Come al solito lo avevano rifilato a me, un bel ragazzino, Giovanni, quindici anni, trovato alla stazione, scappato di casa. Ero la poliziotta dei casi umani.
Alzava le spalle scuoteva la testa, il volto rigato di lacrime, non ti guardava negli occhi, sulla difensiva come un prigioniero tra i nemici. Dopo una mezz'ora di moine e un cappuccino con cornetto preso al bar, fuori del commissariato di via Labicana, che è sempre una buona tattica farli uscire, ero riuscita a chiudere i rubinetti degli occhi e a fargli pronunciare una frase di senso compiuto.
«A Sonnino non ce vòglio i!»
Come pipernese capivo benissimo quello che diceva, Sonnino e Priverno erano città vicine e legate da contrasti di campanile, non proprio come Pisa e Livorno, ma quasi. Solo che quell'uscita per cui avevo tanto macchinato era curiosa, non stava nel personaggio. Era pulito, ben nutrito, zainetto griffato, certo scolarizzato, l'uso del dialetto non poteva significare che non sapeva parlare altro, doveva avere una sia pur incompleta competenza in italiano.
M'ero diplomata all'istituto magistrale prima di entrare in Polizia e queste cose, assieme a tante altre, le capivo; per questo i bambini li affidavano a me, di preferenza.
Aveva gradito il cappuccino, anche perché, allungando un po' verso piazza S. Clemente, l'avevo portato al mio bar preferito, uno dei più buoni di Roma, con il cacao spruzzato a volontà ed il cuore disegnato dal principale nella schiuma. Un po' di schiuma gli era rimasta sul labbro superiore, dove c'era qualche peluccio che anticipava i baffi.
«Allora Giovanni, mi dici qualcosa di te?»
Alzò ancora le spalle. «Non tenco niente da ditte, lassame perde ca vòglio sta' sulo.»
«Se stavi da solo non ti prendevi il cappuccino assieme con me...» gli ricordai. «Perché sei scappato di casa? I tuoi genitori erano disperati...»
«So scappato perché m'avo fatto vedé 'na cosa pe' n'etra!»
«Chi ti aveva fatto vedere una cosa per un'altra? Che cosa è successo di così grave? Ora dovremmo riportarti a casa, sai?»
«A Sonnino non ce vòglio i!»
Partii con la predica ordinaria. «Ma come, non vuoi tornare nella tua città, dai tuoi genitori, non vuoi bene ai tuoi genitori?Sono sicura che se gli dici quello che ti è successo ti possono aiutare. Hanno detto che ti perdonano e che non vedono l'ora di riabbracciarti!»
«A Sonnino non ce vòglio i! Tu si' brava ma lassame perde vòglio sta sulo.»
Il sole e la bella giornata mi convinsero a continuare l'interrogatorio all'aperto, un altro po' di passi ed eravamo in vista del Colosseo. «Solo! Ma stai tanto male insieme a me? Ti sono proprio antipatica? Adesso ti porto a fare una passeggiatina qui attorno, che ti faccio vedere il Colosseo. Lo hai visto mai l'Anfitreatro Flavio?»
«Certo. Con la scuola... Siamo venuti in gita scolastica l'altr'anno.»
La scuola gli aveva fatto scattare in automatico di esprimersi in italiano. Lo sapevo che doveva parlar bene italiano, lo sapevo. Lo presi per mano, un po' per seduzione, un po' per evitare di doverlo rincorrere, se mi faceva qualche scherzo.
«Ti posso accompagnare io da loro, o far venire i tuoi genitori ed aspettare con te fino a che vengono a riprenderti.»
«Non li si' ancora avvisati?»
«Li abbiamo avvisati, procedura standard, ma prima di riconsegnarti, volevamo un po' sapere da te come stavano le cose...»
Camminammo per un po' silenziosi, mentre ci rimuginava sopra. Eravamo arrivati a piazza del Colosseo e continuai ad avvicinarmi con lui al monumento.
«Va be' te lo tengo propeta a dì, così la smitte da stamme appresso! Sta cosa ha cominciato alla scola.»
Avevamo fatto un passo indietro con la lingua! «Scusami Giovanni ma io sono del Nord Italia,» mentii, «non ti capisco bene quando parli in dialetto...»
