Ora, Patonsio, che nel sangue la sudditanza recava scritta ad una voce alla quale disobbedire non è possibile – per quante deroghe la coscienza si sforzi di suggerire – e che per indole e amor proprξ, delle sollecitazioni verso la generica equinità era in grado di recepire unicamente la sezione riguardante le eventuali affinità – e soltanto quelle di natura fisica, per di più – con l'asino bardotto condotto dal poco di odor di casa che gli dura nel naso e dalla rimembranza alla stalla come vincolanti bussola e calamita...

***

Ma si sa fin toppo bene, – come disse il gran Bacone – quando vuolsi soddisfare desiderio di vendetta ed oramai è già deciso il sacrifizio d'innocente (sol perché questi è indifeso), molto facile è allora raccattare ramoscelli in cospicua quantità da ogni bosco presso cui s'aggirò il malcapitato e allestirgli un grande rogo dove poi sacrificarlo: il padrone s'avanzava, con quel legno orrendo e brutto, e la faccia di rabbioso come mai l'aveva visto, ed un fremito gli corse nella pelle raggricciata: s'impaurì, ebbe uno scarto – certo male interpretato da Peppino invelenito di paura e vano orgoglio – e gli zoccoli gli oppose, quasi l'animo a frenargli, a riparo delle botte pronte a piover sulla schiena...

***

...incendiato nelle viscere zuppe d'igneo carburante, essiccato nelle membra ingorde, da vivo ardore combusto nel muso paonazzo, liofilizzato nel cervello abbrutito, già divelta con mani cieche la bardatura e strappati i finimenti, fornì alla giumenta Gina, questa volta, – e in modo inequivocabile – una particolare imitazione – pari pari – pedissequa del summentovato quadrupede, senz'alcuno sforzo nel riprodurre accorati, strazianti ragli in luogo dei convenzionali gemiti di voluttà dell'uomo incapace di distinguere la parte divina e la parte ridicola della propria natura.

***

.... Non riuscì però a schivare, quel destriero in miniatura, quell'abbozzo di cavallo, il fendente rovinoso che una zampa gli tranciò; n'ebbe il gelo nelle ossa, un tremore orripilante che la voce gli spezzò: non potè perciò implorare la pietà al padrone ossesso, che nel braccio maledetto caricato avea oramai altra abietta pugnalata.
Scoccò il colpo quell'infame, bacio ultimo di morte alla bestia prediletta.
Murruzzièddu vide il lampo, percepì un sapore dolce che cresceva nella bocca ma non vide invece il ferro rovistargli nelle carni; poi uno squarcio largo ed osceno fece strada nel suo collo armonioso e "sempre al vento": l'impietosa scure vile divorò la gola tesa nello spasimo d'orrore.
Cadde al suolo Murruzzièddu, ma uno sguardo ancora aveva di pietà e disprezzo insieme per la villica ciurmaglia che osservava da vicino il calar definitivo della notte ingrata e fredda, nella ultima giornata della vita del ribelle, generoso mascalzone.
Quello sguardo fece il giro, tutt'intorno alla scoperta delle grida che sparivan, della plebe che fermava ogni gesto ed ogni offesa, del padrone inorridito e del bimbo che in ginocchio scagliò al cielo, come funebre orazione, uno strillo acuto e lungo...
Poi lo sguardo si fissò verso il cielo azzurro e bello.
Ma la vista più non c'era.

***

Tutto grondante e stordito, con le fiamme nello stomaco e l'arsura nella gola strappata dalle grida della battaglia appena conclusa con lo sgomento d'una sconfitta, d'un rovinoso annientamento, Patonsio galoppò via, a rotta di collo.
Via dal luogo del duplice sbaraglio, con l'animo dell'esecutore disperato e folle di un'empia strage che stia per rendersi conto della devastazione mandata inconsapevolmente ad effetto, e, dal rimorso oppresso, cerchi il suicidio come feroce espiazione – efficace lenimento alle lacerazioni cagionate dai morsi insopportabili della coscienza – nelle campagne disperdendosi con la fida lapa, che mansueta l'aveva atteso, senza giudicarlo, ad un ramo attaccata con una corda.
Sentieri e tracciati gli scorrevano alla vista come in un sogno crudele dal cui vortice non si riesca a spartirsi; per parecchie strade stregate si smarrì e mai più, anche in seguito, ne comprese l'inganno; visse terrificato una parallela esistenza il delirio d'alienato reo, di transfuga braccato dalla giustizia umana e soprannaturale e del genocida per isbaglio, in quella manciata d'ore serotine e notturne, nonostante reminiscenze popolari volessero prestargli scomputo ed abbuono, suggerendogli l'idea di un prezioso virile trofeo, d'un ricco bottino ottenuto dal conquistatore valente; ma sempre quest'idea veniva scoraggiata e atterrata da quella dell'espoliazione proditoria perpetrata dal turpe profanatore di sacri santuarξ o dall'infame stupratore d'un intero convitto di venerande vestali, di sante vergini, d'inviolabili innocenti.
Le tempie parevano voler esplodere per i fiotti di sangue che impetuosi accorrevano – fiumi ormai privi d'ogni argine, incontenibili demoni sturati – con l'evidente e legittima finalità di recidere il filo di quella sordida esistenza pervertita.

