Le cose non stavano andando bene, a Carlos Divera.
Il mestiere di attore era fatto di lunghe attese, e durante quest'ultima, che durava da due mesi e mezzo, non si era vista una lira una.
L'ultima volta che aveva partecipato a un film si trattava di un spaghetti-western ambientato nella pericolosa città di Corpus Christi, al confine col Messico, ma in realtà ogni scena era stata girata in Andalusia. Aveva fatto la parte di un bandito messicano che in tutto il film diceva solamente: «Non ci piace per niente, la tua faccia, gringo», e poi moriva come un cane, ma il gringo in questione era il protagonista dello spaghetti-western, ossia il personaggio principale, e al produttore della Film Axa ed al regista era piaciuto molto il modo professionale in cui Divera era crollato lentamente al suolo, colpito a morte in una delle scene più importanti.
Ora Divera si trovava a Parigi, per via di un film sulla Resistenza francese, durante le seconda guerra mondiale, e per un motivo e l'altro il provino era slittato di giorno in giorno e lui si ritrovava a dover pagare i conti dell'albergo e a non avere i soldi per fare un pasto come si deve.
Il luogo esatto in cui si trovava adesso era un bistrot sulla riva sinistra della Senna, dalle parti di Rue de Sèvres, e l'ora era pericolosamente vicina a quella della cena, dato che alcuni dei turisti stavano già mangiando wurstel e crauti ad un tavolo rotondo poco distante.
Sul suo, di tavolo, cercavano compagnia una tazzina vuota di caffè e le bricioline di un croissant; un po' pochino per un uomo atletico di un metro e settantacinque, che tra l'altro aveva sempre mangiato molto volentieri.
Divera guardò una bambina sui dieci anni che con un boccone solo mandava giù metà di un wurstel coperto di mostarda, e si sentì stringere lo stomaco per la tristezza. La carne e il vino rosso, a cui era abituato fin da piccolo, gli mancavano in modo doloroso. Era come se l'avessero separato ingiustamente da amici di gioventù ai quali era molto affezionato...
Al tavolo che gli era più vicino venne a sedere un tipo che aveva l'aria di un avvocato o di un agente immobiliare. Se la passava bene, a giudicare dal sorriso, e Divera non poté fare a meno di notare che aveva delle belle scarpe, la giacca e la cravatta in tinta ed un viso ben rasato.
Istintivamente guardò le proprie scarpe, da ginnastica, e si toccò le guance coperte di peli neri. Portava anche lui una giacca e una camicia, quest'ultima con quadrettoni grigio scuro, ma gli mancava una cravatta al collo; sostituita, nel triangolino vuoto che si trovava sotto il mento, dalla stoffa nera di una maglietta di cotone. In compenso i suoi capelli erano folti e disordinati, mentre quelli del vicino erano piuttosto radi e pettinati di traverso con grande cura.
Divera si passò le dita nella capigliatura per trovare un po' di conforto e tornò a farsi i fatti suoi, finché non venne un cameriere a portare una bistecca all'avvocato immobiliare, proprio nel momento in cui quest'ultimo si era allontanato dal suo tavolino per un attimo, forse per andare in bagno o per fare una telefonata.
Era una bistecca bella, luccicante di olio e sangue cucinato, e con una fettina di limone poggiata in modo languido su un fianco prosperoso, mentre in un altro piatto un po' più piccolo fumavano delle patate arrosto di contorno appena appena bruciacchiate.
Questione di secondi ed il vicino di Divera sarebbe ritornato e avrebbe mangiato quel ben di Dio. Così Carlos si alzò d'istinto e con un movimento rapido afferrò la bistecca e se la mise in tasca, senza pensarci su.
Non si girò per controllare se qualcuno avesse notato il rapimento oppure no; si avviò invece con passo appena più veloce del suo solito verso l'albergo che distava meno di un quarto d'ora, e lì mangiò la bella bistecca, dopo averla pulita e riscaldata qualche secondo sotto il getto dell'acqua calda, nel piccolo bagno della sua stanza al piano tre.
Per asciugare la stoffa della giacca, impregnata di sugo e sangue, usò un bel malloppo di carta igienica, che lasciò all'interno della tasca durante tutto il tempo della cena e della sigaretta digestiva. Dopodiché buttò il malloppo pregno e lo sostituì con altra carta igienica, in modo da assorbire tutto per benino. A questo punto se ne andò a dormire, soddisfatto, con una leggera curiosità al posto del senso di colpa che forse avrebbe dovuto avere.
Si chiedeva che cosa avesse fatto il suo vicino, trovando una fetta di limone piccolina al posto di una bistecca grande e grossa. Se lo chiedeva sorridendo, perché Divera era fatto così.