Alzò per l'ultima volta le spalle. «La prof di latino e greco ci rompeva sempre coi pedofili, di stare attenti, mancava solo dicesse di non prendere caramelle dagli sconosciuti, se mi spiego!»
Mi allertai, naturalmente, era la solita storia? Ma no, non era la solita storia, stavolta.
«Poi venne anche a romperci le scatole l'insegnante di educazione fisica...»
«Col problema dei pedofili?»
«No, lui con un'altra fissazione, il doping, che nessuno di noi sapeva manco che era! La scuola, diceva, può e deve far molto per aiutare lo sport a liberarsi dalle sue patologie. La Berti, che dell'educazione fisica e dello sport non gliene poteva frega' de meno era d'accordo. Ma lei col Màntili, il professore di educazione fisica, ciaveva il tira-tira... Lui, se mi spiego, ci metteva la sostanza dei fatti, le parole e il resto ce le metteva lei.»
«Che diceva, te lo ricordi?»
«Certo ho pure la memoria fotografica io! La scuola, se mi spiego, sarebbe testimonianza che lo sport è gioia di muoversi, di stare con gli altri e misurarsi, disse una volta, e lo sport non può essere inganno. Una volta, mi ricordo bene, diceva più o meno che noi andavamo sostenuti, informati e difesi.»
«Certo, perché la scuola ha una responsabilità educativa complessiva nei vostri confronti.»
Mi guardò perplesso. «Tu queste cose di doping le sai?»
Me ne intendevo di doping, in quanto avevo partecipato a Foggia al sequestro, tra l'altro, di 22.000 pasticche di anabolizzanti e alle indagini per l'individuazione dei laboratori medici dove si confezionavano quei preziosi medicinali. Bel problemino. I nostri esperti della polizia avevano calcolato che la spesa italiana per i farmaci con valenza doping è valutabile attorno ai 1.300 miliardi di lire, senza contare che bisognerebbe aggiungere l'enorme volume di vendita degli integratori, in particolare degli aminoacidi a catena ramificata e della creatina, che valutavano in almeno 3000 miliardi di lire. «Un po'. È sempre compito nostro... Qualcuno ne prendiamo, sono come gli spacciatori di droga...»
«Insomma, batti e ribatti, avevo capito che tra scuola e doping c'era la guerra, che il doping era contrario alla nostra salute e, ci poteva pure costare la vita. Màntili diceva che col doping le competizioni sportive diventano frodi organizzate, e che, se mi spiego, co' le pasticche e le iniezioni anche lo sport amatoriale e quello studentesco vanno a puttane.»
«Diventano diseducativi, perdono tutto il carattere etico e istruttivo.»
«A me, se mi spiego, non piacciono le iniezioni...»
«Ma anche nello sport delle scuole è comparso il doping?» stavolta avevo chiesto proprio per sapere, non per fare conversazione.
Mi guardò superiore. «E perché Màntili era tanto avvelenato? Ci ha detto, ha trovato ricerche che dicono che il sette per cento di noi si dopa allegramente!»
«Il sette per cento!»
«Già. Ma quel che è peggio, un suo ragazzo s'è ammalato ed hanno scoperto che l'allenatore dove i genitori lo mandavano a fare sport, fuori della scuola, a Latina, perché a scuola avevano chiesto l'esenzione, lo riempiva di roba.»
«Màntili l'aveva preso per un fatto personale» commentai. Succede così quando qualcosa di brutto ti tocca da vicino e ti trovi disarmato, impotente.
«Era stato tanto male, il ragazzo, dico, ed anche Màntili, credo... Vedi, se mi spiego, a me non importa tanto che doparsi o 'integrarsi' è sbagliato, non va bene... è che ci si ammala e si muore pure!»
Ritenni opportuno rafforzare il lavoro di quei volenterosi insegnanti. «Certo. Tutti dovrebbero sapere che i farmaci, se non curano la salute, la danneggiano! E poi, per doparsi, si collabora con dei veri delinquenti!»
