Vincent van Gogh
le lettere
di Ornella Milani

"nessuno potrebbe dire che cos'è esattamente un uomo: ci sono esseri umani schiacciati da uno spirito, che appare troppo grande per loro e ce ne sono un'infinità che neppure sanno di avere un'anima".

Arte e patologia Van Gogh Van Gogh Catalogo mostra

Conosciamo Vincent Van Gogh per la straordinarietà della sua pittura, che raffigura il suo universo interiore, così ricco di sentimenti e passioni: "una delle testimonianze più commoventi della nostra epoca, espressione di altissimo pensiero etico, di una fede infinita" (*),come ci documentano efficacemente le lettere, che scrisse nel corso della sua breve vita.
Esse assumono per noi una grandissima importanza, ci aiutano a comprendere il percorso umano e pittorico, le tensioni, i dubbi, gli sforzi di questo "personaggio emblematico,un martire,una figura etica", (*) per arrivare a quella"meta terribilmente difficile" cui aspirava.
L'epistolario comprende 821 lettere, 668 indirizzate al fratello Theo, al quale fu molto legato e che provvide fino alla fine al suo mantenimento.
Le lettere sono per noi un documento insostituibile ed assolutamente sincero, che ci fanno entrare nel tormento e nell'ansia esistenziale di un'anima ardente, assetata di Dio, come raramente ci è dato di incontrare.
"Dappertutto si avverte una ricerca appassionata" (*), che questo gran poeta dell'animo ci comunica e ci dipinge con parole semplici, ma molto simboliche e provocatorie, dicendo l'essenziale ci fa apparire in modo particolarmente suggestivo il suo modo d'essere e di realizzarsi.
Tutti i segni distintivi della sua creatività confluiscono qui, nelle lettere e, nell'urgenza di buttar fuori ciò che lo agita,manifesta un suo modo "di declinarsi nel mondo e prendere coscienza di sé e della sua condizione" (*), introducendoci alla presenza di qualcosa di assolutamente autentico ed originale.
È proprio vero, come diceva Littrè, che "l'espressione è l'azione di far comparire al di fuori, di rendere i propri sentimenti, essa ci presenta l'intera realtà psichica, profonda di ogni individuo", così è in Van Gogh, che ci cattura con il suo stile inconfondibile,interamente legato all'atmosfera emotiva, che lo genera, a quel substrato inconscio, che i segni evocano, nel colore, nel ritmo di un linguaggio molto vario, sorretto da una completa padronanza del mezzo espressivo, che acquisì con un duro lavoro, negli anni, a costo della sua stessa salute.
Non si possono leggere le sue lettere senza sentirci crollare chissà quante volte: in esse c'è una fede incrollabile nell'arte e nell'uomo,che provò con il proprio enorme travaglio, con le continue rinunce ed umiliazioni,contro l'irrisione e l'incredulità dei più, per culminare nell'atto supremo di rinunciare alla lotta, per abbandonarsi fra le braccia "di quel Dio dei silenzi, che rende possibile l'assurdo" (*). Individui come Van Gogh non sembrano essere nati su questa terra, egli è un puro, "con un gran bisogno di religione", che si sentì sempre una creatura "chiusa entro non so quali sbarre, che grate, certi muri", come quei miserabili della Ronda che dipinse nel 1890.

Nacque a Zundert nel 1853, un villaggio della provincia del Bramante, nel Sud dell'Olanda: figlio e nipote di pastori protestanti, da loro prese l'essenziale della sua attitudine morale, fatta insieme d'inquietudine e d'amore, che nasce dalla solitudine della coscienza di fronte a se stessa.
Ed è quell'inquietudine,che lo spinse sempre ad un andare disumano,di città in città,di villaggio in villaggio,alla ricerca di nuovi luoghi,con una necessità quasi fisica di dover cambiare, come se in realtà non fuggisse che se stesso,malato di "instabilità geografica" (*) un aspetto caratteristico della sua personalità fino alla fine.