***

Santarelli gli telefonò la mattina dopo, per fortuna.
«Carlos, abbiamo l'appuntamento con Larsan questo pomeriggio, nel suo ufficio.»
«Ah, bene», disse Divera. «E a che ora dobbiamo essere lì?»
«Alle sei e mezza esatte. E fatti la barba, per favore.»
Santarelli, il suo agente, gli voleva bene. Carlos gli ricordava un suo cugino che era morto troppo giovane, alla memoria del quale era legato.
Secondo Santarelli, Divera aveva una bella faccia. Prima o poi sarebbe stato notato, con quella faccia da simpatico lazzarone, e per farla vedere bene era necessario che si presentasse ai provini ben rasato. Peccato che Divera fosse un tipo un po' maldestro, in tutto ciò che richiedeva precisione. Si riempì di tagli e di taglietti, con la lametta da barba che riuscì a trovare, e siccome aveva impressione del sangue e paura delle infezioni, si presentò allo studio di Larsan con tre cerotti sparsi per tutto il viso, che naturalmente Santarelli non apprezzò.
«Ma che cavolo ti sei combinato?», disse Santarelli, che non usava mai le parolacce.
«Mi sono tagliato con la lametta da barba», spiegò con semplicità Divera, al quale dispiaceva contrariare Santarelli.
Il suo agente lo guardò con santa sopportazione. «Togliamo questa roba», disse, e tolse dalla faccia di Divera, con delicatezza burbera, i tre cerotti sanitari.
Divera lo lasciò fare, come fanno i bambini che sono diventati ometti nelle rare occasioni in cui vengono assistiti dal papà. Fece soltanto qualche smorfia e nessun lamento, perché non é che capiti tutti i giorni di essere assistiti da chi è quasi sempre fuori per lavoro.
La segretaria di Larsan, che aveva i capelli neri e la frangetta, li fece entrare nella stanza del suo capo pochi minuti dopo.
Divera si distrasse subito pensando alla scollatura della segretaria e al suo sorriso limpido da vera professionista; si sedette pensando agli occhi profondi e scuri, che lo avevano guardato in modo particolare, mentre lei chiudeva la porta alle loro spalle, e si chiese se non è che gli avevano mandato un qualche segnale. C'era in loro un che di malizioso che...
«Allora, Carlos, come andiamo?»
Larsan lo guardava, in modo cordiale, e Divera prima disse: «Eh?», perché si era distratto, e poi aggiunse subito: «Bene, benissimo Philip. E tu come stai?», perché aveva recuperato.
«Très bien, mon ami. Très bien. Ho buone notizie, per te, mio caro.» Quando a Larsan girava bene, abbondava in parole come "amico mio" e "mio caro".
«Abbiamo la parte per "Les combattants"?», chiese Santarelli, speranzoso.
Larsan allontanò una mosca immaginaria. «Dimenticatevi di "Les combattants", mes amis. La gente è stufa di queste storie noiose e tristi sulla Resistance. Bof! Forse ne faremo una commedia brillante o una specie di musical, non so. Quello che vi propongo è molto meglio.» E qui Larsan fece una pausa a effetto. «"Le seigneurs de Marseille", i signori di Marsiglia... Che ve ne pare?»
«Bello», si sbilanciò Divera, che con una parte consistente della mente pensava ancora a come interpretare il sorriso della segretaria.
«Di che si tratta, esattamente?», chiese invece Santarelli, in tono rispettoso, ma con l'espressione di prudente attesa di chi è pronto a ricevere qualsiasi variante del vasto campo delle fregature.
Larsan sorrideva senza soste e sembrava molto compiaciuto. «Gangster, sparatoria, azione. E anche belle pupe, che più vengono maltrattate e più fanno le fusa. La gente adora i duri che sparano pallottole e cazzotti e se ne fregano della legge e della polizia!»
«Bello», ripeté Divera, al quale era piaciuto molto l'accenno alle pupe che facevano le fusa.
«E Carlos che dovrebbe fare?», chiese Santarelli, sempre cauto.
«Un killer. Un killer professionista, spagnolo e molto cattivo.» Larsan studiò la faccia di Divera, con occhio da intenditore. «Magari ci vorrebbe una bella barba. Qualcosa che lo renda più cattivo.»
Divera guardò il suo agente sottintendendo «Hai visto che la barba andava bene?», ma Santarelli lo ignorò per chiedere: «Okay, e qual è il compenso a cui pensate?»
Larsan sorrise ancora più di prima, sillabando la cifra con sussiego. Si trattava del doppio di quanto Carlos avrebbe preso per "Les combattants", e Santarelli e il suo protetto si dissero subito d'accordo sull'offerta.
«Très bien. Allora possiamo firmare il contratto anche subito», concluse Larsan, chiamando la bella segretaria con l'interfono.
Sylvie - così si chiamava la moretta - portò le carte da firmare e si allontanò con un piacevole dondolio del tessuto morbido della gonna nera, che era appena un po' più alta delle splendide ginocchia; quanto bastava per portare alle stelle il morale già alto di Rivera.
Pensava ai soldi. Tanti soldi quanti non ne aveva visti dall'inizio della sua carriera. Aveva una bella faccia, infine; bella anche con la barba da cattivo.
«Ah, dimenticavo. Lo dico solo per scrupolo, tanto lo so che non c'è problema... Ci saranno degli inseguimenti, nel film, e tu dovrai guidare. Tu hai la patente in ordine, è vero mio caro?»
Le parole di Larsan erano come spilli, che bucavano lucenti bolle di sapone.
Santarelli guardò Divera, di nuovo con l'espressione di chi si aspetta una fregatura. Divera esitò con la penna biro rimasta a sollevata.
«Veramente io la patente non ce l'ho... Non ho mai guidato una macchina», confessò l'aspirante killer professionista, con una certa dose d'imbarazzo.
Larsan aggrottò la frotte, in maniera molto plateale. «Ah. C'est dommage. È un peccato...»
«Aspetta, aspetta», intervenne prontamente Santarelli. «In queste scene, il killer.... è in macchina da solo?»
Larsan aggrottò la fronte, di nuovo. «Solo? Un moment... In effetti i killer sono due: uno spagnolo, Porfirio, ed un tedesco, Klaus.» Larsan fece una smorfia. «Klaus! Che nome senza fantasia. Non vedo perché non possa guidare la macchina Klaus, invece di Porfirio.»
«Infatti, infatti», disse Santarelli, annuendo per dargli ragione.
Larsan sorrise e strizzò l'occhio a Carlos. «E poi lasciamo fare a questi tedeschi saputelli, i lavori di alta specializzazione!»