Annuì, era stato convinto, in fondo. «La Berti aiutava come poteva. Màntili. Ci diceva le cose di oggi, lei, se mi spiego, che la frode nello sport è antica quanto lo sport,. Ci raccontava le cose dell'antichità, che il doping e l'inganno c'erano sempre stati, che all'epoca della guerra di Troia nei giochi si potevano fare trucchi, scorrettezze, sabotaggi.»
«Questo proprio non lo sapevo» mi finsi interessata. «Ma che facevano?»
«Sapessi nell'Iliade, ai giochi funebri per Patroclo, c'è una corsa dei carri, col figlio di Nestore che fa di tutto per superare Menelao in curva! Una cosa che a rileggerla pare di stare alla telecronaca delle gare automobilistiche di Formula 1!»
«Va bene, ma il doping?»
«Era magico, se mi spiego. Doping per intervento divino, gli dei aiutavano i loro protetti, gli davano forza e agilità, li facevano nuovi nuovi!Ora Màntili era sicuro che prima o poi qualcuno ce lo avrebbe proposto, e guardava proprio me che faccio un buon tempo nei cento e nei duecento, e me la cavo anche nel salto in lungo!» Un pizzico di orgoglio era passato nei suoi occhi, subito spento. «Ma a te che sei della polizia, ti risulta davvero che 'sta cosa si diffonde, che, se mi spiego, tutti lo fanno e si dopano, grandi campioni come Pantani e dilettanti?»
«Io so che le droghe basate sull'eritropoietina rappresentano una delle più grandi vendite di medicine in Europa, non per curare le persone malate, ma per far ammalare persone sane. Sono dati statistici e le statistiche non mentono. Come pure è aumentata la vendita di steroidi e particolarmente dell'ormone della crescita, pure se non sono aumentate le malattie che dovrebbero curare. Non c'è una diffusione imprevista di nanismo in atto.»
«Eccola là! I dottori che ci dovrebbero curare, eh? Gli scienziati!»
Lo guardai intenerita, era un ragazzino intelligente, Giovanni di Sonnino, e si sentiva tradito dal mondo degli adulti, dal nostro mondo che non riuscivamo a pulire, a rendere presentabile. «Che vuoi fare, Giovanni! La scienza era entrata nello sport per studiare il fenomeno, per affinare e potenziare le capacità atletiche, le performance, ma soprattutto per garantire la salute e salvare l'atleta dagli eccessi, ma poi i soldi e la corruzione hanno cambiato tutto. Il contributo della scienza e della tecnologia è diventato artifizio e raggiro.»
«Ma perché?»
Dovevo dirgli un po' come andavano le cose, tanto l'aveva evidentemente scoperto da solo. «Sai come succede, chi paga comanda e gli scienziati, finanziati dalle organizzazioni dello sport, hanno giurato fedeltà ai loro esclusivi interessi, interessi criminosi, si sono concentrati nel compito di migliorare a tutti i costi le prestazioni, fino a strumentalizzare gli atleti per sfruttarne fino agli estremi limiti le possibilità, per ottenere il record, il risultato, il fatturato.»
«Màntili dice che medici e scienziati vogliono far diventare il nostro corpo un laboratorio chimico, poi, se mi spiego, quello che succede, succede! E succedono guai alla salute... Guarda, mi sono portato un po' di cose» frugò nello zainetto, «questo è un appunto che ci hanno fatto scrivere la Berti e Màntili.»
Lessi quel pezzo di foglio protocollo «L'eritropoietina (epo) si assume per aumentare il numero dei globuli rossi circolanti e quindi l'ossigeno, con conseguente aumento della performance sportiva; i suoi effetti collaterali sono l'aumento del rischio di trombosi, infarto del miocardio, ictus, aumento della pressione arteriosa, danni renali, reazioni allergiche, shock. L'ormone somatotropo, o ormone della crescita, si assume perché è un potente anabolizzante e aumenta le masse muscolari, ed aumenta inoltre il consumo dei grassi a fini energetici e risparmia gli zuccheri; i suoi effetti collaterali sono l'aumento della ritenzione idrica e del rischio di produrre malattia diabetica, gigantismo, disturbi della coordinazione.»
«Mio nonno è morto per infarto, mio zio ha avuto un ictus e cià il diabete... papà deve prendere tutti i giorni una pasticchetta per la pressione, se no può morire, ma finché la prende sta a posto. Io, se mi spiego, le pasticchette se non sto male non voglio prenderle...»
