19. Labirinti di lettura
III. In/out: sul lìmine della civiltà

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Ottavo percorso - Riformare la globalizzazione

Stiglitz

"Ma verrà un giorno in cui gli stati Uniti non potranno più fare a modo loro. Alla lunga le forze del cambiamento globale economico, sociale, politico e ambientale saranno più forti della capacità di una singola nazione – anche la più potente – di piegare sistematicamente il mondo al proprio volere e ai propri interessi". Sono le parole con sui si avvia alla conclusione il saggio di Joseph E. Stiglitz, Premio Nobel per l'economia 2001, La globalizzazione che funziona [Torino, Einaudi, 2007, pp. 336], il cui sottotitolo Un mondo migliore è possibile cerca di correggere l'infelice traduzione del titolo originale che è Making Globalization Work, ossia il lavoro, le misure da prendere perché la globalizzazione funzioni, e nelle cui pagine possiamo trovare molte delle indicazioni che sarebbe necessario adottare, una sorta di promemoria, se non un programma, per i governanti.
Quando la storia subisce un'improvvisa accelerazione per qualche evento traumatico, riflessioni e analisi sugli assetti del pianeta sembrano improvvisamente invecchiate, travolte dalle vicende. Tanto più che schiere di responsabili di quanto è accaduto si dissimulano tra le nebbie dei media, cambiando opinione e cercando di rimanere in cattedra (o al potere); o, ancora, affannandosi a raccomandare di cambiare poco delle impostazioni che hanno portato al disastro economico, perché basterà qualche piccolo aggiustamento e poi tutto ricomincerà a marciare in modo soddisfacente. Eppure, è proprio in questi momenti che è necessario non perdere di vista la traiettoria che ha portato alla crisi, se non altro per prendere misure efficaci, che questa volta – a globalizzazione ormai dispiegata – o saranno di dimensioni planetarie o si riveleranno inutili, condannando il mondo a nuovi ciclici disastri.
Intanto, sul numero 5 del 2008 di Limes, Lucio Caracciolo, osserva che, a proposito di muri, ne è caduto un altro, quello di Wall Street, Via del Muro, appunto. E anche Stiglitz, in una sua dichiarazione, aggiunge che "la crisi di Wall Street è per il mercato quello che la caduta del Muro di Berlino fu per il comunismo". Mentre altre schiere di commentatori e economisti si affannano a ripetere che si tratta solo di un incidente di percorso.
La lunga esperienza di Stiglitz nella direzione di organismi finanziari internazionali, la sua preparazione accademica e la sperimentazione diretta nel governo americano gli permettono di fare proposte sensate e realistiche, ma non meno incisive di ciò che sarebbe necessario: e più le sue analisi sono accompagnate da una documentazione e da fatti che non possono essere nascosti e più l'attuale assetto economico appare pericoloso. "Presto o tardi – scrive l'autore nella Prefazione – il mondo dovrà mettersi nell'ordine di idee di introdurre alcuni cambiamenti illustrati nei capitoli che seguono: la questione non è tanto se questi o simili cambiamenti si verificheranno, ma quando, e, cosa ancora più importante, se avranno luogo prima di un'altra serie di disastri globali oppure dopo." Già, perché il disastro attuale è stato preannunciato da una serie di crisi, conseguenza diretta della dottrina neoliberista, che hanno messo in ginocchio intere popolazioni. L'opinione pubblica occidentale forse nemmeno le ricorda più, eppure negli ultimi trenta anni le crisi finanziarie sono state più di cento.
Ovviamente, l'autore non è affatto contro la globalizzazione, è contro questa globalizzazione, avendone previsto gli esiti perversi, in quanto dominata dagli interessi finanziari delle multinazionali e da ristretti apparati tecnocratici. Contro l'opinione a lungo propinata, la sua convinzione è che il mercato non è per niente efficiente, a parte il fatto che esistono diverse forme di economia di mercato e non solo quella di impronta liberal angloamericana, che è l'epicentro della crisi attuale. Quella che si è affermata nel suo nucleo finanziario centrale è molto meno di una globalizzazione reale, considerato che "in tutto il mondo, i paesi che hanno aperto il loro sistema bancario ai grandi istituti di credito internazionali hanno scoperto che quelle banche preferiscono interagire con altre multinazionali come la Coca-Cola, Ibm e Microsoft". E poi, Stiglitz conferma che al di fuori della Cina (con i grandi squilibri che sappiamo), la povertà del Terzo mondo è aumentata. Secondo le stime della Banca mondiale il 40% della popolazione vive in povertà (che è aumentata negli ultimi vent'anni del 2%), mentre più del 30% vive in estrema povertà (aumentata del 3% nello stesso periodo). Abbagliati dallo splendore di Bangalore, capitale tecnologica dell'India, i media hanno oscurato il fatto che a pochi chilometri di distanza dilaga la povertà.
