Recensioni e commenti di saggi

a cura di PierLuigi Albini

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Grütter   

Ghisi Grütter - Disegno e immagine, tra comunicazione e rappresentazione

Edizioni Kappa
pagine 191
anno 2006

Un bel libro, frutto di attente ricerche e dell'attività didattica dell'autrice, docente universitaria, ma perfettamente godibile anche dal lettore interessato alle espressioni artistiche del nostro tempo. Oltre tutto, il testo è ricchissimo di illustrazioni, anche inedite, che riescono a catturare il legame forte che esiste tra la scrittura e ciò di cui si parla.
L'opera si divide in due parti, apparentemente separate da diversi ambiti disciplinari e da una diversa destinazione finale dei prodotti di cui si parla. La prima riguarda il disegno di architettura e la sua autonomia artistica. Partendo da un'analisi dell'International style e del modernismo, l'autrice ripercorre l'evoluzione o, se vogliamo, la vera e propria rivoluzione compiuta da alcuni architetti. Come Louis I. Khan, che ha reintrodotto i contenuti visuali all'interno degli ormai stilizzati disegni del modernismo; o James Stirling e la sua architettura astratta, che sembra prescindere dalla presenza umana; o l'ormai popolare Frank O. Gehry, che esprime un neo figurativismo in cui l'attenzione viene spostata dalla struttura al piano della visione. Questa prima parte si conclude con la presentazione di tre architetti romani contemporanei – Franco Purini, Alessandro Anselmi e Francesco Cellini – che, confermando una discontinuità con il modernismo, in qualche modo si riallacciano alla tradizione italiana del disegno di architettura. Ma nel corso della rassegna vengono esaminati anche altri autori, tra i quali colpisce Massimo Scolari, che riecheggia nel suo disegno architettonico surrealista le tavole trasognate di Moebius (Jean Giraud).
La seconda parte tratta della Grafica nei suoi principali indirizzi storici e attuali: dall'apparizione del manifesto moderno e del graphic design, alla nascita e all'evoluzione del marchio (dove un posto importante è assegnato all'esperienza della Bauhaus), fino alla definizione della cosiddetta immagine coordinata (confluente nel visual design), che non "progetta mediante rappresentazioni visive ma, al contrario, progetta rappresentazioni visive". Un'osservazione che sarebbe interessante approfondire, perché accosta in qualche modo il visual design più al senso della pittura che ad un'arte applicata, in quanto priva di strumentalità, cioè che si giustifica di per se stessa e che crea essa stessa un mondo. Come, del resto, quella parte del disegno di architettura che è fruibile di per sé, senza un necessario rinvio alla costruibilità del manufatto immaginato.
Infine, l'autrice prende in esame gli spazi commerciali, come confluenza di una totalità progettuale e artistica in cui, secondo le tendenze più recenti, l'aspetto commerciale e pubblicitario si occulta a favore della qualità architettonica e della promozione di uno stile di vita. Va detto che, almeno per questa via, l'aspirazione delle avanguardie del Novecento a unificare il binomio arte-vita si è realizzata.
Ma i due saggi contenuti nel libro sono importanti anche per un altro aspetto. Perché suggeriscono efficacemente che le nuove tecniche di disegno informatico, promosse da programmi sempre più sofisticati, non possono sostituire l'addestramento primario della mano. Non si pensa, infatti, solo con il cervello, ma anche con il resto del corpo; ed è l'esercizio per una perfetta corrispondenza tra mano e cervello che permette alla creatività di farsi chiarezza analitica e di esprimere la propria identità espressiva.
Una consistente bibliografia accompagna l'opera di Ghisi Grütter.