***

Senza saper come e per quali sconosciute vie, nel medio declinar della notte scellerata, ripervenne sul luogo del misfatto, e tutti i particolari gli si riaffacciarono nella mente scombussolata: Patonsio il razziatore li rinumerava per provarsi che non li aveva sognati, tuttavia la fantasticheria vellicando d'averli vissuti nell'immaginazione – esaltata – solamente.
Poi però spiava, a distanza prudente pressappoco, i finestroni della masseria e capiva, – sperando quasi d'intravvedere sana e salva l'adorabile figura che già in cuor suo (pur manchevole dei necessari titoli e anzianità) amava – che in quel rustico castello viveva davvero una stupenda principessa in carne – (ah... che carne!) – ed ossa – (oh... che ossa!) – e che lui, il miserabile, il cane lercio, l'immondo disonesto, l'aveva infangata, contaminata, disonorata, profanata, ancorché sollecitato a ciò.
Ma, ripercorrendo con la mente affaticata gli istanti fatidici, che sollecitazione era mai quella proveniente da una persona priva di sensi? Incapace di determinarsi intenzionalmente, visto – e Patò l'aveva imparato eccome! – il potenziale allucinogeno di quella droga liquida? Non fu – si diceva amareggiato – come prendere a timpulati27 uno legato, che non si può difendere? Bell'impresa! Che cosa da "uomini"! Che spirtìzza!28 « Affrùntiti cosu tìntu! »29 – si disse, più rancoroso verso la sorte indegna – che lo umiliava dispensandogli nutrimento virtuale, contraffatto, in luogo di pane vero, lievitato naturalmente – che verso se stesso, che compassionava di tutt'affetto.
Poco alla volta scorse sopra il suo cranio, ben oltre il ricovero della lapa – che ronfando nel sonno dei puri faceva le fusa – prima due o tre stelle, poi dieci o venti, indi, moderatamente confortato da quelle, che gli rivolgevano, pur lontane e comprese in una gelida calma, uno sguardo eterno e canzonatorio, forse per la prima volta avvertì il sentimento malinconico, severo, commosso e indulgente a un tempo, che la giovinezza stava volando via misurando l'ultima rincorsa e il balzo finale in quello spazio campestre asperso d'un sentor di terra umida, d'eucalipto e meliloti, d'animali e di villani – indizio affettuoso e triste di patria; infine rammentando – chissà da dove – che
« Chistu è 'u paisi d'o scunfuortu:
o cadi acqua o tira ventu o sona 'a muortu... »
perse il conto delle stelle ed esausto svenne nei sedili in similplastica, in ampi squarci sventrati dal sole, dall'usura e dal sudor negli anni mantecato.

***

Patonsio non aveva neanche mai pensato troppo, prima di quella notte, – e che bisogno c'era? – alle nuvole.
Svegliatosi, invece, le vide belle, ricche e generose come buoni angeli librarsi argentee a sottili strati, le vide bianche, delicate e pacifiche come anime di neonati che veleggiavano ridendo, come benedizione e dono di Dio.
Tristi e sognanti, le vide, in pallide altezze come malinconici anacoreti, librarsi fra il cielo e la terra come belle similitudini dell'umana nostalgia, all'uno e all'altra appartenenti, eterno simbolo del viaggiare, della ricerca, del desiderio e della nostalgia, e n'ebbe conforto e gioco agli occhi.
Ma era fanciullo, ignorante, così le vide, e non per questo comprese del tutto il suo pensiero e guardandole non sapeva che anche lui passerebbe attraverso la vita come una nuvola, dappertutto migrando forestiero sospeso fra il tempo e l'eternità.