Ancora ragazzo decise di andarsene da casa, probabilmente per reagire alla vischiosa ipocrisia di un ambiente chiuso e opprimente. Lavorò come impiegato docile e puntuale alla succursale della Galleria Goupil all'Aja, grazie all'aiuto di uno zio. Risale a quel periodo la sua prima delusione d'amore che segnò in lui un profondo mutamento: si rinchiuse in se stesso, divenne eccentrico, depresso, taciturno.
Si trasferì a Parigi, ma non risolse nulla: dimostrava un enorme disinteresse per il mestiere di mercante, si ribello', dette le dimissioni, all'improvviso.
Riprese la via di casa, ma non sapeva ancora quello che realmente voleva. Leggeva moltissimo, spesso disegnava,sovente lo prendevano delle crisi religiose.
Più cercava di penetrare il mistero "di quest'atomo opaco del male" (*) e più si chiudeva nella solitudine: "si vive in una certa malinconia poi si sentono dei vuoti, dove potrebbero esserci amicizie ed alti e seri affetti e si sente il terribile scoraggiamento corrodere persino l'energia morale e la fatalità sembra che possa sbarrare gli istinti di affetto e una nausea,un disgusto vi invade..."
Divenne "un vagabond errant", un randagio che porta in giro la sua angoscia,alla ricerca di pace e armonia,che è necessario conquistare "con la lotta interiore" per sfuggire "la prigione ... che talvolta si chiama pregiudizio,malinteso,ignoranza fatale di questa o quell'altra cosa,sfiducia,falsa vergogna..."
Rimase un inadattabile sino al traguardo della pazzia, "quello che va cercando il Paradiso" in una nostalgia per l'origine, quasi un ritorno al caldo seno materno, a quel"vago mondo di terra e di acqua" (*),che è il corpo di una madre,simbolo della sicurezza e del calore,che invano andò inseguendo .
Fu incapace di inserirsi in mezzo agli uomini, pur amandoli sino all'estrema rinuncia "con la convinzione di avere una missione salvifica" (*) nei loro confronti e di arrivare con i suoi disegni "al cuore della gente... dipingere uomini e donne con un non so che d'eterno".
Fu prima a Ramsgate, insegnante di lingue, poi impiegato di libreria a Dordrecht, studente di teologia ad Amsterdam. Tutte esperienze fallimentari. Andava proprio in cerca della strada più difficile "per colmare i il calice dell'amarezza fino a farlo traboccare", ma la verità è che aveva un disperato bisogno d'amare e di essere amato e per sedare questa sete sconvolse la norma, valicò a proprio rischio i limiti imposti dalla paura del perbenismo puritano.
Anche nell'amore fisico si vide rifiutati i privilegi dell'uomo comune: meno chiese alla vita e meno ricevette. Ma i suoi sogni, le sue stelle, la fragranza e lo splendore dei suoi bellissimi fiori a volte riempivano l'insopportabile vuoto.
Visse come può vivere un asceta, a suo agio solo con i disprezzati e gli oppressi. Accettò l'incarico di predicatore libero nel Borinage, un nero distretto minerario a sud del Belgio, portando ai minatori costretti a vivere nelle tenebre, piegati da una fatica disumana, la luce e il conforto della fede.
Tra di loro visse stenti e le loro stesse privazioni,dette via tutto ciò che gli apparteneva ed "essendo anch'io un lavoratore vivrò in questa classe,mi abbarbicherò con tutto me stesso ad essa..."
Questo primo atto sarà il simbolo di tutto il suo essere,non solo perché dimostrò coraggio,non solo per la carità che fu la sua forza,ma anche perché l'uomo,che più tardi sarà l'artista,il pittore dei fiori luminosi e dei fiammeggianti cipressi,deliberatamente scelse un distretto minerario come sua partenza "attraverso le tenebre verso la luce".
In quel paesaggio allucinante si trovò a casa sua, ma si distrusse fisicamente e psicologicamente: fu un tiro alla fune disperato tra le sue provate forze fisiche e l'energia morale e ne uscì con un esaurimento da cui non si riprese più.
Eppure fu proprio nel Borinage che scoprì finalmente nella pittura la sua vocazione e il suo destino.
