PierLuigi Albini

Paul Klee
una ricognizione

Indice

Premessa

Alcune questioni preliminari per rendere esplicite le chiavi di lettura dell'interpretazione che segue. Penso che non sia più possibile parlare dell'arte contemporanea e anche di Paul Klee:
1. senza avere sempre in mente che è stato il grande sviluppo tecnico-scientifico, la modernità insomma, a orientare anche i cambiamenti di gusto e di sensibilità degli artisti, e a suggerire un'attività di radicale, coraggiosa sperimentazione artistica o, comunque, di reazione alla modernità;
2. senza fare riferimento ad una teoria della percezione che, mettendo in secondo piano la letteratura umanistico-filosofica del passato, si appoggi alle neuroscienze e, in particolare, alla neuroestetica.
Non svilupperò il punto 1. perché ci porterebbe troppo lontano (Vedi il saggio, P. Albini, Manifesti futuristi. Scienza macchine natura, pubblicato su www.romanzieri.com).
Quanto al punto 2., faccio mia l'opinione di Semir Zeki, il più noto studioso di neuroscienze, sul fatto che gli artisti del Novecento (in particolare le avanguardie) sono stati dei neurologi inconsapevoli. Nel senso che le loro sperimentazioni si capiscono bene solo riconoscendo che hanno cercato di coinvolgere in modo non tradizionale, pur non avendone le cognizioni scientifiche, le aree del cervello dedicate alla visione. Nel caso di Klee, c'è da dire che egli appare anche come un fisico consapevole, nel senso che era piuttosto informato sulle tendenze più avanzate della fisica del tempo.

Parlando delle neuroscienze, dobbiamo tenere in mente che la visione è un processo attivo, che la ricostruzione dell'immagine avviene nel cervello, che la percezione è scomposta ed elaborata da diverse aree visive, che le cellule neuronali sono specializzate. Ad esempio, per quanto riguarda i colori complementari, le cellule eccitate dal rosso sono inibite al verde, quelle del giallo sono incapaci di percepire il verde, quelle deputate al bianco non colgono il nero. La percezione dello spazio e della forma, dipendono a loro volta quasi esclusivamente dalle differenze di luminosità del colore e non dal colore in sé. Tanto da permettere a Picasso di dipingere solo con tonalità blu, senza farci perdere la percezione della forma, o a Klee di dipingere solo in tonalità marroni.
Una cellula specializzata per vedere una linea obliqua verso destra, non rileva una linea orientata in modo diverso, e così via. Questa specializzazione delle varie aree e dei neuroni riguarda perciò anche orientamento delle linee, forme e movimento; e ognuna di queste componenti è processata in aree cerebrali diverse, separatamente o in parallelo.
Come è noto, le immagini che si formano nel nostro cervello non sono affatto una riproduzione fotografica della realtà, ma un'elaborazione e un'interpretazione delle differenti tonalità di luce emanate dai pigmenti da parte del nostro cervello, il quale procede anche a memoria, completando dettagli che non rileviamo, rifinendo il non-finito, incanalando automaticamente verso una predeterminata area visiva e specifici neuroni la rilevazione della tonalità azzurra o grigia del cielo. Come aveva già intuito Matisse: "Vedere è già un'operazione creativa che richiede uno sforzo."
È il colore la prima cosa che percepisce il cervello, poi le forme, poi il movimento. Ovviamente stiamo parlando di millisecondi.