***

Giorni passarono.
Appariva smargiasso. Anche da solo, sembrava voler dire, lasciar intendere, far capire che era uomo di mondo, che lunga, molto lunga, la sapeva, che la vita e le donne conosceva... poi in compagnia... ah!
Se un bicchierino gli offrivano, dispensava non richiesti consigli, anche nei momenti più inopportuni.
La gente pensava che i suoi atteggiamenti fossero dettati da nuova prosopopea figliata da una probabile frequentazione con donnine di malaffare di Modica o di Scicli.
La sera si sceglieva un posto in penombra e si sedeva a riflettere, cercando di raggiungere con la navicella dell'immaginazione la figura di lei, e allora un dolce brivido segreto percorreva la sua anima infantile.
Ben presto, però, quei momenti di gioia si davano alla fuga lasciando luogo al turbamento, procurandogli amaro dolore.
Credeva di poter comprendere quanto gli fosse estranea quella femmina, quanto poco o nulla lo conoscesse o potrebbe chiedere di lui.
Si rendeva conto insomma che la bella visione dei suoi sogni solamente un furto era, un furto alla beata persona di colei.
Quando questo preciso e tormentoso sentimento lo colpiva, proprio allora innanzi a sé vedeva la sua immagine, così viva e vera, che il cuore gli era invaso da un'onda oscura, e calda, che gli faceva male fin nelle serpentine più lontane.
Ritornava, di giorno, quell'onda, durante un'ora di minchiate o in mezzo a una discussione con altri manzi. Allora chiudeva gli occhi, si lasciava penzolare in un tiepido abisso, come impiccato, o annichilito e felice; finché si ridestava a un richiamo del branco o ad una calcagnata dello zio nello stomaco, – che quand'era ripieno la calcagnata era più efficace – e si allontanava correndo all'aperto allargando le braccia dispiegate a raggiunger bastante portanza per decollare e volare
via,
via,
lontano,
nel cielo blu
dove il mondo lo vedi
sorridendo,
divertito,
con stupore trasognato;
via,
trasportato dalle nuvole
orlate d'oro e di carminio,
dove tutto è bello
e pieno di colori
a stracatafottere,30
dove tutte le cose appaiono pervase dalla luce e dal respiro,
dove i tetti sono più rossi,
il cielo più azzurro
e le vacche più marròn.
Poi però, a volte, una cabrata non riusciva. E precipitava giù.
Quanto più eran belle e stupefacenti tutte le cose che in volo vedeva e godeva, tanto più gli parevan lontane ed estranee, poiché non v'avea parte, egli, il reietto; lui, l'escluso; esso, il "coso", e ne era fuori, non gli appartenevano.
Gravi cupezze ritrovavano la via alla sua gola e lo mordevano: « Capace che se io morirei ora, in questo preciso momento, » – pensava – « idda31 manco lo viene a sapere... nessuno ce lo va a dire..! Manco una tinta32 lacrima ci potrebbe uscire da quegli occhi di fata! »

***

Si arrivò al giorno di San Romualdo.33
Una festa campagnola, in onore di don Peppino Maccefìcu che compiva gli anni, era la sorpresa che il festeggiato non avrebbe dovuto scoprire sino all'annuncio ufficiale, promulgato nel tardo pomeriggio dalla signora Gina e dagli altri familiari, sicché gran lavoro di preparativi pullulava in masseria.
Peppino, però, il quale aveva il pallino di esercitare sempre un'attenzione costante su tutto ciò che avveniva nel proprio piccolo ecosistema, aveva intuito da certi indizξ di euforia maliziosetta, da furbeschi cenni di sottinteso che vedeva sfarfallarsi intorno, – nonostante le mille forzate precauzioni – che nella pignata34 qualcosa stava bollendo, e anche se capiva che non dovesse trattarsi di cosa a danno suo, pure non voleva che sotto il naso gliela facessero, sicché – con una certa avvedutezza – indagò, e presto si fece persuaso che nell'aria c'era odor di schitìcchio.35 Ecco perché, quando ricevette Patonsio in missione nuova per conto dello zio, disse in modo da esser ben ascoltato:
– O Patò, non ti pare macari a 'tia che c'è ciàuru di festino? Io penso che qua oggi i picciuòtti vònu fari aqquitrìniu... tu'che dici?36
–'Ròn Pippì, e non è che kà sièmu' bàbbi... eh!37
– Ragghiùni n'hai Patò,'i facièmu, i bàbbi, ma akkà i picciuòtti l'avissiru a sapìri che'bàbbi nun cinnè... Quindi, ora tu 'u sai che fai? Ammuòviti akkà che ta 'viri macari tu'rò'barcuni cù' mia... ti piàce?38
Non ci fu più bisogno quindi d'altri sotterfugi, e nella generale bonaria, gioviale riprovazione della pedante vigilanza di Maccefìcu, cui non sfuggirebbe manco una mosca che vola, l'aurora dell'imminente baldoria poté finalmente sorgere in tutta la sua fracassona giocondità: angurie volarono nel pozzo, fiaccole fiorirono nei sentieri, tavolini danzarono per aria e tavoloni doppiavan dietro il paso-doble, gaie tovaglie a colorati quadrettoni su vi planarono, seguendo il ritmo della musica in cui piroettavano cestoni di frutta variamente decorata, scacce e cacciagione, sughi sapienti di maiale e cavatièddi, màccu e lòlli 'kè favi, impanate e teste di turco, prelibati insaccati, turciniùna, e fritture, e soffritture, cuddurèdda e pagnoccate, fiori e pappagnuòccoli di crema e di ricotta, biscotti e cassatine, dolci, torte e tortigli e cucciddàte e pasturièddi, milìddi e cicirièddi e mustazzuòla, cubàita e giuggiulèna e 'mpanatìgghi e firrincuòzzi, "geli" di gelsomino e cannella, e pasticci, e pani "scolpiti" a mò di barbe, bastoni e corone di santi popolari, istoriati di sacri episodi e pagane amenità; bottiglie e capaci(-ssime) damigiane sfilarono in un magico corteo, sedie e panche di varia foggia e misura volteggiarono: un'incantata coreografia degna del miglior apprendista stregone invasato comandava la teoria di cibi e suppellettili in volo, sicché Patonsio non potè esimersi dal salutare la visione della girandola affatturante con la delicata e stupefatta espressione:
– Mìiinciùna ka ti criàu..!39

