Altri teatri
Artaud, Jodorowsky e Cyberpunk
di Emiliano VenturaTra i corridoi sempre più labirintici delle Università può capitare di imbattersi in uno studio con una targa che dice "Letteratura teatrale". Sicuramente una formula di comodo per differenziare e classificare le materie, ma avrei voglia di chiedere al titolare di cattedra il significato della definizione visto che la letteratura non è teatro e il teatro non è letteratura. Una possibile risposta potrebbe essere "Sia il teatro che la letteratura hanno come medium espressivo la parola". Questo è sicuramente vero per la letteratura ma è solo "parzialmente vero" per il teatro. Esiste infatti il "teatro di parola" che Pasolini e Moravia avevano paventato negli anni sessanta, ma se guardiamo agli innovatori più importanti e alle avanguardie più significative troviamo il tentativo costante di interrompere l'egemonia della parola e del testo scritto nel teatro novecentesco. Penso al "Living Theatre" di Beck e Malina o alle sperimentazioni di Peter Brook ma soprattuto al "teatro della crudeltà" di Antonin Artaud o al teatro panico di Jodoroswky. Oltre ad essere uno dei teorici più estremi, Artaud è stato anche un attore di teatro e cinema, memorabile l'interpretazione del monaco Massieu nel film di Dreyer sulla passione di Giovanna d'Arco nel 1928. Ma è il teatro l'arte su cui concentra e logora le sue energie fisiche e mentali, passerà oltre sei anni in manicomi e cliniche per la sua schizofrenia. La moglie di uno psichiatra che visitò Artaud in clinica riporta queste impressioni: "Mio marito ha subito capito di avere davanti a sé una persona eccezionale del valore di un Baudelaire, di un Nerval o di un Nietzsche". Ho sempre creduto che il teatro fosse un'arte del tempo che ha in sé il ritmo e la musica esattamente come la danza, la musica e il canto. Ho anche immaginato uno spettacolo ideale (se mai esiste) costruito sullo sfondo dipinto da Guttuso o Salvator Dalì dove Carmelo Bene recita Un Amleto di meno accompagnato dal violino di Uto Ughi , da una quinta entra Carla Fracci che dà forma geometrica alle parole e alle note dello spettacolo. Musica pittura danza recitazione e canto sono insite nelle potenzialità della scatola magica del teatro. Si domanda giustamente Artaud "Come è possibile che a teatro, almeno quale lo conosciamo in Europa, o meglio in occidente, tutto ciò che è specificamente teatrale,ossia tutto ciò che non è discorso o parola, o -se si preferisce- tutto ciò che non è contenuto nel dialogo debba rimanere in secondo piano". Artaud parla di teatro occidentale fossilizzato sulla parola e porta l'esempio del teatro orientale Balinese che usa il linguaggio del corpo unito alla musica e al gesto significante come negli ideogrammi, la capacità creativa di questo teatro elimina il predomino della parola. I temi sono vaghi, astratti estremamente generici, per questo le parole non sono necessarie. Gli attori con i loro abiti sembrano geroglifici viventi, si ha l'impressione di trovarsi davanti ad un linguaggio archetipo di cui abbiamo smarrito la chiave. Lo spettacolo stesso finisce per divenire un linguaggio puro, forse primitivo sicuramente rituale. "La novità del teatro Belinese è stata quella di rivelarci un'idea fisica e non verbale del teatro, secondo la quale il teatro sta entro i limiti di tutto ciò che può avvenire su un palcoscenico, indipendentemente dal testo scritto, mentre, come lo intendiamo noi occidentali, esso si confonde con il testo e finisce per esserne limitato. Per noi a teatro la Parola è tutto. Tutte le forze e le arti che potenzialmente agiscono sulla scena dovrebbero produrre uno spettacolo che abbia un suo linguaggio valido in quel momento unico e irripetibile, anche se sempre rinnovabile ogni sera. Così la parola sulla scena sarà una parola prima delle parole, esattamente come nei sogni quando abbiamo l'idea della parola ma non riusciamo a pronunciarla". La parola, come in poesia, diviene evocativa nel momento in cui lascia intuire quello che non ci dice, per come suona e per quello che ci fa perdere. Artaud non lo dice ma per arrivare a questa parola prima delle parole l'attore dovrebbe utilizzare tutto il suo corpo esattamente come se fosse uno strumento musicale e non solo la laringe. La parola dovrebbe vibrare dalle costole (lo strumento musicale di Orfeo ricorda il costato dello scheletro umano) così come dall'oboe allungato della colonna vertebrale; tutto il corpo partecipa allo spettacolo al suono e al gesto; ossa, tessuti, epidermide e i vari liquidi. In questo modo il linguaggio da intellettuale diviene fisico adatto a tutte le percezioni umane. "Questo linguaggio fatto per i sensi deve anzitutto soddisfare i sensi. Il che non gli impedisce di sviluppare poi tutte le sue conseguenze intellettuali su tutti i piani e in tutte le direzioni possibili. Si può così sostituire alla poesia del linguaggio una poesia dello spazio, che si svilupperà appunto nel campo che non appartiene rigorosamente alle parole".
