Recensioni e commenti di saggi

a cura di PierLuigi Albini

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Che cosa sappiamo della mente   

Vilayanur S. Ramachandran - Che cosa sappiamo della mente

Editore Mondadori
Collana Saggi
158 pagine
anno 2004

È straordinario quanto siano andate avanti le neuroscienze. Fino al punto che oggi sappiamo quasi del tutto che cosa non sappiamo in materia. Sembra un gioco di parole, invece è la rappresentazione di una scienza in rapida evoluzione, che è già in grado di disegnare le mappe dei problemi da risolvere e di indicare con una certa sicurezza le direzione in cui muoversi: fondandosi sull'osservazione diretta. Non è poco, considerando che nei precedenti duemila e cinquecento anni tutto quel che sapevamo del cervello derivava da speculazioni filosofiche e da osservazioni indirette.
Certo, su queste ultime basi sono stati fondati interi sistemi filosofici nel senso più ampio del termine, mentre le neuroscienze non promettono altro che di sfrondare antiche convinzioni, ma non di costruire sistemi di credenze. Potrebbe sembrare un modo un po' dimesso di presentare la scienza che si ripromette di svelare i misteri della mente, per usare un linguaggio da format televisivo. In effetti le neuroscienze ci hanno ormai portato sulla soglia di una riposta alla domanda: che cos'è la coscienza? Ma lo stile dimesso fa bene alla scienza e alla sua comprensione. Aiuta molto a non sollevare attese fuori luogo e a non generare delusioni cocenti.
Molti neuroscienziati, per la verità, una risposta alla domanda cruciale l'hanno già data e non è per niente lusinghiera nei confronti dell'antica tradizione occidentale di distinguere la mente dal cervello o di sganciare la consapevolezza di sé dai meccanismi neuronali o dall'ambiente. Ramachandran, per esempio, dubita persino che una coscienza esista realmente e, in ogni caso, sembrerebbe più interessato a capire come si sia evoluta.
L'autore esplora, in particolare, la questione dell'arte, chiedendosi "se esistano gli universali artistici". Superate le obiezioni ovvie alla domanda e utilizzando la sua condizione interculturale, arriva a formulare quelle che chiama le dieci leggi universali dell'arte. Si tratta di ipotesi, è ovvio, ma non per questo meno interessanti, anche se l'autore non le sviluppa tutte per problemi di spazio.
La cosa che lo interessa di più, infatti, è di fissare alcune coordinate per continuare ad indagare sul sé, ossia sulla nostra capacità di essere consapevoli di noi stessi. Ramachandran adotta i principi della genetica evolutiva, concludendo che "l'interdipendenza tra genetica e civiltà fa pensare che, nell'ambito delle funzioni mentali umane, l'eterno dibattito su natura e cultura perda di significato: è come chiedere se l'umidità dell'acqua derivi principalmente dai due atomi di idrogeno o dall'atomo di ossigeno della molecola di H2O". Aria nuova, come si legge.