Il disegno in quel momento rappresentò per lui un diverso modo di prolungare la sua missione,un modo di celebrare le fatiche e le miserie dei minatori,con un'azione compiuta su un foglio di carta, in solitudine,come una preghiera.
Ma,nonostante tutti i suoi studi teologici,le sue esperienze religiose,la sua passione per la letteratura lo elevassero al si sopra dei giovani pittori suoi contemporanei,i suoi primi disegni sono molto impacciati, "bisogna capire come considero l'arte,per arrivare alla verità bisogna faticare, eppure non credo di mirare troppo in alto".
L'arte diventò per lui dedizione "un modo di consolare, per riconciliare gli uomini con il loro destino terreno" (*) e per amore "di sincerità assoluta, di una carità infinita, di una generosa umanità"(idem)con slancio religioso si rivolse alle cose semplici, quotidiane:
"sia nella figura sia nel paesaggio vorrei esprimere non qualcosa di sentimentalmente malinconico, ma un dolore profondo".
Ma per quanto volesse evitare ogni sentimentalismo, i mezzi espressivi duramente precisati,gelano la passione e quasi si pensa a qualcosa di troppo lontano da quella
"musica calma e pura", che diceva di ascoltare, ma in una zona interna, molto lontana dal suo "occhio quasi crudele" e dalla sua "mano quasi brutale".
"Non so io stesso come dipingo: non si tratta di una maniera di fare... l'arte richiede un lavoro ostinato e osservazione acuta."
I "Mangiatori di patate" è il quadro conclusivo di quel periodo: un'opera di cui egli stesso scrisse:"ho voluto dare l'idea che questa gente,che sotto la lampada,mangia le sue patate,con le mani tuffate nel piatto,ha anche lavorato la terra e che il mio quadro esalta il lavoro manuale,un modo di vivere l'opposto del nostro."
Quelle mani deformate dal lavoro, quei volti scavati dalla fatica, rugosi, che le vibranti pennellate rivelano crudamente, esprimono la fede nella santità della natura, la contemplazione dei contadini come scuola di vita.
Si trasferì a Parigi e a 33 anni ripartì da zero,come un qualunque giovane alle soglie dell'arte: senza dubbio Parigi era la città ideale per il giovane che cercava,con tutta la passione della sua natura,di perfezionarsi per imparare lo stile che gli fosse più congeniale e atto a tradurre quel mondo interiore che così prepotentemente si agitava dentro di lui:quel mondo segreto e privato,che ognuno sente vivere nell'intimo,ma che è così difficile da comunicare in forma compiuta.
La permanenza a Parigi favorì decisamente il maturarsi di una tecnica che,comunque, fu originale,perché non aderì a nessuna scuola,veramente.
Solitario nella vita come nella pittura, si era buttato con tanto zelo e abnegazione nello studio, impiegando tutti i suoi soldi nell'acquisto di tele e colori, nutrendosi di solo pane e fumando moltissimo, per calmare la fame, che Parigi finì per esaurire i suoi nervi,già così fragili.
"Sento che mi vengono meno le forze. Ti dico chiaramente che in queste circostanze temo che non riuscirò a farcela; la mia costituzione fisica sarebbe abbastanza buona, se non avessi dovuto digiunare a lungo, ma si è trattato sempre o di digiunare o di lavorare meno e ho scelto, il più delle volte, la prima soluzione, finché ora sono diventato troppo debole... ciascuno deve decidere da solo... il dovere è una cosa assoluta... ti dico ho scelto con piena coscienza la vita del cane, resterò un cane, sarò povero, sarò pittore... le cose grandi non sono incidentali, devono essere opera della volontà".
Decise di abbandonare Parigi, per rifugiarsi in un ambiente tranquillo. Scelse la Provenza e il 21 febbraio del 1888 si stabilì ad Arles: "Non potevo continuare così... quando ti ho lasciato alla Gare du Midi ero molto afflitto e quasi ammalato,quasi alcolizzato,a forza di montarmi la testa... ero sulla buona strada per buscarmi una paralisi... c'ero dentro un bel po'... dopo che ho smesso di bere,dopo che ho smesso di fumare,ho incominciato a riflettere,invece di non pensare"...
