C'è un luogo che è reale e al tempo stesso è sogno, una terra che corre e che è insieme immobile da sempre. Vi abito anche quando ne sono lontana, perché mi è radicata in ogni fibra e, quando finalmente ci sono davvero, sembra sempre che mi sovrasti, che mi chieda di andare oltre, di superare i soliti ambiti, che sono comuni a tutti, e che cerchi di affinare ogni possibile mia sensazione. Laggiù sono del tutto scoperta, come se la pelle mi fosse stata strappata via e niente si interponesse tra la carne e il sangue e il mondo intorno a me. Mi lascia stremata, e al tempo stesso solo laggiù posso essere certa di trovare il luogo ideale dove le pene si attenuano, dove le gioie si appagano, dove le forze rinascono: mi chiede la pienezza di senso e ragione e mi concede la consapevolezza e la padronanza di me. Una terra dura, si dice, lo raccontano canti e leggende, lo dice la storia, ma forse, per questa sua primitività, generosa di vita: Maremma.
I miei ricordi sembrano dissolversi come neve al sole, si sbriciolano e fatico a ricomporli nella mia mente. Non si tratta del solito gioco di specchi che ci impedisce di vedere la realtà, mentre di questa ne conserviamo un'immagine infantile, dove le case erano sempre più grandi, gli alberi più alti, il cielo più azzurro, no, in questo caso è diverso. Questa terra, dove ogni anno ritorno, come se da quest'incontro io potessi succhiare le forze per gli altri undici mesi che verranno, è rimasta praticamente immutata nell'arco della mia vita. Certo, qualcuno è morto, qualcuno è nato, sono arrivati la luce e l'acqua, ancora il gas è lontano e le automobili ed i trattori hanno sostituito i vecchi ed amati carri agricoli, trascinati con rassegnazione dalle due solite vacche bianche che, almeno per quanto riguarda il mezzadro della mia Nonna, da generazioni, di vacche intendo, rispondevano al nome di Bianca e Rondine. Il fatto è che ora, quasi all'improvviso, nella zona è stato fatto il grande salto e da poveri contadini, mezzadri di preselle, che a stento davano da vivere, ci si è trasformati. Ricordo il vecchio contadino che raccontava:
" Due fagioletti su, su..." come a dire che con una sola manatina di fagioli si faceva grande una famiglia.
Oggi son tutti agricoltori, proprietari delle terre che lavorano nei fine settimana, perché il loro lavoro è un altro: operaio, ma anche impiegato e, perché no, libero professionista. La terra, che per lunghi anni di estate in estate vedevo arida e giallastra, ora è frazionata, vi sono cresciute case e, dopo un certo apprendistato come orto, quei fazzoletti di terra sono diventati giardini, e non i soliti angolini di gigli e rose da portare al Camposanto, quando si fosse trovato il modo di arrampicarsi sul poggio, erto e lontano, una volta l'anno, perché si deve, perché, se no, che dirà la gente....
I giardini non son più nemmeno quelli, sono pretenziosi, aspirano ad avere il tappeto erboso tipico inglese, sono precisi ed ordinati e, finalmente, possono bere a sazietà e la Maremma, tanto assetata da ottenere per questo un monumento, può ora mostrare la pienezza delle proprie forze e le piante crescono rigogliose, mal sopportando di essere imprigionate con le cesoie.
Dunque non il tempo che scorre, ma il tanto auspicato benessere mi toglie dagli occhi lo scenario dell'infanzia, ed i Toscani, così scevri dall'accettare le novità, si scopre che forse ne erano semplicemente impossibilitati dalla esiguità dei beni. Cosa resta dunque che la memoria possiede e che non deve raffrontare con la realtà intorno: poche immagini negli occhi, un ciuffo di peli rossi di Ruffo, il gatto dei contadini, inseguito per tirargli la coda, ma non ricordo i graffi che, m'hanno detto, mi sono guadagnata, il volto rubicondo, anche se accigliato, della Bisnonna, incorniciato da una finestra, controllare la svina o la trebbia, il profumo del pane che le donne facevano nella casina che era il vecchio forno e che mi diceva, ancora prima di vederla, che sarebbe arrivata a sera la schiaccia coi pizzichi, un pezzo di pane schiacciato, salato ed unto di cui sono ancora ghiotta, ma che, comprata ora dal panettiere, quasi sempre mi delude. Mi do anche delle spiegazioni razionali: non è fatto in forno a legna, è di panetteria e non di casa, e poi la farina d'oggi....Non c'è paragone, ma, in effetti, credo siano scuse: il pane di quando si è bimbi non avrà mai più lo stesso sapore.

