Recensioni e commenti di saggi

a cura di PierLuigi Albini

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La morsa   

Loretta Napoleoni, La morsa. Distratti dal al Qaeda, derubati da Wall Street, come ne usciamo?

Chiarelettere
Pagine 186
Anno 2009

Verrebbe la tentazione di dedicare la recensione a tutti quelli che, avendo deciso di fare come due delle tre scimmiette (che non vedono, non sentono, ma in questo caso una parla e scrive anche), hanno inviato sul Web un commento al libro il cui elevato tenore intellettuale è pressappoco il seguente: mangiapane a tradimento (la Napoleoni, ovviamente), sputi sul piatto in cui mangi (quello della globalizzazione) e così via. Naturalmente, come in questi casi la storia dell'incultura insegna, è di rigore non dire una parola nel merito delle cose scritte e documentate nel libro, basta inveire contro l'autrice: non è necessario scrivere un saggio per questo, e nemmeno usare una sintassi un po' meno sgangherata.
Invece, sarebbe più serio e redditizio per la nostra capacità di comprendere come va il mondo confrontare gli esiti, per esempio del recente G8 allargato, con le analisi offerte dall'autrice. Una volta tacitato il rumore mediatico per nascondere la scatola vuota che è uscita dal meeting de L'Aquila (come è stato scritto) e esaminata l'inconsistenza delle decisioni effettive prese, si potrebbe tornare sui passi della Napoleoni per chiedersi come mai è così difficile disegnare un nuovo ordine mondiale. Vale la pena citare un passo del libro: "Invece di azzerare il rischio, di estirparlo come un cancro dell'economia globalizzata, lo Stato lo sta spostando da un settore all'altro: da quello privato a quello pubblico, e così facendo peggiora la situazione. È chiaro che questa politica nasconde la volontà di mantenere lo status quo ante, e cioè di salvare a tutti i costi un'economia dove la creazione e la commercializzazione del rischio sono diventate parte integrante del sistema". Dove, naturalmente, la questione del rischio non riguarda il normale funzionamento di un'economia di mercato, ma gli atti di pirateria e di esproprio forzoso compiuti da speculatori e banchieri ai danni dei cittadini. Insomma, "i politici non vogliono ammettere che il sistema non funziona e va radicalmente cambiato" – come ha scritto il Premio Nobel per l'economia Paul Krugman.
Così, il gioco d'azzardo delle piazze finanziarie off-shore continua disegnando un sistema in cui un cui non c'è alcuna differenza tra il paradiso finanziario di Dubai e Las Vegas. E, infatti, è di pochi giorni fa l'allarme della Fao sulla crisi alimentare: la speculazione sulla fame ha bruciato nel mondo quasi 200 miliardi di dollari solo per il grano: mentre il prezzo del grano calava quello dei suoi prodotti saliva.
Ma cosa c'entra Al Qaeda con tutto questo? Nel suo precedente libro I numeri del terrore. Perché non dobbiamo avere paura, l'autrice spiegava assieme al coautore a cosa è in realtà servita la politica della paura adottata negli ultimi anni da molti paesi occidentali. Qui sottolinea come se, da un lato, abbiamo dei leader che alimentano le paure della gente, dall'altra "ci vendono l'illusione effimera di una ricchezza che non esiste, incitandoci a spendere e a divertirci". Ma, analisi serie del fenomeno del terrorismo alla mano, "le probabilità che Bin Laden ci distrugga sono bassissime, quelle che oggi sia la finanza a farlo sono purtroppo altissime, una certezza assoluta".

Avanguardia   

Antonio Castronuovo, Avanguardia balneare. Figure e vicende del Futurismo a Rimini