***

Quando intorno si placò,
nella luce del tramonto
tenue e fatta di sospiri,
– che sui tetti e sulle pietre,
sugli spiazzi e nelle macchie
riversava un qual lucore
d'assopito purgatorio –
il prodigio ballerino
della festa apparecchiata,
cose uomini e pietanze
si disposero al convito,
piano piano rallentando
gesti, frasi, movimenti,
sinché giunse alfin l'istante
in cui il tempo si fermò.
Per un attimo soltanto,
come se per una foto
– bianconera nostalgia –
s'arrestasse tutto quanto,
ed ognuno sorridesse
nella posa un po' irreale,
colta quasi a tradimento
dalla macchina da presa
predisposta dal buon Dio.
Ma non più di uno scatto.
Forse due, a dire troppo,
ché le immagini sospese
dei ricordi d'altri tempi
mal si prestano davvero
alle copie, ai duplicati,
anzi spesso accade invero
che quell'una originale
poi si perda, per ventura,
e nei diarξ personali,
negli albi dedicati,
sol rimanga
– unica traccia –
quella forma immateriale
– invisibile allo sguardo –
dello spazio ch'essa prese,
fuoco fatuo di memoria,
dagherrotipo dell'anima,
istantanea d'un passato
– spodestato dal presente (spesso un po' cafone e ottuso) –
che mai più ritornerà...

***

Gina molto s'affaccendò nel coordinare ogni particolare che potesse contribuire alla riuscita della festicciuola campagnola; ordini a destra e a manca distribuì seria e divertita; trasferì sedili e pietanze, in bell'ordine disponendoli; esigette instancabile collaborazione e servizξ, – rimproveri non lesinando ai sottoposti (laddove riteneva) – numerò le seggiole nuove ne richiese; più di tutti si diede d'attorno: pareva la vera festeggiata che ancor l'abito non indosserebbe se non è a posto ogni minuzia, benché in presenza dei parenti e dei convitati, tutti apostrofandoli e redarguendoli prima di mutarsi magicamente nella più dolce e remissiva ospite che immaginar si possa.
Brillavano le fiaccole nei sentieri ad indicare i camminamenti; imperversava grasso e rossastro, tizianesco, un tramonto cotto nel vapore di stoppie percosse ed invisibili pulviscoli agricoli, selvatiche fronde bisbigliavano di straforo come nascosti folletti insonnoliti; l'aria, di mollezza affettata, sonnoliti,coniciicordo e dellaicordo e della leggenda_______________________________________________________seco trascinava l'aire d'importanza del tempo – disabitato – del mito e del ricordo d'altri sogni sereni; si sarebbe intuito che l'isola espirasse flebile nel dormiveglia, spandendo da quel suo polmone lento il soffio negligente di vecchia, maestosa, inciprignita matrona viziata d'eccessi.