Le opere dei primi mesi non si discostano molto dalle precedenti, ma l'estate accende di una luce accecante i suoi colori, dando inizio a quello straordinario periodo creativo, che raggiunge splendidamente il suo apice nel Cafè du nuit, massima prova dell'unità colore-forma ormai realizzata e che mai più riuscì a raggiungere nelle tele successive.
È lontano il tempo dei suoi "quadri in zoccoli", la tecnica ha raggiunto ora una perfetta sicurezza, il colore è l'equivalente espressivo della tensione spirituale ed emotiva, "il pittore del futuro deve essere un colorista,come non ce n'è ancora uno".
Da ora in avanti si accentua la tendenza a realizzare un'arbitrarietà cromatica e una deformazione delle apparenze che si risolve in una bruciante immediatezza espressiva e rappresentativa e la sua grandezza sta proprio nell'aver infranto, volutamente, le barriere mentali che lo separavano dalla realtà esterna, nell'aver incarnato nella realtà il suo mondo interiore, per cui la realtà da conoscere è l'immagine pittorica creata. Il colore, a solo, gia' esprime, ha un'esistenza per se stesso, e usato simbolicamente traduce "un dolore profondo".
La dominante gialla, suprema luce dell'amore è l'essenza stessa della luce, della vita, la ricerca del sole, di Dio, dell'amore.
I bellissimi Girasoli, il suo fiore preferito,che dipinse come solo lui poteva vedere,sono l'esaltazione più compiuta del colore che riesce,con forza,a rendere visibile l'emozione.
La sua è una tecnica semplicissima, raggiunta in anni ed anni di disciplina, ferrea "col cuore a pezzi", insofferente a qualsiasi imposizione o regola, che non provenisse sempre e soltanto dall'ispirazione.
Ciascun quadro è la storia di un'anima, con le sue cadute ed illuminazioni, che si legge nell'azione febbrile con cui le immagini spiegano una lotta vissuta con lucida determinazione.
"Nel mio quadro Cafè du nuit ho cercato di esprimere l'idea che il caffè è un posto dove ci si può rovinare, diventare pazzi, commettere dei crimini, inoltre ho cercato di esprimere la potenza tenebrosa quasi di un mattatoio con dei contrasti tra il rosa tenero e il rosso sangue e feccia di vino, tra il verdino Luigi XV e il Veronese, con dei gialli e i verdi blu intensi, tutto ciò in un'atmosfera di una fornace infernale di zolfo pallido".
Sembrava proprio che ad Arles avesse trovato l'equilibrio fra ispirazione ed espressione, oltre ad una certa serenità che le lettere ci raccontano con i suoi entusiasmi e la voglia inesauribile di lavoro nei campi, all'aperto, come non era accaduto mai prima.
"Ho avuto una settimana di lavoro intenso e senza fiato nei campi di grano in pieno sole, è l'emozione, la sincerità della natura che ci conducono e se queste emozioni sono talvolta così forti che si lavora senza accorgersi del lavoro e che talvolta le pennellate vengono giù una dopo l'altra e i rapporti di colore come le parole in un discorso o in una lettera... ho meno bisogno di compagnia di quella che mi potrebbe dare un lavoro senza respiro... solo così sento la vita... ho un sacco di idee per nuovi quadri... sono incantato, incantato di ciò che vedo e tutto ciò... mi entusiasma... al mattino, aprendo la finestra, si vede il verde del giardino, il sole che sorge e l'ingresso della città.
Ma poi vedrai quei grandi quadri con dei mazzi di dodici, di quattordici girasoli... e lo studio, i mattoni rossi del pavimento, i muri e il soffitto bianco, le sedie paesane, la tavola in legno bianco... se tutto ciò che facciamo si affaccia sull'infinito, se si vede il proprio lavoro trarre la sua ragion d'essere e proiettarsi al di là, si lavora più serenamente".
L'eccessiva esuberanza, purtroppo, prepara l'approssimarsi della crisi, che lo colpirà presto e intanto sempre più spesso si lamenta di dolori e disturbi fisici e nervosi. La malattia si manifesta sempre più chiaramente attraverso una serie di comportamenti bizzarri, ma soprattutto con degli sbalzi d'umore che spesso lo rendevano molto violento.