La Mandragora
Pagine 131
Anno 2009

Il testo di Castronuovo è una dimostrazione sul campo di una peculiarità del movimento futurista rispetto a tutte le altre avanguardie del Novecento; ossia, la diffusione e il radicamento territoriale di una tendenza artistica che riuscì ad adattarsi alle condizioni locali, che in Italia sono poi particolarmente frammentate e diversificate. Ciò avvenne anche in una realtà come quella riminese che già ai primi del secolo era diventata una rinomata località di villeggiatura e che risentiva dell'influenza di Bologna, dei gusti di un pubblico evoluto che vi andava a passare i bagni, disponibile alle novità artistiche e letterarie. Ma Rimini fu anche capace di esprimere personaggi locali che a vario titolo si identificarono con il futurismo, specialmente nel campo letterario e della stampa stagionale.
Venati spesso da quell'anarchismo che circolava abbondante nel sangue romagnolo, ma anche nelle ispirazioni di fondo del Primo Futurismo, i futuristi riminesi sono stati ricuperati alla memoria da Castronuovo proprio in questo Centenario del movimento che ha visto numerose iniziative celebrative, alcune di notevole livello e altre meno. Non che siano mancati studi locali e anche più ampi sul fenomeno romagnolo del futurismo, come testimonia la bibliografia ragionata che chiude il volume, ma il pregio del saggio è di restituire l'immagine viva di un'epoca tra le più movimentate, nel bene e nel male, e di dare conto della parabola intellettuale di alcuni protagonisti dall'acuta intelligenza, sensibili alla modernità e ansiosi di rinnovare la cultura nazionale e locale. Primo tra tutti Addo Cupi, divenuto una vera e propria icona, che appare come "la levatrice del futurismo locale". Ingegnere e architetto, poligrafo, promotore di cultura, fondatore di giornali e pittore, il suo fiuto per le novità lo portò a captare immediatamente e a fare in gran parte proprie le suggestioni del futurismo, fin dalla sua nascita. Subito dopo, un gruppo di professionisti e intellettuali riminesi fondò Il Gazzettino Azzurro, strumento dichiaratamente balneare al quale collaborò anche Marinetti, il cui genio pubblicitario lo portava a pubblicare su molti giornali locali. Anche Addo Cupi collaborò al giornale, con poesie e scritti, ma in seguito fondò Il Pesceragno, una Rivista di umorismo balneare-mondano, come recitava il sottotitolo, che uscì per diciannove numeri e che era futurista per modo di dire, per quanto – come scrive l'autore – esso "costituisce uno straordinario documento dell'inquietudine romagnola primo novecentesca, forse la sede più autorevole per capire come una poetica – quella futurista – possa trasfigurarsi a contatto con una speciale linfa di provincia".
Straordinario anche il personaggio dell'anarchico Benso Becca che rivendica un superamento del futurismo, in quanto precocemente invecchiato, invischiato alla fine anch'esso nella decadenza romantica. Anticipatore di una teoria dei bisogni, espressa per quanto è possibile farlo in articoli di giornale e difensore dell'immoralismo, Becca scrive "brani che segnano una stagione detta futurista, ma dotata di caratteri non prettamente tali e piuttosto estetizzanti".
Il terzo personaggio principale del futurismo riminese è Giacomo Donati, radicale democratico e fondatore di giornali, dotato di una tempra iconoclasta che rinnega il passato in nome dell'apparizione della macchina. Donati è il più teorico dei filo-futuristi riminesi, quello che tenta di collegare gli impulsi del movimento a una visione filosofica, risolta nell'azione. Tanto da risentire l'influenza di un filone particolare del futurismo, prima e dopo la Grande Guerra: il dinamismo. Dopo la guerra, anzi, sulla scia del tentativo marinettiano di fondare un partito politico, il Gruppo Politico Dinamista riminese promosso da Donati pubblica un Manifesto, proponendosi come programma; "Di dare piena efficienza all'individuo nella nazione, alla nazione nel mondo". Alcuni testi di Donati sono riprodotti in Appendice del libro di Castronuovo.
Delineati questi tre personaggi non bisogna pensare a una loro solitudine, perché furono circondati da collaboratori, da sodali e da curiosi delle novità, alcuni dei quali attivi in campo letterario e artistico. Poi, dopo la normalizzazione futurista avvenuta con il fascismo, l'effervescenza futurista riminese si spense per dare luogo solo a singoli episodi promossi da personaggi futuristi, come lo stesso Marinetti, specialmente a partire dall'assegnazione dei Premi Rimini per la pittura, una iniziativa che aveva un lungo processo di formazione.