Ma cosa succede se invece dell'azzurro, il pittore dipinge un cielo rosso o un prato giallo? Oppure una banana blu? Se, insomma, i colori sono sbagliati? Se, come diceva Matisse, si libera il colore? O, ancora, se un insieme di linee non riesce a ricostruirsi nel nostro assemblaggio cerebrale in una forma conosciuta, una delle tante che abbiamo cominciato ad immagazzinare fin dalla nascita? Se una forma non rappresenta ciò che dovrebbe nella nostra esperienza?
Si crea quello che si può chiamare un effetto deragliamento, un détournement, una sorpresa e uno piazzamento neuronali che incrementano in modo esponenziale una caratteristica strutturale dell'arte, ossia l'ambiguità. In sostanza, l'ambiguità dell'arte presuppone una sorpresa sensoriale, una specie di vertigine che ci coglie quando l'arte entra in conflitto con l'esperienza visiva ordinaria, coinvolgendo più intensamente parti del nostro lobo frontale.
Le medesime aree visive sono deputate alla percezione e all'elaborazione, ma se non c'è ambiguità, non c'è maggiore attenzione da parte di chi guarda (come ben sanno gli scrittori di romanzi noir e gran parte degli artisti dei nostri giorni). Senza l'ambiguità - che, come ci ricorda Semir Zeki, riguarda anche la pittura del passato, come nel caso di Vermeer e delle sue rappresentazioni di interni, oppure il non-finito di Michelangelo – forse non ci sarebbe bisogno di interpretazione. Quasi tutta l'arte contemporanea è costruita su questi deragliamenti neurologici spinti al massimo. È una ricerca, dapprima inconsapevole, di quella che una volta si chiamava la psicologia della visione, perché produce uno scarto forte tra lo schema neurologico chiaro e sperimentato e i dati che non riescono a collocarsi automaticamente in senso univoco.

L'ambiguità dell'arte non coincide affatto con il cosiddetto ineffabile dell'arte, con la bellezza ineffabile su cui si sono a lungo esercitati critici e studiosi di estetica, specialmente romantici e idealisti. In questo caso, il termine ineffabile sta, in realtà, per lavori in corso, cioè per processi di apprendimento ancora in gran parte da esplorare, sia per le attività apparentemente più semplici sia per quelle cosiddette superiori. Questi lavori in corso sono per il momento sostituiti dalla narrazione letteraria, dalla fantasia e dal rigore del critico.
Del resto, le neuroscienze hanno circa vent'anni, anzi sono nella loro infanzia, perché solo da poco tempo abbiamo a disposizione strumenti non invasivi per capire cosa succede nel funzionamento del cervello quando viene stimolato da un'immagine. Tra l'altro, l'ineffabile degli umanisti, cioè il tentativo di descrivere l'arte con le parole, rappresenta in effetti l'incapacità della funzione verbale di star dietro a quella visiva, di milioni di anni più antica, evoluta e raffinata. Per dirla con il Thomas Eliot di Quattro quartetti, significa "fare un'incursione nel vago con logori strumenti". Con strumenti inadeguati, cioè. Sovrapponendo al percorso percettivo della visione e dell'emozione un universo simbolico diverso.

Naturalmente, la neuroestetica non sostituirà l'estetica. Qui non sostengo alcun principio deterministico. La soddisfazione estetica non può essere spiegata limitandosi ad osservare il funzionamento dei neuroni e la ragnatela delle sinapsi, anche se bisogna guardarsi dal credere che l'attività estetica è riferibile alle sole funzioni superiori del cervello. La capacità di astrazione sembra infatti contenuta già nell'attività neuronale primaria. Dico solo che in futuro (già oggi) sarà difficile parlare di arte senza servirsi anche di questo strumento. Un po' come non è più possibile parlare di meteorologia senza una strumentazione adeguata, affidandosi invece solo a splendidi e poetici discorsi sui calli che fanno male o sullo scricchiolar d'ossa. Tuttavia, un'estetica esisterà sempre come giudizio sulla qualità dei risultati artistici, solo che si restringerà il territorio dei giudizi soggettivi, mentre la cassetta degli attrezzi dei critici dovrà contenere anche i principi della neuroestetica.
Questa troppo lunga premessa era necessaria per capire meglio (e al di là di quanto lui stesso ne scrisse) quale operazione estetica ha comportato l'innovazione pittorica di Paul Klee. Ci aiuta anche a renderci conto delle nostre stesse percezioni quando possiamo smarrirci alla ricerca di significati nei colori, nelle forme, nei grafismi di quello che può essere considerato uno dei più grandi pittori del Novecento (e non solo). Anche perché, secondo una straordinaria intuizione di C.G. Argan, l'obbiettivo di Klee non era di rappresentare ma di visualizzare, e la visualità segue sempre le leggi della percezione. Se questo è vero, Klee più di altri non può essere compreso ignorando cosa succede nel nostro cervello quando guardiamo una sua opera.
Per cinquecento anni dall'inizio del Rinascimento italiano, scrive John Golding, "gli artisti hanno preso a guida le leggi della matematica o della prospettiva scientifica e, conformandosi a queste leggi, hanno guardato ai loro soggetti da un unico angolo fisso". Con Klee (non è questa la sede per analizzare il ruolo del cubismo e di altre avanguardie in questo campo) cambia completamente la rappresentazione. I percorsi cerebrali nel loro farsi evolutivo, così come il mondo è evoluzione, entrano direttamente nel quadro.