ACQUA

Ero salita dalla Meina, la contadina che confinava con i nostri mezzadri; aveva un grande tesoro che ogni tanto mi permetteva di osservare. Si trattava di una lunga treccia di capelli che aveva tagliato anni prima alla figlia. A ripensarci ora non era cosa tanto bella da vedere, ma allora a me sembrava davvero di poter toccare i capelli della principessa delle fate. Non ricordo assolutamente niente di quanto la donna mi raccontava, ma dovevano essere storie piacevolissime, perché il tempo scorreva senza che mi passasse per la mente che la triplice generazione di donne della famiglia, Bisnonna, Nonna e Mamma forse stava in pensiero per un frugolino di pochissimi anni, che sembrava non temere gli ambienti nuovi e nemmeno sentirsi intimorita da persone che non fossero di casa. Così, quando un certo giorno alla fine mi stancai di carezzare quella treccia nera e scesi le scale per tornare a giocare nell'aia, venni accolta da tanta gente: i due figli del contadino, le loro mogli, Nonna e Mamma, mentre dalla finestra scorgevo il volto preoccupato della Bisnonna. Tutti erano in pensiero per me, da troppo tempo nessuno mi aveva vista o sentita e lì, mal chiusa, c'era una vera e propria trappola: il pozzo. Devo ammettere che quel lungo tunnel nero che entrava dentro la terra mi affascinava, lo guardavo e mi sembrava che là nel buio ci dovesse essere un mistero, una grotta, e quando le donne calavano il secchio per attingere l'acqua, seguivo quanto più mi riusciva il viaggio di quello che sprofondava, sfiorando i ciuffi di capelvenere che crescevano nell'interno, e quando il secchio risaliva, grondante acqua, le api e le vespe a frotte lo circondavano per bere, e io ero sempre lì.
Chissà perché, se ad attingere l'acqua era uno degli uomini, c'era meno magia, ma c'è da dire che l'uomo s'attaccava alla catena del secchio solo quando doveva abbeverare le vacche. Con due bracciate il secchio era già su, con un colpo veloce della mano veniva rovesciato nella pila, l'abbeveratoio, che in breve si riempiva e le due vacche bianche, appaiate anche per bere, aspiravano tutta l'acqua aiutandosi con una lingua dalle incredibili proporzioni. Mi fermavo a guardare quegli occhioni così buoni, ed ancora mi rimane dentro la convinzione che loro sapessero che le avrei volute accarezzare, come qualche volta ho fatto, eludendo il controllo del contadino, che invece temeva, per me, i loro zoccoli duri. Sicché, quando a tirar l'acqua c'era un uomo, significava che c'erano anche le vacche e per me queste erano assai più interessanti dell'acqua stessa. Quel pozzo rivestiva nella mia mente anche un altro mistero, tutta l'acqua che poteva dare veniva usata per tutti gli scopi per cui si può usare l'acqua, fuorché per l'unico vero motivo per il quale, a me bambina, sembrava dovesse essere usata. Nessuno la beveva, e segreto era il motivo per cui ciò non avveniva. Sull'acquaio in casa, al fresco, stava sempre un secchio di quell'acqua e ci sbirciavo dentro, ne prendevo, a volte, con un romaiolo e strizzavo gli occhi per cercare mostruosi animali che, a mio parere, sarebbero stati gli unici a sconsigliare, con la loro presenza, alle schizzinose donne di casa, di bere quell'acqua. Onestamente non mi capacitavo del perché tutti facessero tanta fatica e andassero tanto lontano ad attingere acqua. Era nel pozzo giù nell'aia, ed anche in questo modo assai più lontana di quanto non fosse nella mia casa in città, dove era sufficiente aprire il rubinetto per avere tutta l'acqua che uno voleva.
Ma c'era il risvolto della questione.
" Spicciati, andiamo alla pompa. "
Con queste parole ogni giorno, verso sera, quando i raggi del sole erano meno crudeli, Mamma e Nonna, e con loro anche mio fratello ed io, ci recavamo alla Vigna, un poderino poco lontano, dove c'era una pompa, un pozzo artesiano, a cui si riempiva la brocca. Era questa la classica brocca toscana di rame, con un sottile beccuccio in ottone fatto a forma della testa di un uccello fantastico. Pesava anche da vuota, ma piena era proprio una fatica trascinarla fino a casa.
Ed era importante che nemmeno una goccia del prezioso liquido fosse versato e davvero era un'impresa attraversare i campi, camminando su stradelli stretti, attenti poi che vipere ed aspidi, abitatori di quei terreni assolati, non si mettessero in competizione con noi.