Okinawa   

Alessandro Spaventa e Salvatore Monni, Al largo di Okinawa. Petrolio, armi, spie e affari nella sfida tra Cina e Usa

Laterza
Pagine 208
Anno 2009

Dei 1900 miliardi di dollari delle riserve valutarie cinesi nel 2008, quasi il 70% erano espresse in dollari. Si capisce bene perché i cinesi abbiano avanzato la proposta di adottare una moneta virtuale mondiale che non fosse solo l'espressione del dollaro ma di un paniere di monete. In realtà, si tratta di una proposta sensata, l'unica in grado di cominciare a tagliare le unghie ai pirati della finanza e dintorni e di costruire un primo barlume di governo condiviso dell'economia; ma essa ha un costo per gli Stati Uniti: non avrebbero più la possibilità di fare come gli pare, in campo economico almeno. Un po' troppo anche per un illuminato come Obama. In realtà, gli Usa sono prigionieri della Cina e viceversa, per cui tutti e due debbono stare molto attenti alle mosse che possono fare: l'una potrebbe ritrovarsi con una forte svalutazione delle proprie riserve, l'altro potrebbe non trovare più clienti che comprano il suo debito pubblico.
Definito il perimetro entro il quale i due giganti dell'economia mondiale possono condurre un conflitto diluito e a bassa intensità, gli autori dell'interessante libro passano in rassegna i diversi scenari in cui esso si sta svolgendo. Non si tratta di una riedizione della guerra fredda perché troppo asimmetrica è la potenza militare, tuttavia non c'è alcun dubbio che la pur legittima aspirazione della Cina a contare di più, almeno nell'area asiatica, metta in moto in quell'area pericolosi processi di riarmo (vedi Giappone e Corea del nord) e squilibri la politica di potenza degli Usa. Del resto, ricordano gli autori, non sono pochi gli strateghi secondo i quali "la partita vitale per gli Stati Uniti non si giocherà più in Medio oriente, ma proprio nel Pacifico". Se è così, non c'è alcun dubbio che la politica seguita da Bush fosse miope e autolesionistica, mentre il nuovo corso di Obama risponde con intelligenza anche a una più realistica visione strategica. La politica di contenimento adottata dagli americani ha per ora successo, vista l'enorme sproporzione delle forze in campo, a tutto favore della potenza tecnologica e di intervento degli Usa. Tuttavia, nell'arco di soli otto anni il bilancio militare della difesa cinese si è più che quadruplicato arrivando a quasi il 2% del PIL (ma gli Usa spendono il 4%) e l'incremento delle sue capacità militari si è concentrato sui diversi talloni di Achille del dispositivo militare americano (guerra elettronica, guerra sottomarina, ammodernamento dell'arsenale nucleare).
L'altro teatro in cui il confronto tra i due giganti si sta facendo sempre più serrato è l'Africa. La forte penetrazione cinese nel continente è un fatto noto e oggetto di sempre più frequenti indagini dei media, sicché gli Stati Uniti hanno creato un comando militare (Africom) con l'obbiettivo di tenere sotto controllo le interferenze cinesi, specialmente se dovessero assumere una maggiore fisionomia militare. Qui la politica di penetrazione cinese ha rovesciato i tradizionali parametri di intervento occidentali (scarsi investimenti nelle infrastrutture locali, abitudine a un comportamento da rapinatori, atteggiamento di sufficienza, uso spregiudicato e spesso criminale dei conflitti interafricani) e per questo sta avendo successo. Tuttavia, anche nel caso cinese non tardano a venire alla luce nuove contraddizioni: inondazione di merci cinesi a basso costo che mettono fuori mercato le produzioni locali, scarso o nullo contatto delle migliaia di cinesi trasferitisi in Africa con le popolazioni locali, ritmi di lavoro non abituali per gli africani e uso disinvolto dei rapporti con i dittatori africani.
L'altro settore in cui il confronto tra Cina e Usa si fa facendo più serrato è quello dello spionaggio, militare e industriale, di cui gli autori riferiscono alcuni episodi che hanno messo in agitazione l'opinione pubblica americana. Ma il risvolto che desta più preoccupazioni in America è la penetrazione commerciale cinese. Intanto va sfatata la leggenda di una prevalente presenza cinese sui prodotti a media e bassa tecnologia. "Detto in parole povere – scrivono gli autori – la Cina è praticamente l'unico paese dal quale gli Stati Uniti importano più prodotti ad alta tecnologia di quanti ne esportino". Tuttavia è assai discussa la fondatezza dell'impatto negativo sull'economia americana delle importazioni cinesi, persino nel caso dei saldi occupazionali americani, per quanto un certo effetto lo abbiano. Così come le ricorrenti discussioni sulla necessità di rivalutare la moneta cinese, troppo sottostimata, non viene mai sollevata con decisione, perché – come gli autori dimostrano – mentre essa non avrebbe effetti sensibili sul commercio, ne avrebbe di pesanti (per gli Usa) sulla quantità di titoli di Stato, di azioni e di dollari detenuti dalla Cina. Con il che torniamo al punto di partenza di questa breve nota.
Ora, lo scenario creato dalla crisi in corso (che continua, nonostante gli ottimismi di maniera di certe autorità) potrebbe rimescolare le carte in tavola. La caduta del commercio internazionale obbliga i governanti cinesi a spendere di più per infrastrutture e Welfare in patria, non potendosi più affidare agli sbocchi esteri, pena l'esplosione di incontrollabili e imprevedibili tensioni sociali. Le quali potrebbero a loro volta giocare un ruolo non necessariamente positivo sullo scacchiere internazionale. Come concludono gli autori: "L'aquila è in difficoltà, si dibatte. Il drago, uscito dalla tana, è pronto a mordere".