"Il sole era troppo cocente, le sue ali parvero sopraffatte, era troppo violento il soffio del temuto mistral, troppo assordante lo stridore delle cicale della Crau, che gli ronzavano nella mente..." (*), ma soprattutto il lavoro massacrante cui si era costretto, il suo sostentar per giorni e giorni con alcool e caffè, per raggiungere "l'alta nota gialla", conscio di forzare le sue possibilità fisiche, ma felice di essere, nonostante tutto, consapevole delle stelle lassù e dell'infinito, non fecero che aggravare il suo già precario stato di salute.
"Dio mio che abbattimento... ho lo stomaco terribilmente debole... certi giorni sono terribili, sono malato e non guarirò, non ci posso far nulla... per il mio lavoro rischio ogni giorno la vita e vi ho perduto metà della mia ragione... ma che cosa vuoi tu, infine?"
"In altalena tra depressione ed espansione, tra iperattività ed abulia, creatività e testa opaca..." (*) Vincent andò alternando a periodi di frustrazione, altri di apparente benessere, nei quali si rituffava nel lavoro " è il caldo che mi restituisce le forze... io lavoro forte... dopo i frutteti mi ocorre una notte stellata con dei cipressi... abbiamo delle notti molto belle qui e io ho una continua febbre di lavoro".
La crisi esplose, violentissima, in seguito ad un litigio con Gaugin, che era suo ospite, e per effetto probabilmente dell'assenzio, si manifestò in forma "agitato-furiosa" (*) e divenne "violento e autodistruttivo"(IDEM).
Si tagliò una parte dell'orecchio con il rasoio, l'episodio gli procurò l'internamento nell'ospedale di Arles, dove venne curato da un giovane medico, che lo dimise dopo pochi giorni, dandogli notizie rassicuranti.
Ma per Van Gogh fu un colpo durissimo, da allora perse la fiducia in se stesso e visse nell'ansia di una ricaduta, inoltre era molto inquieto per il futuro.
Il fratello Theo stava per sposarsi e Vincent si sentiva di peso, aveva la sensazione di costituire un problema per la futura famiglia e avvertiva un profondo senso di colpa. Pensava di sparire, di farla finita. Il dottor Rey lo assistette pazientemente, come meglio poteva, perché non era uno specialista. Cercava di convincerlo ad accettare volontariamente di essere internato nell'ospedale psichiatrico di Saint Remy.
Il 9 maggio abbandonò Arles: aveva piegato la testa al "mestiere di pazzo" e "poco per volta posso arrivare a considerare la follia una malattia come un'altra... per conto mio, sta certo, non avrei proprio scelto la follia se si fosse trattato di scegliere, ma quando si ha una faccenda del genere... è una malattia come un'altra... dentro di me ci deve essere stata qualche emozione troppo grande che mi ha giocato questo tiro... c'è effettivamente qualcosa di rotto nel mio cervello..."
La pittura continuò ad essere per lui la vita vera, quella dei sogni, che, come scrive Pessoa, è la più autentica. Continuò a dipingere con disperata passione, come testimoniano le moltissime tele, quasi duecento, che produsse nell'anno del suo ricovero.
Quando il male non lo aggrediva, confessava sulla tela l'inesausta vitalità del suo spirito, l'angoscia che gli procurava un così grande tormento, con una pennellata che è un segno furioso, che si avvolge e si contorce.
"La depressione comporta, infatti, un tipo di sofferenza che non ha uguali tra le esperienze penose cui l'uomo è sottoposto..." (*)
Così ai dipinti di grandissima suggestione, sebbene dai toni esasperati, in quanto la liricità allucinante non è mai stata così intensa come nel periodo di maggior frequenza delle "terribili crisi", la malattia aggiunge una nota nuova, fino al limite massimo delle sue possibilità.
