Recensioni e commenti di saggi

a cura di PierLuigi Albini

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PierLuigi Albini
Pallottino   

Paola Pallottino - Storia dell'illustrazione italiana

VoLo
Anno 2010
Pagine 515

È una sfida difficile quella di recensire in poco spazio un libro così storicamente ampio. Cinque secoli di immagini riprodotte è il sottotitolo dell'opera: una riedizione ben più estesa e iconograficamente ricca di quella del 1988. Ma non si tratta solo di un problema temporale. L'autrice passa in rassegna una straordinaria galleria di artisti, scrittori, tipografi, illustratori, vignettisti, disegnatori spesso dotati di titoli accademici e più spesso autodidatti straordinari che hanno educato e trasmesso al pubblico un gusto estetico che ha registrato e talvolta anticipato i mutamenti del costume in questi secoli. Una miniera di informazioni non solo biografiche, ma relative alla nascita e all'evoluzione del libro, delle tecniche di stampa e di riproduzione, delle prime gazzette e poi delle riviste, dei libri per l'infanzia, della satira e dei periodici. Completano lo sforzo veramente ammirevole dell'autrice sintetici inquadramenti storici e la spiegazione delle tecniche che si sono succedute nel tempo, nonché considerazioni più generali di estetica.
Ne esce un quadro straordinario della storia dell'illustrazione, una festa anche per gli occhi. Tanto che scorrendo il testo e seguendo le pur abbondanti riproduzioni (penso che non si potesse fare di più) al lettore verrebbe voglia di avere a disposizione tutte le edizioni illustrate, i disegni, le stampe che si succedono nel racconto di Pallottino, così da vedere distendersi sotto i propri occhi, come in una lunga pellicola, lo svolgimento della storia civile del nostro Paese. E di avere la possibilità di sentire l'odore degli inchiostri e di sentire al tatto le rugosità della carta. Perché una delle conclusioni a cui si arriva con la lettura di questa opera (la chiamo opera, non solo libro o testo), è che il mutamento dei gusti e delle tendenze anche profonde di una società sono più immediatamente percepibili in queste forme di arte e di comunicazione che in altri domini artistici. Qui, poi, artista e artigiano hanno continuato a lavorare insieme, spesso coincidendo nella stessa persona, e forse è anche per questo che c'è una minore distanza tra una generica opinione pubblica e gli stili espressi nel tempo dalle illustrazioni.
Chiunque, poi (grazie all'età ormai un po' tarda), abbia avuto la fortuna di leggere l'edizione per ragazzi de La scala d'oro proverà l'emozione avuta nell'infanzia di una precoce introduzione alle saghe nordiche e ai poemi omerici. Servirono anche come introduzione alla più tarda scoperta dei classici, ritrovando in essi una certa aria di famiglia. Dobbiamo ringraziare il Settecento dei Lumi per questo; non perché La scala d'oro sia stata ovviamente pensata e stampata in quel tempo, ma perché – come ci ricorda l'autrice – l'invenzione dell'infanzia avvenne allora, con tutto il successivo corredo di opere letterarie e di illustrazioni dedicate. Prima i bambini erano in pratica considerati delle non-persone.
L'avvento della fotografia (e della fotoincisione) sconvolse tutte le arti figurative, dalla pittura all'illustrazione, inaugurando uno scambio dei linguaggi che ha segnato in profondità l'arte contemporanea. Fino a quello che l'autrice definisce un Rinascimento dell'illustrazione nel Novecento. Dai Livres des Peintres contenenti illustrazioni di pittori di prima grandezza all'esplosione della stampa periodica, quel secolo è stato davvero un tumultuoso levatore di innovazioni grafiche ed espressive, fino alle soglie di un'altra rivoluzione, quella digitale, che rimane ancora fuori dell'orizzonte temporale trattato della Storia dell'illustrazione. Un augurio per una nuova fatica dell'autrice?