Da qui in poi l'autore ripercorre le analisi generali della situazione economica del pianeta nei vari quadranti internazionali (prima della crisi attuale), confermando grosso modo i giudizi che abbiamo già ricavato dalle letture nei precedenti percorsi, anzi dimostrandosi ancora più severo nei giudizi sulla politica estera e economica del suo governo, ivi comprese le feroci politiche interne che hanno fatto esplodere i rapporti salariali. Solo i paesi che sono riusciti a resistere alle ricette economiche liberiste che il Fondo Monetario Internazionale (FMI), Wall Street e il Tesoro degli Stati Uniti cercavano di imporre sono usciti dalle crisi con le proprie gambe, non lasciando sul terreno milioni di disoccupati, le popolazioni impoverite e le proprie economie devastate. Tanto per fare qualche esempio, a seguito delle imposizioni occidentali nel regime di transizione dal comunismo al capitalismo, in un certo periodo i prezzi in Ucraina "aumentavano del 3.300% l'anno", come del resto in modo quasi similare avveniva in Russia; un effetto - osserva Hobsbawn nel libro citato in un precedente percorso – del fatto che " è [...] nella realtà l'unico caso dove qualcuno ha deciso, da un giorno all'altro, di applicare del tutto la logica del libero mercato capitalistico; e i risultati sono stati un totale disastro". Insomma, Putin e l'attuale politica russa sono figli delle mascalzonate della finanza internazionale e della miopia dei circuiti che fanno capo a Wall Street. Come è un loro prodotto quanto è accaduto nell'Est e nel Sud asiatici, in America latina e in Africa.
Il fatto è che questi circuiti che propugnavano un libero mercato senza regole, sostenevano che – come per incanto – un complesso di forze messe in moto dalla sua adozione universale avrebbe fatto crescere l'economia a livelli record, e invece ciò che è accaduto in termini di impoverimento, abbassamento della durata di vita, rapina delle ricchezze nazionali e espansione della criminalità organizzata grida ancora vendetta. Che non c'è stata né ci sarà, perché i responsabili – invece che in galera - circolano ricchi e rispettati per il mondo. Possono sembrare espressioni troppo forti, queste, ma davvero non ci sono parole per dare voce all'indignazione per le sofferenze e i latrocini inflitti a miliardi di persone, in nome di un'ideologia che serviva semplicemente a occultare interessi personali e di dominio. Certamente c'era e c'è chi in buona fede tecnocratica sosteneva (e ancora sostiene) la bontà di quelle ricette e cerca di esercitare la propria intelligenza in acrobatiche spiegazioni di ciò che è accaduto, ma a parte quelli che sull'ideologia del neoliberismo hanno costruito la propria carriera, gli altri sono solo degli ingenui o dei disinformati o degli accecati dall'ideologia.
Stiglitz spiega assai bene i meccanismi intimi che presiedono a quello che i suoi fautori chiamano il libero commercio: ha partecipato alle tornate internazionali di trattative o le ha seguite come economista capo della Casa Bianca o come vice presidente della Banca mondiale. Egli parla di un gioco truccato a sfavore dei paesi in via di sviluppo, per cui "il commercio internazionale e i regimi finanziari danno ai paesi industrializzati avanzati un netto vantaggio consentendo loro di arricchirsi alle spalle dei poveri". Cosa intendono infatti nella realtà i paesi industrializzati per libero commercio? Intendono la piena libertà di esportare nei paesi terzi e di muovere i capitali, che richiede l'abolizione delle limitazioni tariffarie, delle sovvenzioni interne e dei tanti intralci tecnici e regolamentari esistenti. Però, conservano a se stessi la piena libertà di non abolire ciò che a loro non conviene; intendono insomma che si possa esercitare il libero commercio da parte loro ma non da parte di terzi. Impongono un regime economico di non reciprocità. Nell'arena del libero commercio i partecipanti più poveri sono costretti a giocare con tutte e due le mani legate dietro la schiena o azzoppati.