Vista le tremebonda attenzione che Mamma e Nonna ponevano a scrutare nei cespugli la presenza di quei tali animali, era chiaro che sarebbe bastata anche una semplice biscia, un biacco, o forse anche una lucertola un po' più grossa delle altre, perché la brocca rotolasse a terra, spargendo tutto intorno a sé, e così ben presto presi io a portare la brocca, perché ero l'unica che di bestie di nessun tipo non avesse né paura e nemmeno ribrezzo. Questo rito giornaliero era per me un vero divertimento, perché era del tutto lontano dai soliti modi di vivere, anche se suppongo che per i grandi fosse una necessità alquanto gravosa. Il pozzo della Vigna era l'unico potabile della zona, ed anche se molti pozzi facevano parte del paesaggio tipico delle case coloniche dei dintorni, era evidente che i mostriciattoli invisibili, che abitavano nell'acqua del nostro, avevano invaso come alieni anche i pozzi dei nostri vicini.
La Bisnonna soleva ripetere, con una certa aria seria, come se si potesse scherzare su molte cose, ma che non tutte eran motivo di scherno, che l'acqua non si negava a nessuno. Guai a chi non dà l'acqua, meglio non essere nei suoi panni quando sarà al cospetto di Nostro Signore, e considerando che il pozzo era suo e che non parlava per interesse, anzi, queste parole mi si sono stampate addosso con il crisma della generosità. E me ne ricordavo, vedendo tutte le donne che venivano dai poderi vicini, persino dai grandi fondi dei signori della zona, stanche dall'aver faticato tutto il giorno sotto il sole tra polli e bambini, che ripigliavano fiato scherzando tra loro e raccontandosi qualche pettegolezzo, austere nei panni neri, le scarpe grosse ed il grande cappello di paglia a larghe tese, tenuto fermo dalla pezzola, il fazzoletto, nero anch'esso, legato sopra il cappello stesso.
Ma poi, quando era il loro turno, riempivano chi una chi due brocche e se ne andavano con incedere dignitoso, che oggi non ha più senso di esistere. Erano fiere della loro povera vita, mentre ora nessuno di noi è contento e pago di ciò che ha, manca sempre qualcosa ed il desiderio frustrato avvilisce e svilisce l'animo umano.
Il sapere che l'acqua non si possiede, ma si dona, perché a tutti serve, è forse poca cosa, però, applicato a tutto quanto è strettamente necessario alla vita permette di ricavare un sostegno che guida le scelte e la mia Bisnonna, piccola, rotondetta, candida, esattamente come dovrebbero essere tutte le nonne, mi torna sempre in mente con queste parole e saltano e scorrono proprio come quell'acqua che non voleva negare.
" Vieni, andiamo a Suvereto! "
Non sempre, ma quando succedeva era una festa.
Il contadino prendeva il carro piccolo, basso e senza sponde, aggiogava le vacche, lo caricava fino all'inverosimile di damigiane, fiaschi e bottiglioni vuoti e si avviava verso il suo paese di appartenenza per riportare a casa la provvista d'acqua necessaria per molti giorni. Mi domandavo, pur se vagamente, perché anche lui non approfittasse dell'acqua della Vigna, ma in fondo ne ero felice.
Solo più avanti negli anni capii che tra Campigliesi e Suveretani non correva buon sangue e quel che era buono per gli uni non si addiceva agli altri e la Vigna della Bisnonna si trovava sotto la giurisdizione di Campiglia, il mezzadro era di Suvereto, dunque...., ma come ripeto a me allora niente di tutto ciò importava davvero, la cosa più interessante era che mi facevo una scarrozzata con le gambe penzoloni e se ero davvero fortunata, all'andata, quando era tutto vuoto, mi venivano concesse le redini per qualche metro. Non si trattava di reggere cavalli imbizzarriti o carri durante una corsa selvaggia, però per me, bimba di pochi anni, cittadina, avere per le mani il potere di dirigere le bestie più o meno dove volevo costituiva un evento degno delle Croniche dei Re.
La fatica di riempire tutti quei contenitori non mi competeva, né mi preoccupavo molto di come la cosa avvenisse. Ricordo solo un continuo via vai di facce rugose, mi sembravano centenarie o più, scolpite nella pietra serena che borda finestre e soglie, o modellate con quella terra bruna e rossastra, impregnata di quel ferro che più di duemila anni fa aveva fatto fermare su queste sponde i pirati Lidi, gli scorridori più temuti del Mediterraneo, prima che li trasformasse negli industriosi e saggi Etruschi, famosi per sapienza e arte divinatoria.