Liang Shiqiu   

Liang Shiqiu (a cura di Gianluca Magi) - La nobile arte dell'insulto

Editore Einaudi
Collana Einaudi tascabili
pagine XX-46
anno 2006

Questo è quel che si suole chiamare un aureo libretto. Anzi, per dirla con il curatore, si tratta "di un libro verace, di comprensione penetrante del cuore umano, che affonda le radici nella conoscenza disingannata della vita e nell'arte di stare al mondo di chi ne ha viste di tutti i colori." Fu scritto nel 1926 con arguzia e ironia tipicamente cinesi. Concordo con il curatore che quest'operetta dovrebbe essere generosamente distribuita in alcuni ambienti politici, ma anche nel più vasto consesso sociale (e videotelevisivo), affinché lo sbracamento intellettuale e le volgarità che ci vengono giornalmente propinati siano un poco temperati della loro arroganza e rozzezza, riconquistando la capacità di cimentarsi con il sarcasmo e l'ironia intelligenti. Se non altro per ragioni di ecologia mentale.
Certo, avverte l'autore, il raggiungimento della saggezza permetterebbe di non sentire la necessità di insultare alcuno. Ma poiché il mondo è quello che è, il principio generale dovrebbe essere intanto quello "di riflettere un istante prima di insultare qualcuno". Dopo di che, in dieci brevi regole e una conclusione, possiamo imparare non un surrogato del pensiero, come spesso accade, ma come rendere in modo caustico ciò che vogliamo dire, mettendo così l'avversario alle corde. L'attacco indiretto o trasversale è il sentiero principale che bisogna seguire, come è nella tradizione cinese, si tratti di strategie belliche o di scacchi. Si tratta, insomma di creare attorno all'avversario una specie di vuoto pneumatico nel quale egli possa essere risucchiato e messo a tacere, disarticolato nella sua capacità di reazione verbale.
Il primo precetto, ahimè, presenta subito uno scoglio, perché prima di procedere ad insultare l'altro, bisogna conoscere se stessi. Temo che qui si areni, e non nel senso filosofico che ci è noto ma come capacità autocritica, la pratica del nobile insulto. Comunque, le difficoltà crescono via via, ma il punto di svolta del discorso avviene quando Liang Shiqiu consiglia di far precedere l'affondo insultante (Lei è un ladro! ad esempio) da apprezzamenti e da espressioni rispettose (senza esagerare) nei confronti dell'avversario, fino al punto che l'uditorio si faccia un'idea di noi come persona magnanima e indulgente. È solo a quel punto che deve scattare l'insulto: preciso, compatto e definitivo.
Va da sé che il nostro contegno deve essere pacato e che dobbiamo utilizzare espressioni eleganti e modi disinvolti. Stando bene attenti a celare, sotto un'apparente giovialità, l'attenzione necessaria per far scattare l'agguato, specialmente nel caso che i punti deboli dell'avversario siano pochi oppure non noti, riuscendo così a metterlo sotto torchio. Naturalmente, l'insulto può essere anche usato come provocazione, come scandaglio preliminare della contesa, in modo da saggiare le capacità reattive dell'avversario. Soprattutto perché "l'arte dell'insulto richiede un alto livello di risolutezza e di profonda abilità mentale". Cioè, "non significa che ognuno possa fare tutto ciò che gli pare e persino parlare in modo sventato". Di nuovo, ahimè.

Jacob Baal-Teshuva   

Jacob Baal - Teshuva - Rothko

Editore Taschen
pagine 96
anno 2003

Nonostante Rothko sia anche apprezzato per i suoi scritti sull'arte la raccolta dei dipinti qui presentati è l'ennesima dimostrazione di quanto in pittura sia più importante il fare rispetto allo spiegare ciò che si fa. E, del resto, come si sa, lo stesso Rothko era feroce nei confronti dei critici d'arte accusandoli, in buona sostanza, di essere dei parassiti degli artisti. Tuttavia, questa collana edita dalla casa editrice tedesca è davvero ottima per qualità (anche delle riproduzioni) e per i prezzi accessibili che favoriscono la diffusione della cultura artistica.
Il testo di Baal-Teshuva è una infatti carrellata assai asciutta ed efficace sulla sua opera, nonostante lo stesso Rothko sostenesse che l'arte non potesse essere interpretata.
Ci sono stati pochi pittori capaci di consegnare all'astante un'emozione così intensa attraverso l'uso puro del colore. Una tavolozza semplificata ma intensa che si combina in serie di variazioni capaci di associare colori freddi e caldi, chiari e scuri, puri e impastati in modo da restituire il suono di una sinfonia o il senso del mistero che proviene dalle profondità del tempo. E, in effetti, tutta una precedente fase della pittura di Rothko si è misurata a lungo con i temi della mitologia e con le visione archetipiche proprie del surrealismo (che frequentò a lungo). Rothko ha in seguito cercato di ridurre ciò che è complesso a ciò che è semplice. Un'operazione che hanno tentato in molti nel corso del Novecento ma che è riuscita solo a pochi grandissimi maestri come lui. Addirittura – scriveva in un manifesto firmato insieme a Gottlieb – "non c'è nulla di meglio di un buon quadro sul nulla. Noi crediamo che la materia sia essenziale, come lo è il ciclo tematico, tragico e senza tempo. Sotto questo aspetto ci sentiamo molto legati all'arte primitiva, arcaica". I dipinti di Rothko, definibili come appartenenti al periodo classico, quelli delle tessere e della ripetizione infinita di combinazioni inattese di colori, in effetti, attingono a sensazioni primarie, a ciò che era prima del tempo storico e persino preistorico, quando la psiche umana si stava organizzando per cogliere nel mondo le più diverse sfumature di colore.
Ma l'inquietudine, il fascino che ci restituisce la pittura di Rothko deriva anche da un altro fattore. Se sappiamo che la visione umana associa comunque, per principio biologico ed evolutivo, il colore alla forma, tanto che anche nel primo impatto con un quadro astratto ricerchiamo quest'ultima anche senza rendercene conto, nel caso di Rothko siamo quanto di più vicino alla possibilità di scinderla completamentedal colore percepito. Nessuno nel Novecento, a mia memoria, è mai riuscito a tanto. Di fronte ad un suo quadro siamo sollecitati a perderci nella combinazione dei colori e se riusciamo ad osservare le nostre sensazioni, ci rendiamo conto che non stiamo cercando di associarle ad una forma ma ad emozioni senza parola che sono semplicemente l'eco di una storia ancestrale.