In realtà, non c'è stato nessun libero commercio perché le tornate di trattative commerciali che si sono susseguite nell'ambito del World Trade Organization (WTO) non sono state né libere né eque, a cominciare dall'imposizione di quel particolare regime della proprietà intellettuale che ha condotto "a morte migliaia di ammalati di Aids per i quali esisterebbero invece già farmaci miracolosi". Questa condizione di asimmetria può sembrare il frutto di una particolare contingenza geopolitica destinata nel tempo a riequilibrarsi: tutti ricchi (o quasi) nel medio lungo periodo!, è (era) la promessa dei neoliberisti. Ma Stiglitz ha preso il Nobel per l'economia proprio per aver dimostrato che l'asimmetria, anche informativa, è una condizione strutturale del mercato, perciò "anche se le barriere commerciali venissero abbattute in modo simmetrico, non tutti sarebbero in grado di approfittarne". E aggiunge in modo secco: "... al contrario di ciò che vogliono farci credere, la liberalizzazione del commercio non incrementa automaticamente il commercio né la crescita, ma soprattutto non è vero che i vantaggi della crescita vanno a beneficio di tutti, secondo il meccanismo del trickle down. Questi due aspetti sono stati ampiamente smentiti sia dalla teoria economica sia dall'esperienza storica". Il trickle down è quel supposto meccanismo propagandato soprattutto da Reagan, per cui se alcuni diventano ricchi un po' della loro ricchezza "gocciola" anche su cui ricco non è. Un'idea che ha fatto strada anche in Italia. Se la marea sale, insisteva Reagan, salgono tutte le barche e non solo quelle grandi. Bella metafora, peccato che la maggior parte delle barche continuano a rimanere a secco a dispetto del principio di Archimede.
In altre parole, i neoliberisti mettono in pratica un mercato a somma zero, in cui "chi vince lo fa a spese di altri", mentre favoleggiano di un mercato a somma positiva, "in cui tutti ricevono dei vantaggi": cioè di un mercato equo, che invece sarebbe necessario organizzare per davvero. Insomma si comportano come la popolare figura del "venditore di tappeti", inteso come un commerciante che chiacchiera molto per vendere merce di qualità scarsa, e questa volta lo fa in giacca e cravatta (una volta si sarebbe detto, in redingote).
L'analisi di alcune delle vicende commerciali più note non fa che confermare la tesi dell'autore. Per esempio, nel caso del NAFTA americano, voluto da Clinton, i populisti denunciavano che sarebbe stato un disastro per gli Stati Uniti e i progressisti che sarebbe stato un vantaggio per tutti, invece è stato un disastro per il Messico. L'asimmetria di tradizioni, di risorse, di struttura sociale, di storia economica e politica non può essere superata passandoci sopra con un bulldozer e quando "i trattati commerciali impediscono oggi la maggior parte delle sovvenzioni, tranne che nei prodotti agricoli, questo fa abbassare il reddito dei contadini dei paesi in via di sviluppo, che non ottengono sussidi. E poiché il 70% degli abitanti dei paesi in via di sviluppo dipende direttamente o indirettamente dall'agricoltura, questo significa che ne risente l'intero reddito di questi paesi". La somma dei sussidi agricoli degli Stati Uniti, dell'Europa e del Giappone è pari al 75% del reddito complessivo dell'Africa sub sahariana: in una situazione del genere non esiste alcuna competizione di libero mercato. Gli Stati Uniti sostengono che i loro sussidi sono necessari per mantenere in vita la piccola azienda agricola, ma i piccoli agricoltori americani, pur essendo la stragrande maggioranza, ne ricevono solo il 13%, mentre le grandi aziende, che rappresentano l'1%, ne ricevono il 25%. Quando un paese industrializzato, per esempio, non produce arance le importa a basso prezzo, ma se il prodotto è trasformato i dazi salgono di molto: questa tariff escalation tiene basso il prezzo delle arance e impedisce al paese più povero di sviluppare un'industria di trasformazione a più alto valore aggiunto.
Oltre a ciò, l'abolizione dei dazi doganali nei paesi in via di sviluppo prosciuga una fonte di gettito che è una voce una importante di bilancio e la necessità della competizione li costringe spesso ad abbassare anche le tasse, in questo vivamente consigliati dal FMI per facilitare il movimento dei capitali. Il risultato è che si "impone di tagliare gli investimenti in settori quali la scuola, le infrastrutture e gli ammortizzatori sociali", per non parlare della sanità, "proprio quando sono più necessari sia per combattere la concorrenza sia per aiutare i cittadini a fronteggiare le conseguenze della liberalizzazione".