Scienza della cultura   

Renato Barilli - Scienza della cultura e fenomenologia degli stili

Editore Il Mulino
Collana La nuova scienza
203 pagine
anno 1997

Il titolo del testo non deve spaventare. Ancorché derivato dalle lezioni universitarie dell'autore, illustre e acuto critico letterario e dell'arte, si tratta di un libro certo non facile ma, tutto sommato, abbordabile da persone che vogliano misurarsi con la domanda di cosa è l'arte oggi e di qual è il suo rapporto con la cultura. E, ancora, cosa si deve intendere per cultura e quali sono le sue relazioni con la storia e con il mondo circostante.
È un'opera critica e didattica che è all'incrocio tra discipline diverse. Si inserisce in quel filone di studi culturali di origine anglosassone (Cultural Studies) che ha permesso di affrontare l'interpretazione del mondo contemporaneo da nuove prospettive. Proprio per questo si tratta di un testo illuminante. Permette di guardare ai fenomeni artistici e ai mutamenti di quello che una volta si chiamava il gusto (che l'autore, però, giustamente rifiuta come concetto-guida) dalla doppia intersezione dei rapporti tra arte e scienza-tecnologia e tra antropologia e assetti sociali.
A differenza degli studi culturali anglosassoni, l'autore risente però di una tradizione diversa, più attenta ai fenomeni strutturali e al rapporto esistente tra ciò che accade nel mondo e la sua interpretazione. Continua così la scuola che fu di Luciano Anceschi a Bologna e si inserisce a pieno diritto in una cultura europea a noi più familiare.
La tradizione è quella della scuola critica viennese dei primi del Novecento che, per prima, tentò di abbattere i diaframmi esistenti a quel tempo tra discipline diverse e periodizzazioni della storia dell'arte ormai ossificate e del tutto irreali. Una scuola che fa sentire gli effetti delle sue innovazioni ancora oggi, per quanto ciò non è noto al largo pubblico.
La novità consiste nel tentativo di fondare alcune categorie interpretative dell'estetica sulle più solide basi delle relazioni con lo sviluppo della mentalità moderna, fortemente influenzata dalla scienza e dalle tecnologie. Non è un gran novità si dirà. Ma, a livello di cultura diffusa e anche in quella cosiddetta alta, persiste tenacemente un discorso genericamente vetero-umanistico, chiuso alla comprensione dei meccanismi del mondo moderno e che insiste nel pensare la tecnica come qualcosa di aggiunto alla natura umana, e non come sua parte fondativa, originaria. Senza la quale, cioè, noi non saremmo ciò che siamo. Non solo oggi, ma anche ai nostri inizi.
In un tale contesto, l'operazione che compie Barilli (assieme ai suoi altri numerosi interventi critici), rappresenta un flusso di aria fresca, di svecchiamento mentale e di reinterpretazione su solide basi delle generiche lamentele sulla incomprensibilità dell'arte contemporanea.

Catalogo Burri   

Maurizio Calvesi, Italo Tomassoni - Alberto Burri, gli artisti e la materia 1945-2004

Silvana Editoriale
Catalogo della Mostra alle Scuderie del Quirinale, Roma 17 novembre 2005 - 16 febbraio 2006
Anno 2005
176 pagine

Più che la recensione di un catalogo questo è un sollecito, per chi può, a visitare la mostra alle Scuderie del Quirinale. E, per chi si trovasse a passare per Città di Castello o ad organizzarvi un'apposita gita, è un invito a visitare alla Fondazione di palazzo Albizzini la grande raccolta di opere di questo straordinario artista, uno dei rarissimi capiscuola internazionalmente riconosciuti del secondo Novecento. Nella mostra di Roma la centralità di Burri nell'ambito del movimento dell'Informale risulta evidente, così come la sua vasta influenza sugli artisti esposti, anche se taluni di loro risultano un po' eccentrici rispetto alla tematica centrale del Maestro. Ma se si visiterà la Fondazione Burri a Città di Castello il vasto affresco dell'intero arco della sua produzione artistica, con i suoi periodi, con le sue continue sperimentazioni e con la sua grandiosa fase finale, ci restituirà il senso profondo di un rigore di ricerca e di una sensibilità artistica inimitabili nel dialogare con la materia.
I precedenti di Burri, se vogliamo chiamarli così, sono in alcune sperimentazioni delle avanguardie del primo Novecento, ma con Burri si compie un radicale cambio di prospettiva. La materia diviene il soggetto diretto della rappresentazione. Non è più un inserto nel quadro, un elemento decorativo, il simbolo di qualcosa d'altro. Essa diviene la grandiosa e tragica rappresentazione di se stessa, nei suoi scarti, nelle sue rotture, nelle sue fessurazioni, nei suoi accostamenti coloristici e di materiali diversi. Le sensazioni, le emozioni, il senso inconoscibile del mondo, la vertigine che ci può cogliere davanti ai due Rosso Plastica del 1962 o ai neri di cellophane o ad uno straordinario bianco di cretto, ci dicono che la materia, giocando attraverso l'artista con la luce e con il mosso della sua struttura superficiale, ci può parlare direttamente dei suoi drammi, della sua insondabilità, del suo sforzo di nascere e di morire, continuamente. In un certo senso, avevano ragione alcuni futuristi, quando parlavano di stati d'animo della materia. Peccato che è assai scarsa la presenza dei suoi grandi quadri degli ultimi anni, che segnano contemporaneamente una continuità e una svolta nella produzione dell'artista. Ma, forse, sottratti all'ampiezza della ex Manifattura Tabacchi di Città di Castello, perderebbero qualcosa della loro polifonia.
Se Burri rappresenta il cuore della mostra, sarebbe sbagliato tacere degli altri artisti che gli fanno da corolla, tutti molto conosciuti e, naturalmente, capaci di uno sviluppo autonomo della loro arte. Però sarebbe inutile fare qui una insignificante e troppo rapida elencazione dei loro trentasei nomi. E del resto sono esposte solo alcune delle opere che hanno una maggiore connessione con il tema centrale della mostra. Voglio solo ricordare gli splendidi grafismi di Franz Kline. Il suo Untitled del 1963 è fatto soltanto di nero e di tonalità grigie, ma sembra un'intera sinfonia di tutto lo spettro luminoso. E, ancora, i décollages di Mimmo Rotella, certamente già visti altre volte; oppure un sorprendente Mario Schifano e il piombo e la grafite di un Anselm Kiefer in cui i materiali naturali inseriti all'interno sembrano davvero l'alba del giorno dopo. Di Damien Hirst ne riparleremo. Infine, un consiglio: è meglio fermarsi a vedere il video nella saletta delle proiezioni all'ingresso. Aiuta molto a capire meglio il senso della ricerca e la moralità del lavoro di Alberto Burri.