***

Lavorare con Klaus, il killer tedesco, si rivelò meno piacevole di quanto Divera immaginava.
In realtà il tedesco si chiamava Helmut Hofer, o quanto meno questo era il suo nome di attore cinematografico, ma per entrare meglio nella parte e per comodità reciproca sia Carlos che Helmut presero l'abitudine di chiamarsi anche fuori scena Porfirio e Klaus.
Klaus non era un tipo loquace, e fin qui niente di male, visto che neanche Porfirio era un chiacchierone. Però il tedesco non sorrideva e non cambiava mai espressione, e questo per Porfirio era fastidioso, perché al contrario lui sorrideva spesso, soprattutto se incrociava con lo sguardo una bella figliola. E durante le riprese capitava di vederne molte, soprattutto fra le truccatrici e le comparse.
Inutilmente Porfirio faceva segno al collega in direzione di una di queste ragazze e sorrideva: Klaus si girava sempre troppo tardi, oppure guardava nella direzione errata. E quando ci azzeccava fissava la ragazza in un modo tale che non sembrava più tanto bella neanche a Porfirio; insomma, sembrava dire senza dirlo: «Tutto qui?»
Inoltre Klaus era un pezzo di Marcantonio più alto di un metro ed ottantacinque: dieci centimetri abbondanti più di Porfirio.
Quest'ultimo aveva preso l'abitudine di stare sempre con la schiena eretta, per non sfigurare troppo, e questo sforzo continuato gli stava facendo venire il mal di schiena.
Il peggio fu durante la scena dell'annegamento. Dovevano tirarli fuori tutti e due dall'acqua ed adagiarli sul pontile, e quindi erano bagnati dalla testa ai piedi. Poiché erano stati uccisi in una sparatoria, morti stecchiti, dovevano rimanere immobili per lunghissimi minuti.
A Marsiglia era autunno pieno e non si può dire che non tirasse una certa arietta. Sdraiato in terra e zuppo fino al midollo, Porfirio sentiva freddo e ancora più freddo sentiva quando arrivarono al terzo ciak.
«Cazzo che freddo», disse, con tanto di asciugamano e di cappuccio che lo coprivano dalle intemperie. Attendeva di ripetere la scena per accontentare il regista, che era un perfezionista, e quindi dicendo «Cazzo che freddo» ad alta voce pensava di trovare l'appoggio del suo collega, bagnato e conciato allo stesso modo. Invece Klaus dichiarò: «Io non ho freddo», senza nemmeno guardarlo in faccia, e così grande e grosso e indifferente a tutto a Porfirio sembrò davvero un killer ariano e privo di sentimenti, tanto che quasi gli dispiacque di non star recitando nel film "Les combattants"; almeno lì si sarebbe sfogato a fare fuori crucchi come mosche, e Klaus avrebbe fatto la fine che si meritava.