Quei volti mi sorridevano, spesso sdentati, e mi salutavano quasi fossi una di loro, anche se a volte qualche sguardo più penetrante mi ricacciava in quella zona opaca che tra i mezzadri doveva occupare la "nipote delle Padrone " e questa parola un po' astrusa mi rimbombava nell'orecchio e mi stupiva, perché, benché bambina, mi accorgevo che veniva usata diversamente da come l'intendevo io. Molti anni dopo capii meglio, ma allora era solo una piccola nube in una giornata di festa.
E si tornava con le damigiane colme e con i raggi obliqui del sole che attraversavano i bottiglioni chiari d'acqua di fonte e dal momento che non se ne parlava proprio di prendere le redini, io mi stendevo a pancia in giù sul carro e cercavo, guardandoli attraverso la lente che acqua e vetro formavano, di riconoscere i luoghi, le cascine, i pini, i cipressi che s'incontravano per la via. Molto più raramente si andava, o meglio il contadino aggiogava le vacche al grande carro agricolo, che era un monumento, a quei tempi, essendo io alta un soldo di cacio, ma che, abbandonato nell'aia all'avvento dei trattori vari come inutile relitto di tempi trascorsi, mostra invece dimensioni così ridotte da far tenerezza, per andare al Cornia.
Il Cornia è un fiume, anzi, nella zona è il Fiume. L'ho sempre visto secco, completamente vuoto, come vuoto ed arido è sempre il canale scolmatore a lui parallelo: il Rio Merdancio. Qualche pozza rara, d'ignota provenienza, residuo di chissà quale lontana alluvione, era ricca di rane nei vari stadi di sviluppo, soprattutto c'erano i girini.
Quando il sole cuoceva le teste e con esse i cervelli, quando, proprio per questo, nessun adulto metteva il naso fuori dalle ombre della casa, allora era il regno dei bimbi e per l'occasione mio fratello ed io, a volte soli, a volte con un amico, facevamo gli esploratori, scalando prima l'argine dalla parte dei campi, poi scendendo sul greto da quella parte in cui era prevedibile la capacità di risalita.
Non l'ho mai confessato, ma avevo sempre il timore che l'onda di piena, di cui avevo letto, ma della quale non mi sapevo figurare l'origine, arrivasse a tradimento, sorprendendoci mentre stavamo disturbando il lieve sguazzare di centinaia di girini. Quei fiumi così secchi, tanto da non sembrare fiumi, nascondevano un triste segreto: infiltrata come un folletto tra il crocchio delle donne che si raccontavano a veglie le stranezze del mondo, avevo saputo che in un tempo non ben definito, ma non troppo lontano, il Fiume si era ingrossato, era corso verso il mare trascinando con sé ogni cosa, maiali che galleggiavano, vacche gonfie come otri, polli starnazzanti. Persino il podere di là del Rio Merdancio aveva avuto i suoi bravi guai, le bestie e gli uomini si erano ritrovati tutti insieme al piano più alto, mentre dalla piccionaia, circondato da piccioni svolazzanti, il capofamiglia strologava il tempo, per capire quando tutto quel finimondo avrebbe avuto termine. Chiacchiere di donne, fatte crescere forse per renderle più interessanti, ma che dipingevano nella mia mente a tinte fosche un paese di leggenda.
Dunque, qualche volta, assai raramente per la verità, si andava al Fiume. Il mezzadro mi diceva chiaro e tondo che lo potevo accompagnare, ma che dovevo sapere bene che non avrei mai dovuto farlo, perché si scendeva nel letto, dove lui avrebbe preso qualche palata di terra: proibitissimo, tanto che sarebbero stati guai grossi se avessimo incontrato la guardia. Io questa guardia non riuscivo proprio a figurarmela, in città sì, c'erano vigili e carabinieri, ma lì, in quei campi, dove non s'incontrava nessuno, se non le donne alle fonti verso sera, o il contadino isolato nel campo, chi sarebbe mai stata la guardia? Quasi quasi speravo davvero di incontrarla, questa guardia, tanto, mi dicevo, io sono piccola, a me non potrà far niente e il contadino è vecchio e saggio, saprà sicuramente come cavarsela. La strada non era lunga, ma mi sembrava eterna, perché mi guardavo intorno, sospettosa, cercando l'essere mitico in ogni dove, come se la guardia, se davvero ci fosse stata, avesse potuto intuire la nostra meta. Come arrivavamo all'argine il contadino spingeva le vacche ad imboccare un sentiero che nella mia memoria risulta scosceso, il quale portava sul fondo del letto del Fiume. Il contadino s'incontrava con un suo conoscente che abitava lì e insieme riempivano il carro di sabbie fluviali con le pale i cui manici mani, calli, sudore avevano levigato e lucidato, abbassando i nodi del legno, addolcendone le asperità tanto che spesso mi soffermavo, facendo scorrere la mano lungo quella superficie che mi avrebbe dovuto parlare di fatica, se fossi stata più grande, che mi raccontava invece di sole e di grano, di vendemmia e, soprattutto, di libertà.