Così se ogni suono equivale e si confonde con il gesto, la parola evolve e arricchisce il pensiero all'ennesima potenza. "Voglio osservare che se nel nostro teatro, che vive sotto la dittatura esclusiva della parola, questo linguaggio di segni e di mimica, questa mimica silenziosa, questi atteggiamenti, questi gesti, in una parola tutto ciò che io considero specificamente teatrale nel teatro, tutti questi elementi,quando esistono al di fuori del testo, sono generalmente considerati la parte caduca del teatro, vengono ascritti con disprezzo al mestiere". Artaud cerca un linguaggio che sia attivo, anarchico e poetico. La poesia è anarchica nel momento in cui rimette in discussione i rapporti tra oggetto e soggetto, tra forma e significato e nel momento in cui dall'ordine (linguaggio articolato) crea il disordine: "Questo modo poetico e attivo di considerare l'espressione sulla scena, ci porta sotto tutti i riguardi ad abbandonare l'eccezione umana, attuale e psicologica del teatro, per ritrovare l'eccezione religiosa e mistica di cui il teatro ha smarrito completamente il senso". Parole come religioso, magico e incantesimo ricorrono con frequenza negli scritti artaudiani prima e durante il suo periodo di internamento in manicomio dove sviluppa e intensifica l'uso della glossolalia alla continua ricerca di un linguaggio assoluto e universale, a suo modo poetico. La glossolalia rientra in un discorso di esperienza psicotica di scissione che Artaud ha vissuto in alcuni momenti in cui si perde nei suoi deliri, anche verbali come vedremo, dovuti a tremendi elettrochoc che subiva con regolarità. L'uso di queste acrobazie verbali testimonia il tentativo di trascendere la funzione rappresentativa del linguaggio alla ricerca di uno più libero e universale sempre nel tentativo di colpire non solo l'intelletto degli spettatori ma tutti i sensi contemporaneamente.
O vio profe
O vio proto
O vio loto
O thèthè
Secondo lo stesso Artaud il senso di questo linguaggio si può cogliere solo con un ritmo scaturito d'un tratto che il lettore dovrà trovare da sé, sillaba per sillaba non ha senso. Lui stesso rimanda alla lettura di un fantomatico libro su Van Gogh per cogliere l'ermeneutica segreta della sua sintassi alternativa. Il dato interessante è che le glossolalie corrispondono a due diverse sfere semantiche, al linguaggio schizofrenico e all'esperienza mistico-religiosa. Quando si vive un'esperienza estatica, o un'esperienza psicotica, il linguaggio della quotidianità non ha i mezzi per rendere tali esperienze (ricordo che la parola contro cui si scaglia Artaud è proprio la parola borghese e commerciale, una sorta di burocratese teatrale). Sia il sacro, o la sacralità dell'atto, sia il dolore sono continuamente evocati nel manifesto sul "teatro della crudeltà". La metafora utilizzata per introdurre la crudeltà è la peste. Una malattia che sconquassa il corpo e uccide rapidamente ma dopo la morte sul cadavere non c'è traccia della malattia, la vita e la malattia lasciano il corpo al suo riposo inerme: "La situazione dell'appestato che muore senza distruzione materiale, con tutte le stimmate di un male assoluto e quasi astratto, è identica a quella dell'attore, che dai propri sentimenti viene interamente penetrato e sconvolto senza alcun beneficio per la realtà". Il parallelo tra la peste e il teatro sta anche nel delirio che entrambi provocano, è un incantesimo dei sensi fino ad allora sopiti, quasi una magia con i suoi richiami di umori, esplosioni di immagini archetipe, tutti i nostri conflitti sopiti ritornano con energia dimenticata. Queste forze tenute sottochiave, inutilizzate nella vita quotidiana, esplodono nelle immagini, nei simboli, nei gesti che sono ostili nella società. Questo è il teatro della crudeltà che non ha niente a che fare con il sangue o la violenza ma che mira se mai ad un confronto immediato con sé stessi: "Al punto di logoramento cui è giunta la nostra sensibilità, è evidente che abbiamo soprattutto