***

– Certo che lei, signora, le sape organizzare benissimamente, le cose, ah, signora Gì..? – disse Patò slittando presso la padrona del suo cuoricino butirroso (e rancido d'insonne attesa concitata) cullando la speranza d'ingaggiare un ritaglio di corrispondenza con l'irraggiungibile dea dell'amore e dello struggimento insieme.
– Niente di speciale, Signor Patonsio... – quella rispose, secca, telegrafica.
– Ah no! Lei è speciale, eh, Signora Gina... eh... ce lo dico io che la conosco la robba buona! – avanzò con destrezza corta e malfatta quel figlio d'un dio secondario, irretito dalla pensata che la bella adesso gli parlerebbe, l'alito edenico guidando insino alle orecchie della bestia.
– A me pare che lei fa confusione – lo incenerì – e bisogna fare attenzione a non farne, invece, perché si prendono cantonate grandi... ma belle grandi, eh..!
La tossina entrò subito in circolazione.
Patonsio non riuscì a vedere il suo volto trasformarsi orribilmente – come sotto le mani d'uno sbrigativo torturatore – ma riconobbe dentro il torso l'aggressione d'una "cosa" sconosciuta che gli lacerava celermente le budella: era infatti (lui non poteva saperlo) un gatto inferocito che cercava di liberarsi a colpi d'artiglio del sacco impaniante.
Fuggì ululando nella notte assassina, e squarciando la volta celeste con atroci bestemmie in lingue ormai sconosciute nell'epoche moderne non si ricordò della lapa legata a un albero lasciata a dolersi da sola.

***

Chi per anni sia vissuto rinserrato tra le campagne e la marina non può dimenticare la notte in cui per la prima volta si trovò le costellazioni sterminate sopra il capo e un orizzonte illimitato davanti agli occhi, congestionati dal troppo sangue affluito. Già durante la salita Patonsio si era meravigliato di conoscere le prominenze che tante volte aveva visto dal basso. Ora, soggiogato dal momento tragico, vide a un tratto con timore folgorante l'immensità che addosso gli piombava: dunque così ampia era la sua terra! La masseria laggiù sperduta non era che un puntolino chiaro; cocuzzoli che vicinissimi parevano dal fondovalle erano invece fra loro distanti ore ed ore di cammino disperato – nessuno (soprattutto equipaggiato con una barca di tal fatta: non un'oncia di zavorra, neppure quella necessaria a mantenerlo in equilibrio) si spinge a così gran distanza come chi non sa dove sta andando.
Allora cominciò ad intuire che soltanto ad occhi socchiusi aveva visto il mondo, senza mai del tutto aprirli, e che lassù le stelle malandrine potevano spiccare un balzo e cadere, e che potevano succedere cose grandi delle quali nel giaciglio della sua tana isolata non arrivava il sentore più lieve.
E però c'era dentro Patò qualcosa... qualche cosa... che simile all'ago tremante della bussola aspirava a quelle lontananze con inconsapevoli vaghezze, onde soltanto allora avrebbe potuto comprendere per intero la bellezza e la malinconia delle nuvole, nel vedere verso quali smisurati spazi esse viaggiavano... ma, Patò, stizzoso buttero di forti lape, nel suo foglio di precetto teneva scritto in maiuscoletto che quelle spume candide e irrequiete erano "cose" che avevano a che fare soprattutto con la sete dei campi e con la fabbrica dei fanghi, per cui, da quel perfetto spettacolo, essenzialmente, la percezione tenace che ne ricavò fu quella delle zannate che la rabbia e la mesta delusione nel suo stomaco accogliente infliggevano, e rammentò che una volta, in una festa di paese, aveva sentito il protagonista di una scalcagnata recita, tale invertito Rodolfo in arte Foffo –ribattezzato Fonfelmo 'u pùrpu40 dai suoi sardonici concittadini – scagliare quest'invettiva – allora incomprensibilmente buffa – sull'auditorio screanzato: «Che cosa è la viiita se non un gioco dannatamente spietaaato..?».

***

La notte si sarebbe fatta calda: lo scirocco arrivava col suo rombo profondo – preceduto da freschi venti contrarii – avvertito ore prima dagli uomini, dalle donne, dalle montagne, dalla selvaggina e dal bestiame, mentre imparziale e silenzioso si preparava a tuonare con la risacca ostinata di un mare d'inchiostro nero contro l'arenile fumante di spruzzi, e il paesaggio voleva rannicchiarsi come un gregge impaurito.
Patonsio ritornò, furtivo e circospetto, verso la masseria per riprendersi la lapa. Vide già a distanza la femmina Gina seduta su un panchetto che dormiva col capo riverso sulle braccia conserte sul tavolo, ingombro dei sopravanzi della festa.
Le folate di scirocco caldo stordiscono, tolgono il respiro.
La febbre sciroccale – dolce, intorpidente – ruba il sonno e con le sue carezze stimola i sensi, illanguidendoli.
Si disse Patonsio:
– Io ora mi riprendo la lapa mia e me ne vado a casa, ché già abbiamo fatto assai!41
Ma quella femmina del destino, scotendo il capo come una bestia malata cui nel petto affannoso un guizzo di follia ancor tremi e minacci, lo scorse, lo individuò, lo fulminò con la fiamma d'uno sguardo carico di supplichevole stordimento e di sofferenza, e una volta ancora, lo irretì:
– Vieni, prendimi le carni... lasciami i segni... ah! Sono una disonesta... aah... fammi sèntiri 'u fuocu 'na facci e 'ne 'uràzza... aah... vèni kà beddu sceccu 'ri trappitu... sàzimi, abbìvirimi, 'ràmmi 'u battesimu scunsacràtu... ah, beddu putru scicchìgnu...42
La dolce febbre sciroccale è strana e deliziosa, annunzia che narcisi, primule e rami di mandorlo sono rifioriti. Essa può ben riempire un'infanzia – o una vita intera – spiegandosi nel linguaggio incomparabile della natura come mai da labbra umane escirà. Chi tale idioma abbia inteso nell'infanzia, per tutta la vita lo riconosce – tremendo e forte – e al fascino suo più non sfugge. Nato come Patonsio tra la marina e la campagna strinata, quand'anche un uomo per anni si dedichi alle cose della filosofia o della storia, – che non era proprio il caso di Patò – e cerchi di dimenticare invece le cose della natura e della carne, se ode un giorno lo scirocco e un sospiro caldo che dalla costiera risalga per le mulattiere all'entroterra, nel petto gli vibra un ansimo, e il pensiero suo a Dio e alla Morte corre.