1. Formazione e cronologia fino alla Tunisia

Sebbene svizzero, la patria culturale e di adozione di Paul Klee è stata la Germania.
Ai suoi inizi è fortemente influenzato dal grafismo di Beardsley, però spogliato dalla tendenza al sublime.Klee rimane ben ancorato alla terra, dorato di ironia e con tendenze alla desacralizzazione. [Barilli, 2002]

Dal 1898 ai primi del Novecento la sua produzione è quasi esclusivamente grafica. La cifra prevalente è quella del grottesco, dell'ironico e del tragicomico, come evidente derivazione dalla tradizione nordica di Bruegel e Bosch. Un riferimento che Klee, tra ritorni e ripensamenti, non abbandonerà mai davvero e che riprenderà in modo esplicito nell'ultima parte della sua vita. Vedremo tra poco come questo taglio stilistico fosse fortemente ancorato anche alla sua idea di condizione umana. Klee assimila anche il Jugendstil e la cifra elegante ed aerea del suo disegno; la tendenza ad un fitomorfismo immaginario rimarrà una costante della sua arte. La sua formazione fu piuttosto vasta comprendendo la musica, la grafica e la letteratura.
Nel 1901 compì il classico viaggio di istruzione artistica in Italia, ma rimase abbastanza freddo nei confronti dell'arte classica [Pirani, 1990].
Scriverà di una "dolorosa presa di coscienza della distanza ormai invalicabile dall'ideale classico".

Klee rappresenta anche in questo una delle voci più alte del Novecento che testimonia un'irrimediabile rottura del secolo con la tradizione.

In questi anni, cominciò a passare dalla grafica alla sperimentazione della pittura, misurandosi soprattutto con i problemi del colore, e andò a Parigi e poi si sposò, stabilendosi a Monaco di Baviera. A Parigi conobbe direttamente le opere degli impressionisti e si interessò soprattutto di Van Gogh, ma rimase entusiasta anche di Leonardo da Vinci, che aveva già visto in Italia. E si capisce il perché di quest'ultima passione, pensando alla successiva evoluzione della pittura diKlee, visto che Leonardo introdusse nella pittura lo sfumato, il filtro dell'aria come velo della prospettiva, così come il colore apparirà vaporizzato in Klee.
Nel 1908 vide di nuovo Van Gogh in due mostre tenutesi a Monaco e l'anno dopo si entusiasmò per Cézanne, di cui vennnero esposti, sempre a Monaco, otto dipinti. Ragazza con brocche del 1910 e Giardino con natura morta dello stesso anno, testimoniano di queste influenze attraverso la ricerca di collegamenti tra colori, forme e stati d'animo.