Poi i momenti in cui la pittura incarna un mondo caotico ed incontrollabile, insostenibile "attualmente soffro molto in certi giorni... non avrei il coraggio di ricominciare fuori... mi sento tranquillo là dove sono obbligato a seguire una disciplina, come qui al ricovero... non ti nascondo che il soggiorno qui mi stanca molto... non bisogna dimenticare che un vaso rotto rimane un vaso rotto".
Dopo il trasferimento ad Auvers sembrò essergli tornato l'ottimismo "sono sempre più convinto che io abbia preso una malattia tipica del sud e che l'essere qui farà passare tutto", ma è ancora un'illusione, che si infrange presto per il ripetersi delle crisi, molto più lunghe e penose.
Il malessere spesso lo costringeva a smettere di dipingere. A giorni di lucidità, che impiegava comunque sempre per dipingere, si alternavano, repentini, momenti assai critici, in cui l'alone semantico si restringeva, il segno non più collegato al suo significato diveniva variabile, fluttuante, del tutto autonomo, fino all'incoerenza, a forme gravi di agrammatismo e povertà espressiva, incredibili.
Il linguaggio si fa più incomprensibile e veemente, ci troviamo di fronte ad una deformazione espressiva, non più voluta, ma casuale, che prelude al caos, alla devastazione "non faccio assegnamento di avere sempre la salute che mi occorre... se il mio male ritornasse, dovrai avere molta pazienza con me, amo ancora tanto l'arte e la vita... dichiaro in modo assoluto, ma assoluto, che non so assolutissimamente cosa potrà accadere. Io mi sento finito, questo per conto mio, sento che questa è la sorte che devo accettare e che non cambierà... le prospettive si oscurano, non vedo un avvenire felice".
Sono toccanti queste parole di un uomo che si sente impotente, solo e desolato, che assiste al suo sfacelo, senza che nessuno sia in grado di capire la gravità del suo male ed intervenire con competenza per salvarlo. Il dottor Gachet, cui era stato affidato, non era uno specialista e lo curava per epilessia.
"Durante la crisi è terribile e allora perdo la coscienza di tutto, ma questo fa sì che mi spinga al lavoro, alle cose serie, come un minatore di carbone, sempre in pericolo si affretta in ciò che sta facendo... non so se ti scriverò molto di frequente, perché non tutte le mie giornate sono abbastanza chiare per scrivere appena logicamente..."
Sulle tele il tormento si libera su ritmi ormai concitati: i gialli diventano stridenti, il linguaggio inquietante, il motivo grafico dell'orizzontale e della verticale si fa sempre più ossessivo, il sole rotea minaccioso, i paesaggi sono bassi e tempestosi, i cipressi, gli incantevoli cipressi di Van Gogh, hanno linee contorte e sembrano posseduti da una spirale maniacale, fiamme di disperazione e curve, curve, curve.
"Ho ancora in mente di laggiù un cipresso con una stella... un cipresso altissimo, scurissimo..." con sopra le stelle. che splendono come fiori notturni.
Ogni giorno teme di non saper più resistere "all'onda nera che si sta abbattendo sul mio spirito" (*) e "in quanto a me, capisci, da un momento all'altro una crisi più violenta può distruggere per sempre la mia capacità di dipingere, fino a quando mio Dio?"
Povero Vincent, è il maggio del 1890, il 29 luglio. "Con un atto improvviso di grande violenza, che esplode come un cortocircuito", (*) si tolse la vita.

NOTE

K. Jaspers:genio e follia
Ibidem
Ibidem
S. Piro: linguaggio schizofrenico
Il Verri: n. 15, cap. IV
S. Quasimodo: la vita non è sogno
G.B. Cassano: e liberaci dal male oscuro
G. Pascoli: Xagosto
Minkowska: Van Gogh
A. Miller: il tempo degli assassini
Secheheye: diario di una schizofrenica
G.B. Cassano: ibidem
Kk. Jaspers: ibidem
K. Jaspers: ibidem
A. Aurier: Van Gogh
Arcangeli: alfabeto di Van Gogh
G.B. Cassano: ibidem
G.B. Cassano: ibidem
F. Pessoa: lettere alla fidanzata
G.B. Cassano: ibidem
Tutte le altre citazioni provengono dall'epistolario di Van Gogh lettres a Theo, ed.

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