pressapoco   

Raffaele Simone - Il paese del pressappoco. Illazioni sull'Italia che non va

Editore Garzanti Libri
Collana Saggi
Anno 2005
236 pagine

Il cuore di questo libro godibile e anche soffribile, per la restituzione pressoché puntuale che ci dà della nostra vita quotidiana nel Belpaese, è costituito dalla classificazione dei diritti che ognuno dovrebbe vedere rispettati e rispettare in quello che andrebbe ormai sotto il nome di "paese normale". Non per sognare chissà quale scenario sociale e politico, ma semplicemente per poter sopravvivere non dovendosi sobbarcare fatiche aggiuntive rispetto a quelle di un sistema economico e sociale che già di per sé comporta non pochi problemi. Si tratta, in sostanza, di tre livelli di diritti, il primo dei quali riguarda i diritti ovvi legati alla sopravvivenza di una specie. Il secondo livello riguarda i diritti che permettono la vita associativa organizzata. Del terzo livello di diritti, come la possibilità di entrare in borsa o in politica o di associarsi liberamente o di vedere tutelata la privacy, dice l'autore, ci si preoccupa di più, pur essendo quelli più astratti ed elevati. Mentre la pratica dei due primi livelli, persino del primo, in Italia rasenta, nella vita quotidiana, la disattenzione generalizzata se non addirittura l'irrisione. Insomma, i due primi livelli dovrebbero considerarsi di base, patrimonio comune, né di destra né di sinistra, ma di tutti, come l'aria che si respira. Invece diventano anch'essi materia di contesa politica: il che non significa affatto dare addosso alla politica, ma accusare il costume nazionale che obbliga a dover affrontare politicamente qualcosa che dovrebbe invece appartenere naturalmente alla nostra quotidiana convivenza.
La conclusione è nota. È difficile vivere in Italia, meno che per i furbastri di ogni risma - compresi gli opportunisti - per gli individualisti sfrenati e, aggiungo, per i raccomandati di ferro. Gli altri, ovviamente, sono gli stupidi o, come si diceva con una punta di commiserazione una volta, gli idealisti, quelli - in buona sostanza - che reggono in piedi il Paese. Non sono la maggioranza, però sono ancora abbastanza numerosi da impedire il naufragio definitivo.
Il libro di Ferrone è ricco di esempi. Non è possibile ripercorrerli qui perché sono troppi e, del resto, ognuno potrà riconoscervi la propria esperienza. L'indignazione e il sarcasmo dell'autore appaiono fondati, così come sono apprezzabili gli accenni, necessariamente poco sviluppati, alle radici storiche dei comportamenti nazionali. Anche la denuncia di una prevalenza attuale del pensiero plebeo è condivisibile, laddove non ci sia in questa nozione nessun disprezzo classista e nessuna spocchia aristocratica, ma solo la denuncia del prevalere, a tutti i livelli, di ciò che è sgangherato, approssimativo, volgare e solamente preoccupato di diventare un prepotente di successo, nuotando allegramente nello storico cinismo anarchico degli italiani. Però il dubbio che la critica dell'autore sia nutrita di un certo elitismo culturale rimane. Sarebbe un peccato, perché ne soffrirebbe l'efficacia delle sue critiche.