Nel frattempo, Klee compì esperienze importanti per la maturazione definitiva della sua pittura. Nel 1908 era stato pubblicato Astrazione ed empatia, una tesi di laurea di Wilhelm Worringer, che è da considerarsi – al di là delle intenzioni dell'autore – un caposaldo dell'astrattismo, che ebbe un grande successo e che accese appassionate discussioni nel mondo artistico e della critica d'arte. Per Worringer, che conserva in parte una certa attualità - assieme agli studiosi della cosiddetta scuola viennese, molto importanti nella storia dell'estetica – "la spinta all'astrazione rappresenta […] la conseguenza di una forte inquietudine interiore dell'uomo, provocata dai fenomeni del mondo esterno". Si è trattato comunque, per la scuola viennese (i cui massimi esponenti sono stati Riegl, Wöllflin, Worringer), di inaugurare un nuovo filone di riflessione che riuscisse ad allacciare, da un lato, la sensibilità artistica alla modernità e, dall'altro, a costruirne i collegamenti con i fenomeni artistici del passato, compresa l'antichità classica e il remoto arcaismo. Un tentativo straordinario che pochi hanno in seguito emulato (in Italia penso ad una figura come Ranuccio Bianchi Bandinelli, con Organicità e astrazione, e agli studi in corso di Renato Barilli, limitatamente alla tarda antichità), rinchiudendosi piuttosto in uno specialismo povero di interconnessioni e ben deciso a non avventurarsi nei grandi affreschi storici. Lo spirituale nell'arte di Kandinskij, altra opera fondamentale dell'astrattismo, vede la luce nel 1912, quando già si era consolidato il rapporto di amicizia e di reciproca stima con Klee. Per quanto quest'ultimo si guarderà bene dal seguire il russo sulla strada del suo esasperato spiritualismo.

Intanto, nel 1911, Klee era uscito dall'isolamento artistico in cui si era mantenuto fino ad allora, entrando in rapporto con Der Blaue Reiter (Il cavaliere azzurro), il movimento fondato da Augusto Macke, Vassily Kandinskij e Franz Marc, che si proponeva "di organizzare e sostenere tutte le tendenze artistiche che consideravano – superando gli elementi figurativi ancora impliciti nell'espressionismo – la sfera dell'arte come nettamente distinta da quella della natura". [Pirani, 1995] Semplificazione dell'immagine e accrescimento degli stimoli emotivi dati dal quadro erano l'obbiettivo artistico del movimento. Klee partecipò alla seconda esposizione promossa dal movimento, assieme a Picasso, Vlaminck, Derain, Malevich e ad altri.

Nel 1913 Klee soggiornò di nuovo a Parigi, dove strinse rapporti con i cubisti e, in particolare con Delaunay, che nella storia dell'arte rappresenta una specie di crocevia dei movimenti artistici del tempo, tra cubismo orfico e futurismo, tra correnti razionaliste e spiritualismo dell'ambiente tedesco e olandese.
Con Delaunay, Klee "scopre la potenza emotiva e fantastica della luce, il ritmo e il movimento dell'immagine ottenuta attraverso i contrasti simultanei dei colori" [Pirani, 1995].
Vedremo più avanti l'influenza di Cézanne su di lui.
Ma in quello stesso anno, a Monaco, scoprì i futuristi e se ne entusiasmò, soprattutto di Carlo Carrà. Nei Diari ne sintetizzò così l'estetica: "Quando si apre una finestra entra in camera tutto il rumore della strada, il movimento e l'oggettività delle cose fuori […] La potenza della strada, la vita, l'ambizione, la paura che si possono osservare nella città, il senso di oppressione che il baccano provoca".

Come si può rilevare dal commento, Klee introdusse però un senso di ansia nella visione della città moderna, ben al di qua dell'acritica esaltazione futurista. Quel che dovette affascinare Klee, fu il tentativo di praticare una pittura totale, in grado di rappresentare emozioni, ricordi, ciò che si vede e ciò che si sente. I due dipinti Pali della luce, del 1913 e Piccolo paesaggio con aria di pioggia, sempre del 1913, testimoniano di queste influenze, dove Klee non rinuncia comunque ad una rappresentazione della natura.
Nel 1914 si recò finalmente Tunisia, per un breve soggiorno, e lì realizzò la più importante svolta della sua vita artistica.