Si tornava lentamente verso casa, con un occhio alla strada, per non incontrare per l'appunto la guardia, ora che nel carro riportavamo la prova del delitto compiuto e, per quanto mi riguardava, con la consapevolezza di un rischio corso, di una prova superata.
Ho cercato più e più volte quella stradina, la casa amica sull'argine del Fiume, non l'ho mai ritrovata, persa nella memoria, dove vive per sempre, mentre nella realtà ha forse seguito le sorti degli uomini che l'abitavano.

FUOCO

L'altro elemento fondamentale di quei miei primi anni era il fuoco. Si nominava poco, a bassa voce e tutti i contadini preferivano citarlo indirettamente, usando la metafora: c'è da bruciar le stoppie, si devon pulire le fosse, faccio il pane.
Era un brivido quello che scendeva nel cuore a noi bambini quando arrivava il momento di accendere il fuoco. In città tutto il fuoco che conoscevamo era quello del fornello a gas della cucina: una caricatura di fuoco, un mostro violento tenuto al guinzaglio come fosse un cagnolino.
In campagna invece anche accendere il fuoco era una sfida, era il modo più diretto di sperimentare insieme capacità e coraggio, abilità e saggezza. Il primo fuoco, il più semplice era quello della candela. Non si poteva avere la luce col semplice gesto dell'interruttore, cosa di cui noi bambini di città non sentivamo il peso, mentre le donne di casa se ne lamentavano con le figlie del mezzadro. E questa fiammella oscillante, richiamo di falene luminescenti, creava dei giochi fantastici di luci e di ombre sulle pareti scabre, imbiancate a calce, del cascinale. Quante fantasie sono nate da quel lieve ondeggiamento, cavalli alati, streghe malvagie, castelli fatati, principi e principesse. Niente di tutto questo hanno oggi i bambini, mi pare, tutto è già pronto, per essere inghiottito senza bisogno di passare dalla fantasia e dal cuore, tutto arriva direttamente al cervello, forse, e lì si deposita in attesa di uscire allo scoperto nella vita di tutti i giorni. Ma probabilmente non sono più bambina io, la differenza è solo questa. Dunque la fiamma della candela aveva un fascino che poche altre cose al mondo sapevano esercitare, ma quello che eccitava noi bambini era il diverso modo con cui veniva spenta: Mamma e Nonna erano le uniche che ottenessero le tenebre con un soffio leggero, la Bisnonna e tutta la famiglia del contadino, invece, strizzava la fiamma tra i polpastrelli del pollice e dell'indice. Qualcuno le bagnava leggermente con la saliva, ma il mezzadro e suo figlio, uomini dall'incredibile coraggio, affrontavano la fiamma a mani nude, senza nemmeno quell'umido velo di protezione. Quante volte ha scrutato il mistero di questo diverso modo di spengere la povera candela e non mi capacitavo delle differenze, la linea di demarcazione non era tra uomini e donne, né tra cittadini o campagnoli, e nemmeno tra giovani e vecchi; doveva trattarsi di una magia, che proteggeva alcuni dal dolore, ma nessuno fiatava, era del tutto impossibile arrivare al cuore del segreto. Mio fratello ed io abbiamo provato molte volte a tentare la sorte, senza parlarci, senza dirci chiaramente che era giunto il momento della prova estrema, ci avvicinavamo alla fiammella con mano tremante, tesa allo spasimo, per trovare il coraggio di osare là dove osavano i più forti fra noi, poi, sempre, capitolavamo e soffiavamo con estremo vigore, a spazzare con la luce anche la vergogna dell'insuccesso.
Non ho mai spento così una candela, anche nei tempi a venire, ho accantonato l'esperimento, ho capito che il coraggio non si misura su questa piccola cosa, ma forse, quando sarò ancora più vecchia e più saggia, quando le speranze saranno minori delle certezze, forse tornerò ancora davanti ad una candela accesa e tenterò davvero di spengerla con le dita ed allora, chissà, conoscerò davvero i segreti del mondo.

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