Barbugiani   

Guido Barbujani e Pietro Cheli, Sono razzista, ma sto cercando di smettere,

Laterza
Pagine 137
Anno 2008

Molti si affannano a sostenere che in Italia il razzismo non esiste, ma sulle sue forme più o meno camuffate prosperano fortune politiche. Questo libro è un'utile ricognizione del problema che termina con un capitolo dal titolo significativo: Identità assassine. Non ci stancheremo di dire che questa storia dell'identità è proprio l'anticamera apparentemente neutrale che costituisce le coppie amico/nemico, superiore/inferiore. E che è uno dei filoni più insidiosi di un ritorno alla barbarie, proprio perché cerca di ammantarsi di ragioni storico-culturali: di più, è la fucina principale dell'odio. Quando non è miserabile difesa di altri interessi, che non vengono dichiarati, o paure attizzate per deviare l'attenzione dalle cause reali di disagi e pericoli. In ogni caso, a tutti quelli che per superficialità o per doppiezza dissimulata vanno parlando di difesa delle identità, vogliamo ricordare che è stata proprio l'ideologia identitaria del Novecento a produrre i massacri inauditi e sofferenze atroci.
"Gli sforzi scientifici per definire le razze umane sono sostanzialmente finiti negli anni Sessanta", scrivono gli autori; e questo perché la genetica ha dimostrato che ci sono più variabilità all'interno di una popolazione supposta omogenea che tra popolazioni diverse, di qualsiasi colore esse siano. Ora, a parte il fatto che siamo tutti di origine africana, discendenti da un piccolo gruppo che circa cinquantamila anni fa lasciò l'Africa, le razze biologiche non esistono, nonostante alcuni autori bislacchi si sforzino di proclamare che, prima o poi, sarà trovato il gene delle differenze razziali. E non si parla naturalmente solo di pelle, ma di propensione alla civiltà, alla cultura, alle capacità. Sicché, c'è chi si forza di stabilire che il quoziente intellettuale (QI) di ispanici e neri in America, per esempio, è inferiore a quello dei bianchi: che poi, ne verrebbe di conseguenza una graduatoria ulteriore di tipo etnico. Ovviamente, non c'è che da guardare con molto sospetto alle scale di queste misurazioni pseudo-scientifiche. Non si tratta di una battuta, perché ovviamente la questione finisce subito per confluire nel problema ricchezza/povertà. Certi Murray e Herrnstein (un politologo e uno psicologo, pensa te) sanzionano il fatto che lo Stato non voglia ficcare il naso nelle dinamiche sessuali della popolazione perché i ricchi tendono a fare pochi figli mentre i poveri ne fanno tanti. Ora, sempre secondo quei due, siccome non si è ricchi per caso ma perché si possiede un QI superiore, essendo i poveri più stupidi, "la società diventa sempre più stupida". Tanto più che lo Stato interviene con il Welfare a sostenere questi poveri che fanno più figli. Una tesi che riprende idee elaborate nel primo Ottocento, e poi al tempo dei padroni delle ferriere. Lasciamo immaginare gli orrori di una società del tipo del film di Metropolis Fanno però bene gli autori a mettere in guardia dall'atteggiamento speculare e lassista, perché "non discriminare le minoranze non significa accettare tutto". Per esempio, il mancato rispetto di diritti fondamentali non può essere tollerato perché "loro usano così". Qui il discorso sul multiculturalismo si farebbe lungo e non troviamo di meglio che rinviare l'eventuale lettore interessato al libro di Amartya Sen, Identità e violenza [Roma-Bari, Laterza, 2006, pp. 221].