C'è ancora un'altra realtà nei processi e nelle trattative commerciali che si sono succeduti nel tempo, con grandi sacrifici da parte dei paesi meno sviluppati in cambio di grandi promesse non mantenute da parte dei paesi occidentali, e sono gli effetti non previsti dei nuovi regimi commerciali. Quando si impose l'idea di liberalizzare il commercio, il vantaggio relativo dei paesi occidentali nei confronti del resto del mondo era sui prodotti industriali, perciò si cominciò da lì, ivi comprese le grandi promesse degli occidentali sul tessile, naturalmente mai mantenute. In seguito, la Cina riuscì ad infilarsi nel varco aperto, ma l'economia e gli interessi dominanti nei paesi occidentali si stavano ormai spostando verso il settore dei servizi, mentre il commercio e una parte delle aziende industriali furono abbastanza veloci nello sfruttare il costo differenziale di mano d'opera per spostare all'estero acquisti e produzioni, a spese della mano d'opera interna.
La vera svolta nella liberalizzazione commerciale a senso unico si ebbe con l'Uruguay round - iniziato nel 1986 e concluso nel 1994 con la firma di tre accordi - i cui effetti negativi Stiglitz sintetizza in questo modo, sulla base dei dati nel frattempo disponibili:
1. era un accordo fortemente asimmetrico, tanto che l'intera Africa subsahariana ha perso qualcosa come 1,2 miliardi di dollari l'anno;
2. il 70% dei guadagni sono andati nelle tasche dei paesi sviluppati e i restante 30% ai paesi a reddito medio, ma nulla a quelli più poveri;
3. le regole del gioco sono diventate ancora più inique: i dazi doganali dei paesi industriali sono fino a quattro volte più alti di quelli dei paesi in via di sviluppo; tanto che costano loro in termini di restrizioni commerciali tre volte di più di quanto i paesi ricchi danno in termini di aiuti allo sviluppo;
4. il fulcro di tutto è stata la liberalizzazione dei movimenti di capitali (in gran parte in possesso dei paesi più ricchi) e degli investimenti, ma non la liberalizzazione dei flussi di mano d'opera generica;
5. i negoziatori sono riusciti a concentrare gli accordi sui servizi specializzati (come quelli finanziari) che rappresentano oggi il vantaggio comparato dell'Occidente;
6. i diritti di proprietà intellettuale sono stati rafforzati in modo massiccio, impedendo ai paesi più poveri di sviluppare persino quei farmaci generici che erano da secoli nella loro farmacopea; si tratta dei cosiddetti TRIPS, di cui riparleremo tra poco.
Su queste basi, poi, sono stati sviluppati gli accordi preferenziali bilaterali, favoriti in particolare dagli Stati Uniti, perché rappresentano un metodo di pressione politica, aggiuntivo alle regole internazionali, un modo per tenere a bada i paesi meno forti economicamente e allontanare l'obbiettivo di un commercio multilaterale effettivamente libero; e per dividerli, visto che la resistenza messa in campo da molti di loro aveva fatto fallire il negoziato avviato a Cacùn nell'ambito del WTO, riuscendo a respingere le proposte occidentali.
Per non parlare delle procedure commerciali sleali di cui spesso i paesi industrializzati accusano quelli meno avanzati, talvolta giustamente, come nel caso del dumping derivante dal non rispetto dei diritti umani e sindacali. Ma proprio il caso del dumping svela che l'inesistenza di un metro di giudizio, di una normativa internazionale condivisa che vieti i prezzi predatori, conviene spesso proprio ai paesi industrializzati. E gli Stati Uniti ne sono tra gli oppositori più determinati. Vale la pena riportare un lungo passo di Stiglitz, a questo proposito: "Parte del problema dei dazi antidumping, come nel caso delle misure di salvaguardia, è rappresentato dalle procedure di prelievo di questi dazi. Ne sono stato più volte testimone quando lavoravo per l'amministrazione Clinton. Quando muovevano un'accusa di dumping (anche se la vendita di merci a basso costo favorisce i consumatori americani), fungevamo da pubblico ministero, giudice e giuria, cosa decisamente inaccettabile. Le prove a carico venivano spesso presentate proprio dall'azienda nazionale che voleva escludere i concorrenti dal mercato. (Nel 2000, l'emendamento Byrd aggiunse un ulteriore incentivo: i dazi doganali prelevati sarebbero stati versati al settore colpito, vale a dire a coloro che avevano promosso la causa). Sulla base di questa informazione, si procedeva al prelievo di dazi molto elevati in via preliminare, facendo in modo che l'esportatore diminuisse le vendite e uscisse dal mercato. Un anno o due più tardi, dopo un'accurata istruttoria, si annunciavano i dazi definitivi, spesso molto più bassi, ma ormai il danno era fatto". Facciamo notare che l'emendamento Byrd è stato dichiarato in seguito illegale in sede di WTO, ma senza nessuna conseguenza. In buona sostanza, il suo criterio ispiratore ripercorre certe regole dell'ancien régime e di taluni regimi dittatoriali, per cui denunciando per determinati reati una persona, si può entrare in possesso di parte o della totalità del suo patrimonio.