Joseph E. Stiglitz   

Joseph E. Stiglitz - I ruggenti anni Novanta. Lo scandalo della finanza e il futuro dell'economia

Editore Einaudi
Collana Einaudi tascabili - Saggi
pagine 333
anno 2005

Il libro è la continuazione, nel senso di un approfondimento del precedente testo di successo La globalizzazione e i suoi oppositori, ma si concentra soprattutto su un fenomeno abbastanza nuovo, per la sua estensione, nella storia più recente del capitalismo. Parlo dell'estendersi dei conflitti di interesse, in ambito economico e politico, favoriti dall'egemonia del capitale finanziario e dal suo tentativo di influenzare direttamente e spregiudicatamente i governi, anche attraverso gli organismi tecnici mondiali che nel frattempo sono stati creati, i quali difficilmente esprimono i loro indirizzi in modo disinteressato.
Stiglitz accusa sia la sinistra, soprattutto quella americana, sia la destra di aver perso la bussola. Di non aver cioè realizzato che, dopo la sbornia del laisser faire e delle privatizzazioni senza regole che hanno sconvolto gli anni Novanta del secolo appena trascorso, il presupposto che i mercati possano funzionare da soli in maniera equa ed efficiente, è venuto meno. Anche se, purtroppo, molti esponenti di casa nostra continuano a ripetere, anche recentemente, che il mercato è sovrano, quando di sovrano – se non sbaglio – dovrebbe esserci solo il popolo. Che poi si possa parlare di mercato in presenza di situazioni di oligopolio non fa che aumentare la stranezza del caso.
Intanto, Stiglitz denuncia, con ricchezza di esempi e con ricostruzioni analitiche di ciò che avvenuto nel decennio preso in esame, che le idee promosse dagli Stati Uniti all'estero (stiamo parlando della sfera economica), sono "profondamente diverse da quelle che mettono in pratica a livello nazionale."
L'analisi della crescita a buon mercato del decennio e la conseguente esplosione della bolla speculativa che si era creata e che ha gettato sul lastrico parecchia gente, accusa l'ideologia neoliberista di essere la copertura di un'economia voodoo (come la chiama Stiglitz) che "credeva di aumentare il gettito fiscale riducendo le tasse", e che nascondeva sotto il tappeto la debolezza strutturale e la vacuità di un decennio di frenetica immaginazione sul fatto che il capitalismo avesse ormai superato tutte le sue contraddizioni. Bastava lasciar fare il mercato. Ma se la globalizzazione, continua l'autore, è inevitabile, il modo in cui gli USA hanno tentato di indirizzarla, nel proprio interesse esclusivo (meglio, nell'interesse esclusivo delle grandi corporations e dei mercati finanziari), non era soltanto in contrasto con i valori di fondo della tradizione americana, ma è stato controproducente. Insomma, ha generato una reazione, anche irrazionale e spesso sanguinosa, che ora stiamo pagando tutti quanti.
La descrizione della deregulation senza freni adottata, l'invenzione di una contabilità creativa che permettesse di nascondere sotto il tappeto la reale condizione della aziende, sono solo due dei numerosi esempi che l'autore descrive in modo documentato (come nel caso del crac della Enron) e che rinviano, per inciso, anche alle vicende di casa nostra. Solo che negli USA si è cercato in seguito, in modo serio, di evitare che tali vicende si potessero ripetere. Ma per l'autore non c'è dubbio che, "in materia di macroeconomia, l'amministrazione Bush è stata il peggiore esempio possibile per i governi di centrodestra di tutto il mondo."
In conclusione, il sintetico messaggio del libro è riassunto dallo stesso Stiglitz: "occorre trovare un equilibrio tra il ruolo dello Stato e quello del mercato. Un paese soffre se ha troppe regole, ma anche se ne ha troppo poche, se lo Stato investe troppo, ma anche se investe troppo poco."