Copertina   

Stefano Chiodi (a cura di) – Marcel Duchamp, critica biografia mito

Electa
Anno 2009
Pagine 287

Ottima raccolta di saggi sull'artista e di sue interviste pubblicati in varie epoche al termine della cui lettura non è però detto che avrete penetrato davvero la fitta nebbia interpretativa che avvolge l'opera di Duchamp (e la sua vita). Il fatto è che le chiavi di lettura dei diversi saggi ovviamente non sono omogenee e qualcuna insiste un po' troppo sulla psicoanalisi. A ciò si aggiunge che Duchamp amava essere sfuggente e paradossale, contraddicendosi anche volentieri. Perciò, di quello che secondo molti è stato il più eversivo artista del Novecento, quello che ha dato la prima picconata all'edificio delle belle arti, inaugurando l'arte non-arte, alla fine rimane un'aura quasi impalpabile. Certo, se si concentra l'attenzione sui due capolavori dell'artista, il Nu descendant un escalier e la straordinaria Grande Verre, la complessità della loro interpretazione e la loro bellezza, specialmente della seconda opera, cancellano dalla mente dello spettatore qualsiasi dubbio sulla grandezza di Duchamp.
Per la Grande Verre, i saggi di George Hamilton e di Jean Clair sono le più efficaci guide per penetrare un capolavoro sublimato dell'erotismo moderno, al confine con la fisica più suggestiva e la geometria più astratta. Non è un mistero che il soggetto del quadro sia stato suggerito a Duchamp dalla sua frequentazione con testi che parlavano della quarta dimensione: "tutto questo bolliva nella mia testa quando lavoravo" – ha dichiarato l'artista.
Duchamp è stato un maestro dello spaesamento, del deragliamento, del détournement dello spettatore davanti all'opera d'arte. Solo che lui ha anche trasposto lo spaesamento dello spettatore dal contenuto/forma/colore dell'opera (pensiamo ai Fauves e agli Espressionisti) al luogo deputato all'arte: che ci fa una ruota di bicicletta, un ready-made, in un museo? Mette a nudo l'arte in quanto feticcio.
Duchamp reagiva alle vita moderna, fatta di macchine e di tecnologia sempre più pervasiva. Osserva il curatore del libro che "se l'opera di Duchamp è la risposta allo choc della rivelazione della potenza e della bellezza della macchina, questa risposta non potrà che fare i conti d'altro canto con la sua potenza di riproduzione e dunque con la crisi irreversibile della plurimillenaria modalità simbolica incarnata dalla pittura" […].
L'universo biomeccanomorfo di Duchamp, ha osservato Jean Clair, fuoriesce completamente dai tentativi delle Avanguardie si rappresentare in modo diverso il mondo moderno, così diverso da ogni altra epoca. Il Futuristi, per esempio, sono pure sempre rimasti prigionieri "di un naturalismo modernista". Duchamp, invece, ha capito che le tecnologie non erano un'aggiunta più potente del passato alla strumentazione delle civiltà, "questa nuova realtà tecnologica non è semplicemente un'aggiunta all'uomo naturale: essa lo muta radicalmente, crea forme inaudite. La macchina non è semplicemente una macchina che prolunga il corpo umano: essa diventa un innesto destinato a procreare organi mai ancora visti". Duchamp come precursore del cyberpunk e del post-human? Non esito a pensarlo.
Un libro da leggere, prima di vedere o rivedere qualche opera dell'artista.

Copertina   

Làszló Moholy-Nagy – Pittura Fotografia Film

Einaudi
Anno 2010
Pagine 149

Meritevole riedizione di un testo importante, capostipite delle riflessioni sui rapporti tra i domini dell'arte di cui al titolo, con una buona e esauriente introduzione di Antonio Somaini. Il quale ultimo annota infatti che "non è però solo la prima e più completa teorizzazione della fotografia moderna. È anche un'acuta riflessione sullo statuto dell'arte nell'epoca della riproduzione tecnica delle immagini e dei suoni, e su ciò che significa per l'arte essere veramente contemporanea rispetto alla cultura che la circonda". Ciò significa che, essendo cambiate nel Novecento (e tanto più oggi) la modalità di percezione rispetto al materiale e al modo di rappresentare, l'arte – secondo Moholy-Nagy – avrebbe dovuto elaborare gli strumenti per darle una risposta adeguata. Una prospettiva pienamente coerente con il meraviglioso tentativo del Bauhaus, di cui fu un esponente di spicco, non solo di conciliare arte e scienza (e tecnologia), ma di far convergere arte e industria in una diversa prospettiva di civiltà.
Insomma, la funzione dell'arte era "di mettere la tecnologia al servizio dell'uomo concepito nella sua unicità e organicità". Se vogliamo, depurato dalle tante disillusioni prodotte dal Novecento e da un'idealizzazione della macchina intesa solo come manufatto meccanico, si tratta di una straordinaria anticipazione di quella che viene oggi definita come la filosofia del post-umano o terza cultura.
Le esplorazioni compiute da Moholy-Nagy in un libro edito negli anni Venti del secolo scorso, ricco di immagini e stampato in una veste tipografica oggi inusuale ma di agile lettura, spaziano dalle proposte sperimentali ai problemi ottici, dall'estetica cinematografica e fotografica ai dispositivi tecnici, anche futuribili, mostrando straordinarie doti di preveggenza, come vedremo nella citazione finale. Tra l'altro, proprio il Bauhaus di Gropius (e con lui Moholy-Nagy e altri) promosse una delle più potenti esperienze di superamento della distinzione tra arte artigianato, di cui abbiamo parlato nella precedente recensione.
Le proposte e le riflessioni di Moholy-Nagy si soffermano in particolare sulla cinematografia di avanguardia e sulla sperimentazione di schermi non tradizionali. Peraltro, dobbiamo dire, anticipato dai futuristi Arnaldo Ginna e Bruno Corra, che avevano pensato a schermi rivestiti di carta d'argento e fosforescenti. Era la temperie dell'epoca con la produzione di pellicole da parte di artisti di avanguardia, come Duchamp (Anémic Cinéma), Fernand Léger (Ballet mécanique) e René Clair (Entr'acte, scritto da Francis Picabia).
Nel saggio non mancano riflessioni di carattere generale sull'arte, come questa definizione che comprende nelle sue radici fondamenti neurologici: "L'arte nasce quando l'espressione è ottimale. Vale a dire quando questa, nella sua massima intensità, è biologicamente radicata, finalizzata, univoca, pura".
L'arte è per l'autore uno stimolo all'adattamento percettivo: ristruttura la nostra percezione e i nostri circuiti cerebrali, come tutti i media, come scrisse decenni dopo Marshall McLuhan. Una funzione creativa che prelude a ciò che secondo Moholy-Nagy sarebbe avvenuto in seguito: "Gli uomini si uccidono gli uni con gli altri, non hanno ancora compreso come vivono e perché vivono; i politici non si accorgono che la terra è un'unità, ma si inventa il televisore (telehor): domani si potrà guardare nel cuore del prossimo, essere dovunque e nondimeno stare soli; si stampano libri, giornali, riviste illustrate a milioni. L'inequivocabilità del reale, del vero nella quotidianità, è avvertita da tutti i ceti. Lentamente si impone l'igiene dell'ottico, la salute del visivo".