Dotati di tecniche e procedure sofisticate, sorretti da buone competenze, da un'organizzazione adatta e da molta spregiudicatezza, i paesi industrializzati sono in grado di manovrare secondo i propri interessi le regole commerciali, per quanto siano per loro già favorevoli in partenza.
Questa potenza di imposizione è esemplarmente testimoniata nel caso degli accordi sugli aspetti commerciali dei diritti di proprietà intellettuale, i cosiddetti TRIPS (Trade-related aspects of intellectual property rights), a cui abbiamo già accennato in un precedente percorso parlando dell'appropriazione del patrimonio genetico, della biodiversità dei paesi in via di sviluppo e della brevettabilità dei geni umani. Quali che siano le motivazioni in difesa della tutela della proprietà intellettuale, e indubbiamente ce ne sono, la sintesi del giudizio di Stiglitz su come è stata di fatto organizzata dai paesi più ricchi è molto chiaro: "Il Trips ha accelerato il trionfo degli interessi particolari delle grandi multinazionali europee e statunitensi sugli interessi generali di miliardi di persone nei paesi in via di sviluppo, confermando, una volta di più, come spesso si dia più importanza ai profitti che ad altri valori fondamentali, come per esempio l'ambiente e la stessa vita". E mentre l'amministrazione Clinton si batteva in patria per estendere il diritto dei cittadini alle cure mediche, "appoggiando i Trips, rendeva inaccessibili molti farmaci ai poveri del mondo". Dopo di che, l'autore esamina in dettaglio la questione dei punti di forza e dei limiti della proprietà intellettuale, facendo la storia delle trattative e esponendo i diversi punti di vista e concludendo che "l'efficienza economica vuole che la conoscenza sia messa a disposizione di tutti, ma il regime di proprietà intellettuale mira a limitarne l'uso". Al termine di questa parte Stiglitz suggerisce un programma di riforma:
1. Rielaborare i criteri relativi alla proprietà intellettuale tenendo anche conto delle esigenze dei paesi in via di sviluppo, come questi ultimi chiedono con insistenza;
2. rendere universalmente possibile l'accesso ai farmaci salvavita. Si tratta di un capitolo importante che riguarda diverse decisioni necessarie: i. mettere a disposizione dei paesi poveri tali farmaci a prezzo di costo; ii. rilasciare licenze obbligatorie in alcuni casi; iii. riordinare il sistema di finanziamento della ricerca (Stiglitz accusa le case farmaceutiche di spendere molti più soldi in pubblicità che in ricerca); iv.istituire un fondo mondiale di garanzia che assicuri per un prodotto farmaceutico importante una base di acquisto; v. istituire un fondo per l'innovazione rivolto ai ricercatori.
Questi punti chiave sono però da implementare con altre modifiche e decisioni riguardanti la questione della biopirateria. Intanto c'è un contrasto di fondo tra l'accordo firmato nell'ambito delle Nazioni Unite sulla tutela della biodiversità (che gli Stati Uniti non hanno firmato) e la politica brevettuale seguita in sede WTO, tanto che "quasi la metà dei 4000 fitobrevetti concessi negli ultimi anni negli Stati Uniti riguardano conoscenze che fanno parte della tradizione dei paesi in via di sviluppo". La seconda questione riguarda la governance dell'intera materia, per cui i paesi in via di sviluppo debbono poter contare di più e le grandi multinazionali di meno (sono queste ultime a dettare troppo spesso la linea da seguire ai negoziatori occidentali).
Altri capitoli in discussione, sui quali c'è un conflitto tra gli interessi delle multinazionali e i paesi, riguardano: i. gli Ogm, sui quali esiste anche un contenzioso tra USA e Europa; ii. il sostegno all'industria dello spettacolo e della cultura (gli USA vorrebbero abolire le sovvenzioni pubbliche negli altri paesi); iii. la questione dell'ambiente.
