel Maine, dove lavora in un ospedale psichiatrico, infine si isola in una fattoria nei pressi di Augusta, ad allevare anatre. Qui rimarrà per più di vent'anni. Vent'anni sono un mucchio d'anni, eppure Henry Roth non ha più pubblicato davvero uno scritto qualunque;il blocco allo scrivere lo induce a vivere nell'oscurità e nel silenzio, provando in tutti quegli anni di dura disciplina a trovare il giusto registro, ma il «dy bbuk» lo paralizza, lo distrugge, gli impedisce di « tornare sui suoi passi nell'interesse dell'autenticità», perché, come sempre, «qualcosa aveva sbarrato la strada e quel qualcosa, oggi, lo avrebbe chiamato perdita di identità e senza identità o capacità di farsi valere il grande scenario di quei quattordici anni di vita intorno alla 119ma strada ad Harem gli fu negato, anzi persino la maturità, una maturità adeguata, gli fu interdetta».

Roccia per tuffarsi            Stella sul parco

Il rifiuto alla scrittura lo porta addirittura a bruciare il manoscritto del primo romanzo, tale è l'angoscia in cui si dibatte, in bilico sul vuoto di un'esistenza cui viene a mancare la sua ragione d'essere. Nel 1960, quando CIS viene riproposto da una piccola casa editrice, che lo ristampa, ne vengono vendute molte copie in tutto il mondo, Henry Roth è costretto ad uscire allo scoperto, viene intervistato, invitato a parlare, a spiegare. Allora la sua fuga ha termine e nel 1967 ricomincia a scrivere, utilizzando anche del materiale accumulato in anni e anni di applicazione alla scrivania, per trovare finalmente il modulo espressivo a lui più congeniale. Al lirismo, all'antica propensione all'introspezione e alla tessitura simbolica, si è sovrapposta la successiva scoperta dell'impossibilità di estraniarsi dal contesto sociale, di ignorare le sollecitazioni cui il mondo, la realtà quotidiana sottopongono l'uomo che scrive. E per lo stesso motivo riprende la sua identità ebraica e la solidarietà con il popolo di Israele, per essere forte abbastanza, ora così mutato, » invecchiato alla mercé di una brutale corrente» a ricollegare le immagini che gli si affollano «alla rinfusa nella mente», tornando a quel «disastro che tanto tempo prima aveva arrestato il suo normale sviluppo e che adesso, qui, allungava improvviso i suoi tentacoli dentro la sua psiche». Ridimensionare il trauma subito da Ira, doveva porsi dinanzi a se stesso, per capire come era diventato il presente, con la speranza di mettere insieme 2 i pezzi dispersi del suo mondo fortuito... «affinché ritrovassero l'unità», sapendo bene che «il solo ordine che avesse mai raggiunto riposava in un solo romanzo, e da allora in poi era stato perso.»
Lo scrittore ora rifiuta il monologo interiore, lo scavo delle pulsioni inconsce dell'essere, come un'esperienza storicamente conclusa. «Ciò che ho in mente - scrive - è ritrarre l'evoluzione di quel giovane letterato autodidatta, insopportabilmente egoista, immaturo, per molti aspetti parassitico e spregevole, fino ad una sorta di maturità, di rigenerazione, fino al suo conciliarsi con il proprio io» Lotta contro la dissoluzione, in un'ironica ricerca del tempo perduto, del suo io perduto, «la mia rinascita in qualcosa con cui possa avvicinarmi a vivere... se non ci fosse nessun sentimento di rigenerazione e fossi rimasto invece com'ero, quel che ero spregevole e disprezzabile ai miei stessi occhi... rileggere ciò che aveva prodotto quarantacinque anni prima lo svuotava di quel che era oggi... qualcosa di migliore, pensò, si augurò, rispetto a ciò che era una volta».
Perché una volta? Cos'era successo una volta? Qualcosa di così traumatizzante, da condizionare tutta una vita? Sì, c'era stato il suo rapporto innaturale con la sorella, allora, tanto tempo fa, quando i genitori non c'erano, perché erano usciti e loro due andavano a letto insieme. Ecco cos'era stato e solo da vecchio, davanti al suo Ecclesias riesce a confessarlo. Mors, dunque e' una trasgressione a CIS, è un'opera dove con disincanto l'autore procede ad una revisione critica dei fatti e dei personaggi dell'infanzia, proprio perché i ricordi devono essere scritti, prima che scompaiano e poi perché è impossibile essere vigliacchi con se stessi. È doloroso, ma sano tirare fuori la cruda verità, per troppo tempo rimossa.
L'ottuagenario, sopravvissuto Ira, in questo romanzo, che racconta il passato e il presente, senza infingimenti, ritrova la sua identità, si pacifica con se stesso, con lucidità riconosce nella sua inerzia la causa delle fallimentari prove giovanili, perché così le giudica, come lo furono «la mia passività e la mia personalità di gelatina».
Ora, non troppo tardi, recupera una dimensione obiettiva del passato, più distesa, con umiltà riesce a trovare l'anello mancante per ricongiungersi a se stesso e far pace con l'altro che «per quasi cinque decenni sei stato immobilizzato dalla tua incapacità di andare oltre la fanciullezza...»
«... rinascita allora, rinnovamento, riabilitazione... avrei potuto non averne bisogno».
La scrittura diventa terapia, per riguadagnare la vita attraverso il lavoro, diventare finalmente combattivo, tanto diverso dall'antico, che aveva optato per la fuga, inetto a tutto, incapace di dirsi la verità e risolvere il tragico conflitto con cui era stato incapace di fare i conti.
«Facesti un successo dell'evasione, un'apocalisse del rifiutare di continuare, al prezzo di rinunciare ad un futuro letterario...»
Davanti ad Ecclesias lo scrittore, solo con se stesso, «rovinato dall'artrite, ma determinato nel suo compito...» opera un'analisi spietata di se stesso, ma estremamente coraggiosa, con l'urgenza di ristabilire la verità. Lucido ed impietoso verso il giovane che è stato, lotta con tenacia e rigore moral «contro le ambiguità, le ambivalenze... per trovare una qualche sembianza di coerenza» e capire a fondo i motivi che lo hanno fatto deviare, trovare «il filo da sbrogliare che finalmente ci metta nel mezzo di una verità».
Per questo non si arrende al tormento delle omissioni. Linsonne lavoro di ricostruzione in tutti i suoi ultimi romanzi, attraverso tutti i dettagli che la memoria amica-nemica gli può fornire, diventa prezioso alimento. E tutto il tempo che gli è rimasto da vivere lo ha dedicato alla scrittura, compito arduo, a volte insostenibile, ma necessario.
Straordinario Henry Roth, addio! me un ebreo »(2)

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