L'acquerello Hammamet con Moschea segna il punto di passaggio, contemporaneo a quello compiuto da Piet Mondrian, e cioè la riduzione della realtà ai suoi tasselli primari, costitutivi originari, il cui insieme deve restituire a chi guarda il senso del paesaggio, della luce, della storia, della relazione tra umanità che vi abita e ambiente. Ma, al contrario di Mondrian, Klee non si ridurrà mai ai soli colori primari e ad un geometrismo lineare.

Il colore e la luce del deserto si infiltrano ovunque, condizionano gli stessi colori dei giardini, delle moschee, dei teli stesi ad asciugare, delle case. La mia impressione è che i riquadri cromatici di Klee siano una derivazione dei piani poligonali in cui i cubisti scomponevano la figura con l'intenzione di rappresentarla dai diversi punti di vista possibili.
Ma in Klee questi piani multipli si trasformano in tessere, ossia non in un modo di vedere ma in un tentativo di scomposizione della realtà primaria su un piano bidimensionale, come vedremo meglio tra poco. Una specie di rumore di fondo dell'universo che si materializza nelle sfumature cromatiche e nell'ambiente. Più in là nel tempo, queste tessere si ripresenteranno nella pittura di Klee con un'intenzione arcaizzante. Del resto, come osserva S. Zeki, "nuove forme, consistenti per lo più dilinee, quadrati e rettangoli, sono meravigliosamente adatte a stimolare alcune delle cellule della corteccia visiva". E questo perché la loro caratteristica è di avere immagazzinato con l'esperienza la forma astratta delle forme, che possiamo considerare una specie di idea preesistente dentro di noi quando osserviamo un'opera d'arte. "Il vedere – osserva Richard Gregory, altro noto neuroscienziato, autore di numerosi studi sul cervello e sulla visione – implica sempre l'esistenza di un'ipotesi nel cervello".

Tuttavia, Klee è ben lontano, nonostante i soggetti rappresentati, da qualsiasi suggestione vedutistica. La serie dei dipinti tunisini si dovrebbero quasi osservare come in pianta: è il punto di vista topografico quello che lo affascina (dov'è questa cosa in rapporto all'altra? E in rapporto all'insieme?) Per questo sono necessarie la costruzione di una topografia rigorosa e una ricerca continua dei rapporti tra i colori e le linee dove il trapassare degli uni negli altri è dato dallo sfumare delle tonalità.
Insomma, cosa gli dà la Tunisia?

Gli suggerisce il senso degli oggetti in cui geometrismo della forma e colore definiscono il mondo: la luce si irradia dall'interno delle cose, dei riquadri, delle figure stilizzate, quando ci sono, creando impressioni e associazioni percettive policrome. Il tentativo è quello di risalire alle strutture primarie della vita dando loro una rappresentazione diretta, come una musica, scavalcando il visibile tradizionale, cercando di collocarsi in un mondo parallelo ma non meno vero di quello che frequentiamo abitualmente.
L'esperienza tunisina lo libera dal problema del colore che lo aveva impegnato fino ad allora e gli fa scrivere nei suoi Diari: "Il colore mi possiede. Non ho bisogno di tentare di afferrarlo. Mi possiede per sempre, lo sento. Questo è il senso dell'ora felice: io e il colore siamo tutt'uno. Sono pittore." In realtà, la luce e i colori tunisini fanno da innesco, da catalizzatori di precedenti predisposizioni alle qualità costruttive del colore. Ma è la Tunisia che gli permette di prendere la strada di un naturalismo parallelo: non la rappresentazione del pulsare nervoso della vita moderna, ma dell'origine del mondo.

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