Così è.
Così fu.

***

Tornò Patonsio il giorno dopo la razzia seconda. Per portare bei pomodori: la scusa era bella e buona.
– Ah, signυora, – disse a Gina tutto copiato e mascolino – guardi, guardi qua che porto: sono meglio della carne... ah?
– Non c'è motivo che si disturbi per l'avvenire signor Patonsio, qua davvero non ci manca niente e di queste cose ne abbiamo da regalare. Anzi, se se li riporta indietro mi fa un favore, ché non so dove metterli.
Gesù!
Sprofondarono i monti che da lontano, tutt'intorno, vigilavano la valle e un'immensa piana di verde nulla ed un inconsistente, anonimo paesaggio si fece largo, per ogni dove avanzando e inondando. Un'inquietudine, una tristezza angosciata ghermì Patò anche ora daccapo in fuga: avvertì come d'essere condannato a trascinarsi per suoli inospitali e uguali, a perdere irremissibilmente la sua regione e il diritto di cittadinanza nel suo paese.
Gli sembrava di vedere sempre innanzi a sé il viso di Gina, fine, ma così estraneo, freddo, ignaro di lui, che il dolore e l'amarezza gli toglievano il fiato. Vedeva scivolar via dai finestrini della sua fida "Ronzinanta" le contrade amene e pulite, le macchie incantate e beffeggianti, le strade che correvano spensieratamente scherzando coi mari e i fiumiciattoli, con i ponticelli e le case in rovina, con i piccoli paesi e i borghi che uno appresso all'altro s'infilano sì che par di scorrere un solo paese pieno di vita e d'immodesta boria malinconica; vedeva la gente che saliva e scendeva, che parlava, rideva, salutava, fumava e scherzava allegra e disinvolta... mentre lui, grave polledrino sconsolato, stava muto, accasciato e ostile.
S'accorse ad un tratto che di paesi non ne traversava più; le case eran dileguate, il panorama diventato aspro. Saliva tra boschi insospettabili, sempre più isolati. Si moltiplicavano le cime, i canaloni si inseguivano, le distanze sognavano le distanze. Più vasta e arrogante si faceva la solitudine, più intrinseco il silenzio, più selvaggio il panorama. Patonsio fu solo fra cielo e montagne.
Sentì di non trovarsi più a casa sua, – strappato per sempre alle sue campagne – di non potersi mai più mostrare divertente, naturale e sereno come i compaesani. Costoro si farebbero sempre beffe di lui, uno d'essi svellerebbe il fiore custodito da Gina, gli taglierebbe la strada, gli farebbe lo sgambetto. «Bastardo e pezzo di fango!» – rifletté Patonsio, – geloso e avido del fiore di cui sopra – nauseato, sdegnato di ritrovarsi a vedere come la volgare realtà facesse valere i suoi sordidi diritti, a gran brani divorando tutta la ricca spensieratezza di cui egli era capiente.