bisogno di un teatro che ci svegli". Questa continua ricerca di un linguaggio universale, sospeso tra gesto e pensiero, porta ad un coinvolgimento diverso e profondo dello spettatore che viene sfrattato dalla sicurezza della poltroncina di velluto. "Il pubblico pensa anzitutto con i sensi, è assurdo, come fa il consueto teatro psicologico, rivolgersi anzitutto al suo raziocinio, il teatro della crudeltà vuole ricorrere allo spettacolo di massa". Il rinnovamento a cui aspira questo teatro è nell'atto e nell'azione estrema che agisce sullo spettatore, e su tutti i suoi sensi, non più un semplice voyeur come lo vuole una stanca tradizione. Lo spettatore comunica continuamente con l'attore; applaude, tossisce, parlotta con il vicino, ride sorride si agita, cambia respiro, è indifferente o legge il pieghevole, scimmiotta le espressioni dell'attore. Lo spettatore di teatro, a differenza di quello cinematografico, è sempre stato una componente fondamentale nella riuscita di uno spettacolo (senza dimenticare che nelle arene romane lo spettatore aveva la possibilità di intervenire attivamente alla fine dei "giochi", chiedendo la vita o la morte "dell'attore-lottatore"). Artaud si spinge oltre nel coinvolgimento del pubblico: "Per raggiungere da ogni lato la sensibilità dello spettatore, preconizziamo uno spettacolo mobile il quale, anziché fare della scena e della sala due mondi chiusi, senza comunicazione possibile, diffonda i suoi bagliori visivi e sonori su tutta la massa del pubblico".. È in pratica la ricerca di uno spettacolo totale che riprenda il circo, la vita stessa o il concerto. È un tentativo di rappresentare a teatro non solo gli aspetti del mondo esterno, oggettivo e descrittivo, ma anche il mondo interiore, metafisico e inconsistente. La sala dovrà essere disadorna e il pubblico sarà seduto su poltrone girevoli per seguire lo spettacolo che si svolge intorno a lui in tutti i punti della sala. Grida, lamenti, sorprese e colpi di scena, bellezza dei costumi, enormi fantocci appesi ai fili; incanto della voce e armonia della musica, l'azione fisica della luce produce sensazioni di caldo e freddo. Il teatro psicologico volto ad imitare la realtà più superficiale non piace neanche ad Alejandro Jodorowsky, fondatore del "teatro panico". Anche questo teatro è rivolto al coinvolgimento dei sensi dove la crudeltà consiste nel ricordarci che la realtà è spesso solo un aspetto conciliante della vita: "Ciò che viene chiamato realtà non è che una parte, un aspetto di un sistema molto più ampio. Mi sembrava, e mi sembra ancora oggi che il teatro cosiddetto realista ignorasse la condizione inconscia, onirica e magica del reale". Per Jodo il mondo non è omogeneo ma è un amalgama di forze, spesso contrastanti, e il solo uso della parola non è sufficiente a rappresentare questa ricchezza: "Non volevo vedere comici che ripetevano un testo previamente scritto; preferivo assistere a un atto teatrale che non avesse nulla a che fare con la letteratura". Se Artaud aveva pensato alle poltrone girevoli per il pubblico, Jodo andò ancora oltre cercando di portare lo spettatore con sé magari in autobus: "Il pubblico aspettava alle fermate, saliva e attraversava la città". Dopo cominciò a portarli nelle cantine, nei bagni o nelle soffitte, sempre alla ricerca di un gesto nuovo, un atto che poteva sembrare poetico come i colori del Cile. Jodo è corroso da una fiamma interiore che trasforma continuamente ogni sua certezza. "Successivamente mi è venuta l'idea che forse il teatro poteva fare a meno degli spettatori e non doveva coinvolgere nessuno oltre gli attori. Allora ho organizzato delle grandi feste dove tutti potevano rappresentare qualcosa". Quello che è importante non è la rappresentazione come distrazione momentanea, ma come strumento di conoscenza di sè e di tutte le forze che in noi agiscono; per questo è stato chiamato teatro panico. Sia il teatro della crudeltà che quello panico hanno tentato, con modi ed esiti