Viano   

Carlo Augusto Viano - Laici in ginocchio

Editore Laterza
Collana Saggi tascabili Laterza
pagine 127
anno 2006

L'autore ha fatto parte del Comitato nazionale di bioetica, oltre ad essere un filosofo della scuola torinese di Nicola Abbagnano, ed è uno di quei laici che non si vergogna di esserlo, che non si rifugia dietro termini edulcorati per definire le proprie convinzioni, che difende la dignità di un'etica che non trova le sue motivazioni in principi religiosi.
Anzi, tenendo fede al titolo di questo saggio, attacca esplicitamente i cosiddetti laici devoti, gli opportunismi politici e le continue interferenze della Chiesa nelle istituzioni repubblicane. L'autore comincia con una critica esplicita agli orientamenti di Benedetto XVI e alla sua pretesa di dettare le regole di un laicismo definito sano. Dove sano sarebbe "uno Stato il quale introduca nelle proprie leggi riferimenti etici, che trovano il loro fondamento ultimo nella religione." Per converso, insana sarebbe quella laicità che pensa ad uno Stato aperto, nel quale hanno piena cittadinanza (e non semplice tolleranza) orientamenti morali, religiosi e filosofici diversi.
Debbo però dire che Viano dipana le sue considerazioni lungo un crinale molto radicale e autoconsistente, che nella ricostruzione storica dei rapporti tra cattolicesimo e politica (e politica di sinistra) della seconda metà del Novecento, travolge qualsiasi motivazione possa essere stata espressa a favore di un atteggiamento che tenesse conto del fondo religioso-culturale italiano (per quanto ormai minoritario nella concreta pratica, ma solo negli ultimi decenni) e della opportunità di mantenere il confronto con la Chiesa entro i limiti della pace religiosa. È vero che è stata proprio la Chiesa, con le sue continue incursioni nell'ambito delle prerogative statali, a forzare abbondantemente quei limiti.
Molto interessante, nel saggio, è poi la parte storica dedicata alla ricostruzione dei motivi che hanno portato alla nascita dei due poteri (religioso e civile), da molti storici cattolici rivendicati addirittura come radice della stessa democrazia. Il fatto è che la scissione tra potere politico e potere religioso a cui l'esclusivismo cristiano fu costretto "segnò non la fine di un conflitto ma, almeno in Occidente, la sua istituzionalizzazione entro forme esplicite riconosciute." Pur continuando ad apparire i laici, agli occhi del clero, fonte di disordine e minaccia all'ortodossia. Per cui, quando ne ebbe la possibilità, la gerarchia ecclesiastica esercitò direttamente i due poteri. Fin quando diventò possibile il passaggio dalla tolleranza autoritaria degli Stati dell'ancien régime all'idea che fosse possibile (all'incirca nel Seicento) una religione civile, "fatta di poche credenze razionali, alle quali si può arrivare con mezzi naturali ordinari, senza bisogno della rivelazione."
Sta di fatto che la barriera tra mondo laico e mondo cattolico, trova le sue fondamenta all'interno della Chiesa stessa, dove il sacro è appannaggio esclusivo dei religiosi e dove l'obbedienza è la virtù ultima a cui debbono inchinarsi i credenti.
È con notevole orgoglio, poi, che Viano, sulla scia di Pierre Bayle, rivendica la superiorità di un'etica laica che non può trovare nessuna scusante o assoluzione di comodo "per venir meno a impegni morali."

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