***

Dopo qualche settimana, periodo in cui s'era ben guardato di ritrovarsi nella contrada del Macceficu, Patonsio si spinse un giorno dalle parti del fiume, cosa non straordinaria per il fatto che il panorama regala all'escursionista una piacevole, confortante vista, ravvivata dai mormorii silvestri più cattivanti che la natura del sito sa congegnare: è un eterno concerto di trilli argentini e di scrosci vivaci che s'inseguono e si sopraffanno l'un l'altro come angelicati bimbetti che giuochino a affondarsi vicendevolmente dentro una vasca incantata.
Fumarsi una sigaretta "tra uomini", in quello scenario semi-prodigioso, ecco il virile proposito scelto da Patò, con l'unica compagnia della lapa affezionata e d'un rimasuglio d'acredine nell'animo contristato dalle avventure ultime, non ancor uscite del tutto di mente.
Sonnecchiava la lapa, con una lampada accesa e una fulminata, il fiume versava miti borbogli, i folletti selvatici si sfogavano con alcune innocue pernacchie all'indirizzo del nostro cavaliere dall'ombre rotonde con qualche macchia e qualche paura, quando una scena inattesa, distraendolo nel momento in cui il tizzone della cicca raggiungeva le dita esulcerandole, lo costrinse a battere violentemente il capo sulla lamiera del tettuccio, fruttando spicciamente, a questo, una nuova metallica sagoma, un buco novello alla gommapiuma del sedile, e una pralinatura di sanguinolenta granulosità rugginosa al cranio del suindicato cavaliere.
La quale scena, era la seguente:
Una fiammante Fiat abarth 850 rossa arrivò d'improvviso a pochi metri di distanza dalla tana dove Patonsio respirava avidamente la sua cicca. E fin qui niente di eccezionale: avveniva talvolta che qualche coppietta in incognito si spingesse fin là a sparpagliare sospiri o ragli – a seconda del grado di istruzione.
Ma quando la portiera si aprì, in simultanea con la craniata di Patonsio, discesero nell'ordine, prima un bel giovanotto moro, ben messo e recante lo stampiglio della salute in corpo, poi... la splendida Gina, che effuse dal suo vestitino a fiori una fragranza di florida primavera sino alle froge incredule del testimone occultato dai fogliami, il quale fremette unitamente alla lapa, cui sfuggì per la sorpresa un lampeggiamento di fanale abbagliante.
Chi se lo sarebbe aspettato? Addirittura il giovane offerse una sigaretta a Gina... e quella se la prese! Non solo! La fumò tranquillamente! E la sapeva fumare! Segno lampante che non era la prima volta.

(Al lettore che non avesse immediatamente ravvisato l'eccentricità del comportamento, sarà utile aver contezza del fatto che in un reame in cui l'onorabilità dei mariti era – soprattutto – proporzionale all'occlusione dei varchi vaginali delle mogli e inversamente proporzionale al grado di "piacere", di "godimento", di "disinvoltura" – generaliter – raggiunto dalle medesime, poteva ben destare perplessità una siffatta ‘impudente' spregiudicatezza).
Non appena Patonsio si riprese dal trauma duplice a danno della zucca e della sua farcitura, potè finalmente intendere quasi tutte le parole dell'inedita coppia, trasportate da una brezza favorevole:
– Ma perché – chiedeva il fusto – glie lo hai detto a tuo marito?
– Colpa del vino... sai come sono fatta.
Patonsio, discosto ma non troppo, bolliva di collera:
– «Τ Disonesta lurda!43» – schiumando e traboccando fiele – «allora ce l'hai per vizio! Sei buttana nelle ossa!»
– Quando bevo un poco, lo sai, non ho più controllo... divento sincera, premurosa, ...divento più...
– «Diventi più buttana di quello che sei!» – inveiva Patò avvelenato.
– ...sensibile ... e riesco a sentire, a vedere, a dire, a fare quello che da "normale" non mi riesce; non so nascondere niente. Solo in quei momenti sono "vera"...
– « Sì, una vera scuffata!44»
– È una cosa che mi fa soffrire, – continuò la donna – soltanto da ubriaca riesco a vedere le cose come sono veramente, non come appaiono. Leggo con chiarezza nei sentimenti e nei pensieri degli altri, condivido le sensazioni e vedo fino in fondo la bellezza oppure la tristezza che si nasconde nel cuore di una persona, e perfino negli animali... è come se solo in quello stato io potessi entrare in contatto con l'intima essenza di chi mi sta intorno. Da sobria, niente. Avverto solo quello che si può vedere di fuori. Solo le apparenze, che sono spesso bugiarde. È difficile da capire anche per me. Io sono capace di amare, di provare vere emozioni soltanto quando bevo. Com'è strana la natura, vero?
– Ma che bisogno c'era di dirgli che mi sono fidanzato con la figlia di Maluttièmpu? Tuo marito non lo può vedere, a quello!
– « ? »
– A parte che già s'era venuto a sapere, e poi, tanto deve piacere a te, la tua zita,45 non suo padre a Peppino!
– «Cheffà, non sei più buttana?» – s'interrogò Patonsio, principiando a confondersi.
– E però tuo marito, siccome sono il fratello più piccolo, non si priva di farmi sempre cazziate, e che è mio padre?
– « Gioia mia, non sei buttana più!»
– Lo sai com'è. Ti vuole bene, a modo suo. Si preoccupa per te.
– Sisì, si preoccupa, si preoccupa, e intanto sempre mi dice parole...46