Quando il cittadino viene informato dai media sul fallimento di qualche tornata di trattativa per la liberalizzazione del commercio nell'ambito del WTO, come nell'ultimo caso di Ginevra, dovrebbe avere sempre presente il giudizio contenuto nel Rapporto del Wuppertal Institut curato da Sachs e Santarius - di cui abbiamo parlato in un precedente percorso. Anche in questo testo, dopo una lunga e circostanziata analisi dei meccanismi che regolano il commercio internazionale, si conclude che "sembra sensato dedurne che i paesi industriali hanno trasformato la loro politica di commercio estero in un raffinato ed efficace strumento per sottrarre ai paesi del Sud più di quanto non restituiscano loro". Del resto, non dobbiamo nemmeno farci imbrogliare dai lamenti dei commentatori, perché la non elasticità dei prezzi del mercato internazionale, cioè la inesistenza di un equilibrio tra domanda e offerta, smentisce i teorici e i profittatori del neoliberismo. Tra il 1980 e il 2000, il prezzo di prodotti agricoli sul mercato internazionale provenienti dai paesi in via di sviluppo o poveri sono diminuiti in media del 25%, ma il differenziale è andato solo in piccola parte a favore della domanda finale. Per esempio, il cotone è calato del 47%, il caffè del 64%, il riso del 60,8%, il cacao del 71% e lo zucchero addirittura del 76,6%, per non parlare di quanto sta attualmente accadendo. I consumatori occidentali ne hanno tratto un beneficio in consumi facili, ma i prezzi più bassi derivavano più che altro dai bassi costi del lavoro nei paesi terzi, mentre i produttori sono stati ulteriormente depauperati. Sono stati gli importatori, i trasformatori di materie prime e i loro finanziatori a intascare la quasi totalità dei differenziali.
In buona sostanza, quello vigente è solo una caricatura del mercato libero, anche nel senso che la famosa mano invisibile che garantirebbe il suo funzionamento e allocherebbe razionalmente le risorse, pareggiando il rapporto tra domanda e offerta, è solo una favoletta. La mano invisibile è in realtà quella del più forte, per cui la presenza riequilibratrice dello Stato e delle regole, ivi compresa l'esistenza del Welfare, rappresenterebbero un attentato alla libertà individuale e uno spreco di risorse: una filosofia contemperata dal pannicello caldo e un po' peloso del capitalismo compassionevole che andava di moda qualche tempo fa. Insomma, l'elemosina che sostituisce il diritto alla dignità, all'eguaglianza e alle pari opportunità di partenza: già qualcosa di meglio, certo, dei tanti vispi nipotini del reverendo anglicano Andrew Townsend, il quale, nel 1786, incolpava le leggi della pubblica assistenza di preservare i più deboli a spese dei più forti.
Nel caso dell'Italia, poi, la vera mano invisibile è quella del comparaggio, come ha finalmente documentato l'Autorità Antitrust Garante della Concorrenza e del Mercato all'inizio di quest'anno, secondo cui l'80% del sistema bancario, assicurativo e finanziario è in mano a poche persone: "Un azionariato, anche per le società quotate, spesso concentrato in capo a pochi soggetti e legato da patti, nonché una gestione caratterizzata da incarichi personali doppi o addirittura multipli in società concorrenti e da intrecci del tutto peculiari rispetto al resto d'Europa". Della situazione italiana, bloccata dal predominio di un conflitto di interessi organizzato, abbiamo già parlato recensendo il libro La paga dei padroni, da cui risulta che la situazione denunciata dall'Antitrust è estesa alla parte preponderante del sistema economico.
Ma torniamo all'atto di accusa di Stiglitz nei confronti dei negoziatori occidentali (e dei loro governi), che è netta perché essi sono ridotti a semplici portavoce dei grandi interessi aziendali. Tra l'altro, l'autore propone di sottrarre ai ministri del Commercio la competenza esclusiva a discutere nelle trattative internazionali (sempre in gran segreto, salvo che per i lobbisti in azione) di problemi che riguardano anche altri ambiti di vita collettiva. Per esempio, non si capisce perché la questione della proprietà intellettuale sia stata legata al commercio, mentre le norme per regolamentare il lavoro sono state tenute fuori da ogni confronto. La ragione è che l'obbiettivo dei ministri del Commercio è semplicemente quello di aiutare i produttori, non i cittadini, anche a costo di invadere – come è continuamente avvenuto – le competenze della Sanità, dell'Ambiente, dell'Istruzione e della Tecnologia. Ciò ha dato la possibilità alle multinazionali di imporre i loro punti di vista, molto spesso a scapito degli interessi generali, generando perciò un processo che può senza dubbio definirsi antidemocratico, mentre la sfida per una riforma dei meccanismi della globalizzazione è proprio quella di "riuscire a far prevalere i valori fondamentali sugli interessi di bottega".