Coen   

Gianluigi Nuzzi Vaticano S.p.A. Da un archivio segreto la verità sugli scandali finanziari e politici della Chiesa

Chiarelettere
Pagine 280
Anno 2009

"Il diavolo e l'acquasanta", è un vecchio adagio popolare che indica due entità che non possono stare insieme. Se ciò accade, ebbene, si tratta di qualcosa di innaturale, che stride con il senso comune. A leggere il documentato libro di Nuzzi l'adagio funziona e non funziona. Funziona se si pensa alla Chiesa come comunità mondiale e locale di fedeli, non funziona se si pensa al quartier generale, alla plancia di comando dell'unica teocrazia effettiva rimasta al mondo. E non funziona perché, nel caso di quell'ente che si chiama Vaticano, l'intrigo finanziario e politico, al limite e oltre la legalità, sembra esservi iscritto in modo permanente. Lasciamo stare i casi di cronaca nera, come il delitto Estermann o la sparizione di Emanuela Orlandi (sulla quale ultima è bene dare un'occhiata qui); nel libro di Nuzzi, il secondo caso è citato di sfuggita mentre si concentra sul cuore dell'argomento: in cosa consista l'attività finanziaria del Vaticano sulla base dell'archivio segreto di tale monsignor Dardozzi (morto da tempo), il quale era a conoscenza diretta - tanto da averne raccolto una sterminata documentazione - delle più spericolate e anche illegali attività della banca vaticana e dintorni. A partire dal famoso caso di Marcinkus, per passare per Sindona, Calvi e oltre, fino alle soglie dell'attualità. Viene in mente, a conclusione della lettura, che molti si sono scandalizzati perché nel G20 di Londra, dedicato alla crisi finanziaria mondiale, la Cina non è stata inserita tra i paradisi fiscali. Strano che nelle due liste di cattivi (quella nera e quella grigia), fossero presenti stati come la Svizzera, il Lussemburgo, il principato Monaco, il Liechtenstein e così via, ma che nessuno abbia protestato perché non vi era stato incluso lo Stato della Città del Vaticano. L'assedio ai paradisi fiscali di cui ha parlato il nostro Ministro dell'Economia e delle Finanze, si è tenuto ben lontano dalle mura leonine. Eppure, dal libro di Nuzzi, che approfondisce e documenta meglio le manovra finanziarie di Oltretevere spesso descritte dalla stampa libera, emergono attività di riciclaggio di denaro sporco, proveniente da tangenti o da ambienti criminali e mafiosi, spericolate operazioni speculative, appropriazioni indebite di capitali, prestiti oscuri e sospette triangolazioni di soldi tra presunte organizzazioni caritatevoli e personaggi equivoci. Lo Ior, l'istituto di fatto bancario del Vaticano, era ed è al centro di questa ragnatela, inseguendo il sogno "di creare una banca mondiale dell'unica teocrazia presente sul pianeta". Né si può sostenere, come spesso è stato fatto, che si è trattato di alcune mele marce, nonostante le persone per bene come il monsignor Dardozzi, che ha reso disponibile il proprio archivio. Nuzzi spiega e documenta come quelle attività illegali fossero piuttosto congruenti con una cultura esasperata della segretezza, con tacite convenienze e tolleranze fino ai livelli più alti della gerarchia - purché i fatti non divenissero di dominio pubblico – con una consumata abilità di "mettere a tacere" e di sviare l'attenzione, di intralciare con lo strumento diplomatico l'azione della giustizia. Insomma, con il peggior armamentario del segreto di stato emulo dei fasti cinesi attuali, oppure rinascimentali, a libera scelta. Per esempio, anche per quanto riguarda il bilancio annuale del Vaticano, reso pubblico con debita conferenza stampa e spacciato per un'operazione di trasparenza. Una cosa comica, fatta di reticenze, partite finanziarie incomprensibili o parziali, consistenti fondi occulti di cui non si può conoscere l'uso, immensi patrimoni sottostimati e così via.

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