«Ma certo, non le devi prendere queste cose! Qualcuno te l'ha proposto?»
«Io facevo lezione con Màntili, ma facevo anche atletica a Terracina e l'allenatore...»
«Faceva prendere il doping?»
«Che ne so? Certo, se mi spiego, ce lo diceva spesso che ci dovevamo aiutare se volevamo combinare qualcosa. Integratori e basta, però, niente che facesse male, certe pasticchette gialle ed altre capsule rosso sangue che, diceva sono innocue e fanno veramente bene.»
«Fanno bene a che cosa?»
«Vito le ha prese e diceva così che lo facevano sentir bene, in gamba, mai stanco, se mi spiego, in forma, forte come un toro.»
«E tu?»
«Non le prendevo. Per prudenza, Màntili ci aveva allarmato, che si comincia con le vitamine e poi non si sa dove si arriva. Così l'allenatore mi aveva preso sott'occhio... non so perché mi andava contro qualsiasi cosa facessi. E io avevo cominciato a correr male e lui mi sfotteva ed anche qualcuno degli altri... A nessuno frega niente di imbrogliare se ti arrivano i soldi e sei famoso. E neanche ai tifosi, mi sa, gli importa tanto se gli atleti si gonfiano i muscoli... e se poi si sentono male!»
Indicai il Colosseo scuro che ci sovrastava. «Una volta qui c'erano i gladiatori, i Romani si divertivano a vederli combattere e morire. Forse i tempi non sono tanto cambiati. La gente vuole solo vedere qualcosa di emozionante e che la sua squadra, o il campione vinca, su come questo succede chiude gli occhi...» m'accorsi che avevo fatto più la maestra che la poliziotta, cercai di tornare all'interrogatorio. «Così, alla fine hai ceduto...»
Si fermò e si girò verso di me, cocciuto. «Ma neanche per sogno! Così alla fine sono andato da mamma e, se mi spiego, gli ho detto che non volevo più andare ad atletica.»
«Bravo!Sei un ragazzo con la testa sul collo, Bravissimo!»
Mi guardò con aria di sufficienza e con gli occhi gonfi di lacrime. «Bravo, eh? Questo è successo sabato e sai cosa mi ha detto mamma? Che ero una promessa, che non potevo abbandonare, che sarei stato selezionato, che avrei guadagnato un sacco di soldi e sarei diventato famoso, con le mie capacità atletiche... solo che mi dovevano aiutare se volevamo combinare qualcosa, io e lei, capisci? Vitamine, come se mangiassi più verdura; altra roba, come se mangiassi più carne... Integratori e basta, però, niente che facesse male, cose che sono innocue e fanno veramente bene. Mi fa vedere le pasticchette gialle e le altre capsule rosso sangue, la roba che conoscevo, e io capisco che ha parlato con l'allenatore. Che è d'accordo.»
Dallo zainetto trasse un grosso flacone pieno di pasticche gialle e capsule rosse e me lo agitò sotto il naso. Su un'etichetta, scritta a mano c'erano le parole "Integratori e vitamine". Ora piangeva e io quasi non riuscivo a parlare. L'improvvisa evoluzione del racconto mi aveva gelato. «E tu che hai fatto, allora?»
«Che dovevo fare? Ho detto che ci avrei pensato, poi quando è andata a letto ho fatto la borsa, ho rotto il salvadanaio, gli ho preso i soldi dal borsellino e sono scappato. M'hanno trovato alla stazione i poliziotti che girano per gli attentati e m'hanno portato in commissariato. Cercavo un treno per Milano, che non costasse tanto. Voglio andare da Spillo, che sta in Lombardia, a vedere se mi aiuta, ma senza doping. Una volta ci ho parlato, non so se mi spiego, mi conosce.»
Lo guardavo mentre un po' della sua disperazione mi montava dentro. Spillo era Altobelli, il calciatore dei mondiali. Ebbi un lampo di memoria, io che di calcio mi interesso poco: è vero, era nativo di Sonnino, doveva essere un mito per il mio Giovanni.