Un altro argomento di rilievo affrontato nel libro è quello della cosiddetta maledizione delle risorse: "capire come mai i paesi in via di sviluppo ricchi di risorse naturali se la passino così male dal punto di vista economico [...] è di importanza fondamentale". Il problema è proprio quello della corsa all'accaparramento delle risorse naturali da parte di paesi terzi, che genera spesso, violenza, corruzione e instabilità politica. Secondo Stiglitz, "non è un caso che un numero così elevato di paesi ricchi di risorse naturali sia poco democratico", e che nel caso dei produttori di petrolio del Medio Oriente non ce ne sia nemmeno uno. Un capitolo apposito viene perciò dedicato alla appropriazione della ricchezza pubblica da parte delle multinazionali e dei governi che mirano allo sfruttamento delle risorse naturali attraverso la corruzione e la destabilizzazione dei gruppi dirigenti locali. La lotta locale per controllare le ricchezze naturali e essere al centro del sistema di tangenti e di traffici leciti e illeciti, crea una situazione di debolezza politica, la quale sfocia spesso – come sono cronaca e storia continue di questi decenni – nella guerra per bande e nelle stragi. Non è il caso si ripercorrere qui i casi assai noti del petrolio, dei giacimenti di preziosi e degli accordi-imbroglio per lo sfruttamento delle risorse di un paese da parte di governi corrotti, mentre la popolazione rimane estremamente povera: poi, magari, esplode una reazione popolare. Dopodiché i media occidentali si meravigliano della instabilità e gridano all'estremismo. L'analisi dei meccanismi per cui persino paesi ricchi di petrolio, come la Nigeria o l'Indonesia, sono stati indotti dalle banche internazionali a contrarre ingenti prestiti, incontrando poi grosse difficoltà a restituirli per la sopraggiunta diminuzione dei prezzi, è illuminante; così come quella dei comportamenti del Fondo monetario internazionale nell'imporre ricette neoliberiste a paesi in difficoltà, anche se non privi di risorse, aggravandone la crisi. Del resto, già in un altro suo libro Stiglitz ha scritto che "sono state le politiche del Fondo monetario internazionale (FMI) a minacciare davvero il mercato e la stabilità a lungo termine dell'economia e della società", documentando ampiamente le proprie affermazioni. [La globalizzazione e i suoi oppositori, Torino, Einaudi, 2002, pp. 274]
Ma esiste anche un altro meccanismo che concorre a rendere instabile un paese ricco di risorse naturali, stante l'attuale regime degli scambi internazionali, ed è la cosiddetta sindrome olandese, così denominata perché il fenomeno si manifestò in Olanda in seguito alla scoperta del petrolio nel Mare del Nord. In buona sostanza, nonostante la scoperta del petrolio, l'economia rallentò, creando problemi occupazionali: "la ragione era che l'afflusso di dollari ricevuti in pagamento per il petrolio e il gas del Mare del Nord avevano fatto aumentare il tasso di cambio, e con un tasso si cambio così elevato, gli esportatori olandesi non riuscivano a vendere i loro prodotti all'estero e le aziende nazionali non riuscivano più a competere con le importazioni". E ciò accadeva in una paese ricco, molto strutturato, con un governo in grado di prendere decisioni e con una lunga tradizione democratica.
Naturalmente la maledizione delle risorse non è ineluttabile, esistono esempi di paesi che attraverso vari accorgimenti sono riusciti a utilizzare fruttuosamente le risorse ricavate dalle ricchezze naturali, così come sono ormai abbastanza chiare le decisioni da prendere in materia. Uno dei mezzi usati è la costituzione dei cosiddetti Fondi sovrani, nei quali i governi fanno confluire una parte delle ricchezze ottenute. Stiglitz ne parla di sfuggita, perché esulano dalla sua trattazione e perché il ruolo di questi Fondi nel creare instabilità e minacce nel corso della recente crisi petrolifera e della ben più grave crisi attuale si è manifestato solo un paio di anni dopo la pubblicazione del suo libro.