arte   

Larry Shiner – L'invenzione dell'arte. Una storia culturale

Einaudi
Anno 2010
Pagine 458

Libro fondamentale, da consigliare a tutti coloro che si interrogano sull'arte e sui suoi significati. Tra l'altro, dimostra quanto sia necessaria una dimensione storica per capire il senso e le problematiche di pratiche artistiche e di criteri di giudizio oggi largamente diffusi. Anche nel caso della decostruzione dell'arte. Certo, in alcuni punti, l'autore forza talune interpretazioni storiche per dare ragione del modello interpretativo adottato. Ma, a parte il fatto che questo è un rischio di tutte le discipline storiche, le forzature non inficiano affatto l'impianto e lo sviluppo del saggio.
La tesi di fondo, peraltro niente affatto nuova, è che il concetto di Arte (con l'A maiuscola) ha cominciato a farsi strada nel Settecento, con la incipiente distinzione tra artista e artigiano. Mentre "la vecchia idea di arte conteneva sia le idee che furono annesse al concetto di belle arti, sia le idee che furono annesse al concetto opposto di artigiano". La rassegna storica che l'autore compie sulla formazione del moderno concetto di Arte approda a una suggestiva prospettiva interpretativa di quella contemporanea, contro coloro che amano parlare di morte dell'arte (così come del romanzo o della musica). L'esperienza contemporanea sembra invece chiudere la parentesi della modernità e delle estetiche nate nei precedenti tre secoli, per riconnettersi a una più antica nozione, in cui "l'idea di arte includeva ogni genere di oggetti o esecuzioni (destinati tanto all'uso quanto alla svago)". In altre parole, proprio l'ingresso nella sfera dell'arte (o il ritorno, se vogliamo) "di manufatti, scritti suoni e azioni tanto bizzarri nel novero delle belle arti" non rappresenterebbe una novità storica di cui scandalizzarsi, ma il ricupero di un approccio estetico in cui la separazione tra arti, mestieri e scienze operate dal Settecento in poi, si sta progressivamente riducendo. Forse le Avanguardie avevano ragione anche da un altro punto di vista, quello dell'aspirazione ad un'esperienza estetica totale che investisse il quotidiano.
Insomma, il concetto dell'arte per l'arte è stato del tutto sconosciuto nei secoli precedenti e la sua adozione ha, tra l'altro, prodotto esposizioni museali delle opere che "generano un colossale fraintendimento dell'arte antica". Il processo di separazione con la nascita del concetto di belle arti "con i suoi principi di piacere raffinato, di giudizio informato, non fu né una costruzione puramente intellettuale, né la semplice espressione di una effettiva suddivisione sociale", ma rappresentò l'una e l'altra esigenza. E proprio nel momento in cui l'industria, spinta dai ritrovati scientifici e ingegneristici, cominciava ad investire a metà del Settecento non solo il gusto ma il modo stesso di poter fare arte, prendeva corpo il tentativo accademico di ispirarsi al bello ideale per non cadere al livello della semplice meccanica. È in quel periodo che nasce la prima idea dell'arte per l'arte, che segnerà il vissuto personale della maggior parte degli artisti e l'aura che progressivamente la società colta stenderà intorno a loro. In questi secoli non sono mancati i tentativi, teorici e le pratiche artistiche, per riunire l'arte e il quotidiano (John Dewey, tra gli altri, fino all'arte anti-arte del Dada o del Bauhaus e al New Criticism, degli ultimi trent'anni del Novecento) e la parabola culminata con l'estetica dell'Ottocento, come esperienza separatrice dalla supposta assenza del sublime nella banalità della vita corrente e dei suoi prodotti, tende ormai a ridiscendere e a disegnare la linea di confine tra arte e artigianato, come è stato scritto, che è ormai divenuta tratteggiata. Anche se ancora non è chiaro "se i mezzi di comunicazione di massa abbiano eliminato, insieme all'aura dell'opera d'arte originale, anche l'aura dell'ideale di arte in sé".

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