***

E venne il momento di girare la prima scena in auto. Porfirio si piazzò davanti, al posto del passeggero, e Klaus si sedette accanto a lui, al posto di guida.
Era una scena in cui i due killer dovevano seguire la macchina di un tipo mingherlino che sapeva troppe cose, e non era previsto che andassero a più di quaranta all'ora.
Mancava un po' all'azione, e dopo aver abbassato la leva del freno a mano Klaus giocherellava con un nervosismo insolito con la leva del cambio e con la frizione.
Il motore della Renault girava al minimo e senza scosse, ma nonostante questo sembrava che non fosse affatto facile spostare la leva delle marce dalla posizione iniziale di folle a quella di partenza. Infatti si sentì grattare e Klaus borbottò qualcosa che non sembrava una barzelletta allegra.
«Non entrano le marce?», si informò Porfirio, con aria vaga.
«Nein», confermò il tedesco, con sguardo concentrato e truce.
«Prova a schiacciare la frizione in fondo e poi metti la prima marcia, tutto a sinistra e avanti», consigliò Porfirio, indicando con la mano sinistra la leva del cambio. «A questo punto molla piano la frizione e premi con il piede destro l'acceleratore.»
Klaus grugnì, mentre delle piccole perle di sudore gli luccicavano intorno alla fronte vasta. La macchina sobbalzò un pochino, ma non si spense ed avanzò per due metri buoni.
«Così va bene», approvò Porfirio, e Klaus disse semplicemente: «Ja

***

Insomma, saltò fuori che neppure Klaus sapeva guidare le automobili. Porfirio invece, dal giorno della firma del contratto, si era informato il più possibile sulla teoria, stampandosi bene in mente tutte le informazioni basilari. Per cui non disse niente al tedesco riguardo alle proprie lacune in campo pratico e invece gli chiese: «E come è andata quando hai saputo che in questo film avresti dovuto guidare una macchina?»
Klaus si era fatto più cordiale e umano, da quando era saltata fuori la sua debolezza. «Ach, che potevo fare? Mi hanno spiegato che avevano già rifiutato un altro attore, un italiano, perché non aveva la patente di guida. Io non volevo perdere la parte perché mi sono separato da mia moglie e mi servono parecchi soldi, per l'avvocato.»
«E allora?», insisté Porfirio.
«E allora gli ho detto che sapevo guidare, certo, e mi sono fatto prestare la patente da mio fratello Hans. Ho fatto la fotocopia ed ho cambiato il nome Hans con Helmut, poi ho dato il foglio alla produzione e loro non hanno detto niente... Ci assomigliamo molto, io e Hans.»
«Ingegnoso», approvò Porfirio, con espressione seria.
«Tutto per colpa di quello stupido italiano... Se non era per lui, io adesso sarei seduto comodo al tuo posto», continuò il tedesco, guardando il suo collega con gli occhi azzurri e troppo chiari.
Soltanto Santarelli e monsieur Larsan sapevano che Carlos Divera aveva il doppio passaporto, venezuelano ed italiano. Per tutti gli altri era uno spagnolo e basta, esattamente come il killer che impersonava in questo film. Così Porfirio sostenne il peso del sospetto e disse senza la minima incertezza: «Già. Sono tutti stupidi gli italiani... Mica come i tedeschi e gli spagnoli.»
Ad Helmut Hofer piacque la battuta, e rise come poteva ridere un killer tedesco privo d'umorismo, scandendo per tre volte esatte, in modo meccanico: «Ha!-ha!-ha!»

***

Dormì molto bene, Divera, quella notte. Contento di aver fatto sudare freddo a quel grosso bestione ariano e di avergli fatto credere di essere un guidatore esperto, più bravo di lui.
L'aveva fregato e aveva fregato i suoi sospetti. Così sorrise come un ragazzino, mentre dormiva pancia all'aria e gli occhi chiusi nella sua camera d'albergo al terzo piano.
Perché Divera era fatto così.

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