***

Patonsio si ritirò da quell'esperienza quasi rinfrancato, per un verso, ma in seguito sempre più disturbato da un pensiero che piano piano s'era fatto strada nella sua mente.
Dapprima lo rimuginò confusamente, poi cominciò a penetrare il segreto che lo aveva fatto tanto tribolare: quella donna, anche se nello spazio di fugaci attimi, lo aveva amato... ma aveva amato l'anima integra, primitiva, semplice di lui... non il suo involucro. In altre parole, aveva amato la sua anima e non il suo corpo. La sua intimità, non la sua fisicità.
Aveva, quindi, quella stravagante, amato Patonsio come uomo, come essere, e non come oggetto.
Il che, per una persona tutta d'un pezzo, non è tollerabile.
– « 'Sta scimunita pazza...» – qualche volta s'attardò fievolmente a pensare.
Non ci andò più. Mai più.
Rimosse.

1 Apecar, noto motofurgone a tre ruote. N.d.C.
2 Un pochino. N.d.C.
3 La morte... N.d.C.
4 La pelle, la vita. N.d.C.
5 Costoro sono inclini per indole a fuggire con terrore la fatica ... N.d.C.
6 Mi sembri condividere appassionatamente la stessa avversione al lavoro. N.d.C.
7 Cosa può saperne lei delle mie gravi pene? So io che bocconi mando giù! N.d.C.
8 Raggiungimi, furfantello, poiché so ben io cosa gradiresti ingollare..! N.d.C.
9 Ti dico! N.d.C.
10 Farò in modo che torni a casa sua trasformato nel corpo e nell'anima grazie a questo portentoso nettare. N.d.C.
11 Ti sei cappottato, stravolto? Orsù rinsavisci, ché il giorno muore presto..! N.d.C.
12 Perbacco che botto! N.d.C.
13 Si stia tranquillo. N.d.C.
14 Insomma, pressappoco. N.d.C.
15 Ginetta. N.d.C.
16 Macchè, quando mai... N.d.C.
17 Mio dolce tesoro... N.d.C.
18 Fontana resa qualche anno più tardi famosa da una popolare canzone di un villoso cantautore. N.d.C.
19 Presto, venga subito, don Peppino, è successo un fatto! N.d.C.
20 Disdetta! Cosa è successo? N.d.C.
21 Giurabbacco! N.d.C.
22 Nelle cavità orali (ma, più tecnicamente, le guance). N.d.C.
23 Son sempre in giro per affari di una certa importanza! N.d.C.
24 L'autore non riesce a contenere un malinconico trasalimento nel rammentare la cara immagine di quella bocca, quelle labbra... Mah! Che vuoi fare... N.d.A.
25 Come la raccontiamo questa? N.d.C.
26 Galoppa su questa prateria, stallone bello! Fracassami di botte! Incollati a quest'angolo, dissetati presso quest'abbeveratoio, Saziati bel puledro! Lasciami offesa da qualche danno fisico! N.d.C.
27 Schiaffoni. N.d.C.
28 Che gran merito! N.d.C.
29 Vergognati carogna! N.d.C.
30 Assai. N.d.C.
31 Lei. N.d.C.
32 Misera, da nulla. N.d.C.
33 Vergine o martire, ai fini del nostro racconto, al momento poco mette conto. N.d.A. ( Il 19 di giugno, comunque... N.d.C. )
34 Pentola. N.d.C.
35 Festino. N.d.C.
36 Non sembra anche a te che ci sia odor di festa? Credo che i ragazzi oggi voglian fare baldoria... N.d.C.
37 Non siamo mica ingenui, riverito signor Peppino! N.d.C.
38 Hai ragione, o Patonsio, anche se facciamo gli ingenui, bisogna si sappia che fessi qui non ce n'è... sai che ti dico? Resta pure qui con me a godertela tranquillamente, va bene? N.d.C.
39 Perbacco che stupor! N.d.C.
40 Il nostalgico... N.d.C.
41 Se ne è viste abbastanza per oggi! N.d.C.
42 Fammi sentire il fuoco nella faccia e nelle braccia, vieni qui mio bel mulo da fatica, saziami, placa la mia sete, amministrami il rito pagano, su, bel puledro valente... N.d.C.
43 Sporca. N.d.C.
44 Donna leggera. N.d.C.
45 Fidanzata. N.d.C.
46 Mi dice sempre cose sgradevoli. N.d.C.

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