diversi, di interrompere la teocrazia della parola e del testo scritto a favore di un totale coinvolgimento dello spettatore; hanno cercato di cambiare il luogo fisico dello spettacolo, lo hanno modificato, decentrato, distrutto. È doveroso non rinchiudere il teatro della crudeltà e il teatro panico nel confine di una definizione, anche perchè oggi vengono continuamente confusi, contaminati e disarticolati tanto da non essere più definibili o riconoscibili. L'influenza di Artaud è stata, ed è ancora importantissima, sicuramente superiore a quella di Jodo. I due innovatori hanno usato più volentieri la parola rito al posto di spettacolo, il rito infatti coinvolge tutti coloro che sono presenti e non solo gli attanti. Queste caratteristiche si ritrovano anche nelle ultime provocazioni del "teatro Cyberpunk". Sul finire degli anni settanta alcune opere di artisti e di avanguardie popolari come Laurie Anderson o i Test Department sono riconducibili alle atmosfere cyber. Le caratteristiche di questo così detto teatro cyberpunk sono l'interazione con il pubblico, il gioco avanguardistico e provocatorio attraverso una molteplicità di codici e linguaggi. La narrazione scenica canonica si evolve direttamente nella rappresentazione d'impatto sensoriale, anche con l'uso di sostanze allucinogene o psichedeliche. Laurie fece scalpore suonando il violino su una lastra di ghiaccio in evaporazione, contemporaneamente giocava con le macchine, l'elettronica e le luci. Queste manifestazioni mirano ad una forte sollecitazione sensoriale e fisica, per cui lo spazio e l'ambiente che le accoglie sono importanti. Di solito è nei centri sociali che si trova l'interazione giusta tra l'elettronica e i corpi, ma anche nelle fabbriche abbandonate o addirittura in uno sfasciacarrozze.
A dispetto dei diversi spazi ciò che è fondamentale è stare nello spettacolo piuttosto che assistere, il coinvolgimento fisico e sensoriale rientra nell'idea del rito-spettacolo alla fine del quale ognuno uscirà con una nuova coscienza di sé. La macchina e l'elettronica esorcizzano il processo produttivo alienante delle città sempre più tentacolari ed anonime. Sirene impazzite, rumori assordanti, ingranaggi decadenti e luci claustrofobiche aggrediscono i nuovi tecnobarbari che partecipano all'evento che dura anche un giorno intero. Tutte queste atmosfere tornano nel teatro della catalana Fura dels Baus, le sue perfomance sottopongono il pubblico ad un vero e proprio assalto sensoriale e fisico con le provocazioni multimediali e di musica elettronica.. Il tutto è altamente spettacolarizzato dalla presenza di una tecnologia meccanico-cibernetica-mostruosa. Il famoso spettacolo Manes raccoglieva espedienti innocenti ed estremi come spruzzare acqua e agitare fiaccole vicino al pubblico; la scena privilegia il contatto dei corpi che si inseguono nel delirio di un'orgia dionisiaca dei sensi. Croci, uova, autodafè, bracieri, carrozzine, rottami vari lasciano correre la fantasia dietro un mondo in dissolvenza fatto ancora una volta da immagini archetipe. Un samba tecnologico e ludico che ha senso solo in quell'attimo unico e irripetibile dello spettacolo-rito. L'uso della tecnologia serve a stimolare lo spettatore in diversi modi e in diversi tempi, il materiale è riciclato dalle fabbriche e dalle centrali nucleari e dai cantieri navali; alcune macchine vengono programmate per reagire ai diversi comportamenti del pubblico. Anche l'attore comincia a confondersi con il cyborg o con l'androide (in fondo anche Carmelo Bene scherzava sui suoi pace-maker) modulatore di impulsi e scatole empatiche incluse, il teatro massimalizza la virtualità della sua quarta parete e si perde nel cyberspazio e forse un giorno confonderemo Amleto con Hal 9000. Provocazioni a parte mi domando quale sia il futuro del teatro e della drammaturgia sia nella forma che nel contenuto, sperando che non sia fatto di bit e pixel, che sia ancora crudele come il sangue e panico come la carne.