totalitarismo   

Enzo Traverso - Il totalitarismo
Storia di un dibattito

Editore Mondadori Bruno
Collana Testi e pretesti
Anno 2002
192 pagine

Tra gli storici contemporaneisti questo libro agile e chiaro è ormai diventato un punto di riferimento, una mappa affidabile della storia di un concetto, il totalitarismo, che "è stato usato come una specie di scatola, via via riempita di contenuti diversi". Il termine, che oggi sembra avere una nuova vitalità dopo un periodo di eclisse, è stato spesso usato come arma di analisi e lotta politica, piuttosto che come criterio di interpretazione della realtà. Anzi, scrive l'autore, il suo uso da parte degli storici è piuttosto problematico, perché tende a restituire un'immagine statica dei regimi che prende in esame e a isolarne, per compararli, aspetti e vicende che si riferiscono a strutture politico-sociali diverse, indipendentemente dalle loro dinamiche e dalle finalità che si propongono. Insomma, è un termine troppo grezzo per essere affidabile: tra l'altro, oscura differenze fondamentali e gradi di responsabilità, esaltando affinità spesso solo superficialmente simili. Intanto, va registrato che un totalitarismo assoluto non è mai esistito e forse non può proprio esistere.
Il termine fu coniato nel 1923 dal liberale Giovanni Amendola a proposito del fascismo, il quale ultimo lo assunse esplicitamente come indicatore della propria qualità politica. Dall'emigrazione antifascista, il concetto passò poi nel più largo circuito della letteratura politica anglosassone, per indicare dapprima soprattutto il nazismo e, durante il periodo della guerra fredda, il regime comunista dell'Unione Sovietica. Nell'intermezzo, le definizioni di totalitarismo da parte degli studiosi furono diverse e molto articolate. L'autore le passa efficacemente in rassegna. In Germania servì, ad esempio nel secondo dopoguerra, ad oscurare in parte le responsabilità della popolazione e di altri soggetti politici nel favorire l'ascesa al potere di Hitler (in un regime totalitario l'opposizione è impossibile e dunque...). Quando ormai il termine stava entrando in disuso nella letteratura politica anglosassone, incontrò nuova fortuna in Francia con i nouveaux philosophes, a partire dalla ri-scoperta dell'universo dei gulag sovietici.
Più di recente, il termine è stato utilizzato dal revisionismo storico (Furet, Nolte), con il risultato di oscurare le responsabilità dei regimi liberali antecedenti la prima guerra mondiale nell'avvento del nazifascismo e nello scoppio della rivoluzione russa, mettendo "tranquillamente tra parentesi l'imperialismo e il colonialismo", che Hanna Arendt indicava come una delle cause fondamentali della nascita dei totalitarismi. Come se i totalitarismi fossero semplicemente un incidente della storia e non un portato della modernità, sui quali occorre invece continuare a riflettere per non abbassare la guardia.
Quest'ultimo invito è proprio quello che conclude la rassegna critica di Enzo Traverso, perché "l'idea di totalitarismo è stata troppo spesso strumentalizzata, ma rimane indispensabile per mantenere aperto, nel secolo che nasce, un orizzonte di libertà".

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