Stavamo dalle parti dell'Arco di Costantino, gli avevo pure lasciato la mano quando alle spalle ci arriva uno con un vespone, ci aggira, gli si ferma davanti e gli strappa di mano zainetto e flacone. Prima che potessi fare qualcosa di decente era ripartito sgommando. Sospirai sentendomi ancora più impotente e debole, ma Giovanni non era debole e non si sentiva ancora del tutto impotente. Scattò come un fulmine dietro allo scippatore e per qualche metro mi sembrò un inseguimento senza speranza, uomo contro motore, poi il vespone dovette rallentare un attimo per evitare una Smart e il mio giovane atleta con uno scatto irresistibile lo raggiunse. Lo afferrò alle spalle per il giubbetto, strappandolo via a forza dal vespone che continuò per qualche metro la corsa poi rotolò in posizione orizzontale.
Quando arrivai Giovanni aveva recuperato il suo flacone, lo zainetto era per terra e il piccolo delinquente era scappato abbandonando la moto umiliata. Era sicuramente roba rubata.
«Corri davvero forte, eh?» gli dissi ammirata.
Alzò le spalle. «Cheste le tenga fa' vede' a Spillo »spiegò. Non ansimava nemmeno troppo.
Quella scena d'azione m'aveva, in fondo, rianimato, e pure la corsa pulita di Giovanni. La testa da poliziotta cominciò a ragionare. Avevo avvertito i genitori, solo i genitori, ci voleva poco a capire da che parte veniva quel tentativo di eliminare le prove dei crimini che evidentemente si compivano alla palestra di Terracina. C'era da sentirsi di nuovo impotente e abbattuta. La madre doveva aver avvertito l'allenatore. Forse aveva già preso qualche anticipo sui guadagni futuri del figlio. Aveva forse genitori che non si meritava, Giovanni... ebbi un altro momento di scoramento, ma fu un attimo, poi mi aggiustai la gonna e giacca della divisa e rialzai la testa. A pensarci, me n'erano capitate di peggio da quando ero in polizia.
«Senti, Berruti» ma forse Berruti non lo conosceva, «senti, Mennea, torniamo indietro e facciamo qualcosa di sensato. Io non ti posso lasciar andare alla ventura da Altobelli, che avrà le sue cose da fare e non è detto che si possa occupare di te, che sei un minore. Non so, vediamo dopo di contattarlo, gli telefono io, te lo prometto... ma che ne dici se faccio una telefonata a quei tuoi professori...?»
«La Berti e Màntili?»
La Berti, Màntili ed io, qualcuno doveva pur far fronte alla situazione. «Sì. Magari vengono a prenderti loro per portarti a casa.»
«Quelli vengono» sorrise malizioso, «non so se mi spiego, si fanno un viaggetto insieme...»
«Sicuro che vengono, perché tu gli interessi e ti vogliono bene. E invece quando arriva mamma tua qui, ci faccio io un discorsetto. Magari certe cose non le capisce bene, purtroppo sul doping le informazioni circolano poco! Sentiamo pure che ne pensa papà... C'è quasi una omertà su questo flagello. La gente non lo sa, non capisce fin dove si può arrivare. Le possiamo esaminare anche noi, queste vitamine... Ti prometto che nessuno ti farà mai le iniezioni di doping, Giovanni, te lo prometto!»
Mi prese lui per mano e si diresse verso via Labicana, da dove eravamo venuti. Non era tanto convinto dell'innocenza della madre, ma si fidava abbastanza di me. Con la botta che aveva preso era un miracolo si fidasse ancora di qualcuno. Dovevamo sicuramente dare un'occhiata alla palestra di quell'allenatore tanto svelto con integratori e pasticche colorate, che conosceva gente a Roma capace di mobilitare in fretta e furia uno scippatore. L'orgoglio del lavoro che facevo mi rianimò per qualche secondo. Forse ne avremmo salvato più d'uno di giovane atleta.
Camminammo in silenzio. Lo so che, ora, non dovrei dirlo, le solite cose da donne, ma mentre tornavo al commissariato, con Giovanni sottobraccio e lo vedevo che procedeva accanto a me pensando a quello che gli era successo, avvilito e deluso, mi scappò di piangere.


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