In conclusione, occorrerebbe che i governi dei paesi sviluppati ponessero davvero "un freno a quella corruzione che parte proprio da loro". Non si tratta solo di un auspicio "moralistico" ma di un programma di interventi della comunità internazionale. Ne riassumiamo i punti essenziale, al termine dei quali si porranno delle domande assai scomode:
1. Assicurare una maggiore trasparenza delle industri estrattive, per esempio stabilendo che le royalties pagate ai governi non devono godere di esenzioni fiscali;
2. ridurre la vendita di armi, il che è di per sé un programma formidabile;
3. imporre la certificazione (pubblica, non di consorzi privati) sulla provenienza dei preziosi e anche del legname;
4. stabilire un'assistenza finanziaria mirata ai governi che si sono dimostrati capaci di rispettare regole democratiche e di trasparenza;
5. fissare regole nuove per la vendita delle risorse naturali a un prezzo equo, magari sotto sorveglianza di un organismo internazionale, e adottare il sistema delle aste pubbliche;
6. limitare i danni ambientali con l'obbligo internazionale (e relative normative) di ripagare i danni prodotti da parte delle aziende responsabili;
7. stabilire le sanzioni necessarie, magari utilizzando i meccanismi stabiliti in sede di WTO, che sono gli unici a funzionare senza prevedere interventi di polizia e militari.
Ma come abbiamo anticipato, a questo punto si pongono alcune domande. Poiché la redditività delle grandi imprese (ma di tutte) è di pagare il meno possibile le risorse di base, mentre il benessere delle popolazioni dei paesi ricchi di queste risorse dipende da quanto riescono a ricavare dal loro sfruttamento, ci troviamo di fronte a una conflitto permanente, a quello che è stato definito il paradosso dell'abbondanza. Ora, da che parte si schiereranno i cittadini dei paesi industrializzati? A favore delle "élites che possiedono le grandi imprese, oppure a sostegno dei miliardi di persone in via di sviluppo", di cui è in gioco la stessa sopravvivenza? Proviamo non tanto a rispondere, quanto a fissare alcuni punti di riferimento per un ragionamento:
i. se nei paesi ricchi avviene una spartizione più o meno equa della ricchezza, allora i loro cittadini danno la precedenza alle imprese, a parte esigue minoranze (in sostanza, partecipando indirettamente alla spoliazione dei paesi terzi);
ii. se le imprese fanno profitti enormi e i cittadini, almeno in parte, si impoveriscono (come in effetti è accaduto), allora i cittadini saranno contro le imprese, ma non necessariamente a favore dei paesi in via di sviluppo.
Infatti:
iii. è possibile far credere ai cittadini che la colpa dell'impoverimento è dei paesi in via di sviluppo (razzismo, immigrazioni, concorrenza a basso prezzo e così via);
iv. i meccanismi degli scambi e delle relazioni internazionali sono troppo opachi e complessi per essere facilmente capiti.
Stante questa situazione, Stiglitz si chiede come sia possibile salvare il pianeta, a partire dal problema ambientale e dal fatto che non abbiamo a disposizione altri mondi. Dopo il paradosso dell'abbondanza esiste infatti la tragedia dei beni comuni, anzi quest'ultima, a nostro parere, è tra le cause del paradosso. Si può partire dalla constatazione che "storicamente, né la soluzione privata né quella pubblica sono riuscite a promuovere contemporaneamente l'efficienza e l'equità", ma il fatto è che per quanto riguarda il problema dell'ambiente e del suo sfruttamento, il cui danneggiamento si riversa su terzi, non esiste la stessa possibilità che c'è all'interno di ogni paese di chiamare in giudizio i responsabili.
Abbiamo già esaminato nei precedenti percorsi i problemi del riscaldamento globale, dello sfruttamento insensato delle risorse e di come c'è chi prevede di trarre dei vantaggi dal disastro ambientale annunciato. L'unico strumento sanzionatorio internazionale non militare che ha finora funzionato è il diritto commerciale, perché quando una paese non rispetta gli accordi possono essere messe in atto contromisure di rappresaglia. La proposta di Stiglitz è che questo meccanismo venga esteso alle questioni ambientali, ma i funzionari dei governi interpellati sono stati molto cauti, ritenendo che una strada del genere "sembra l'equivalente di una dichiarazione di guerra nucleare". Eppure non esiste altra soluzione che far pagare per intero alla gente e alle imprese il costo dell'inquinamento che producono. Viene spontanea una domanda apparentemente ingenua: non è meglio tassare una cosa cattiva come l'inquinamento, piuttosto che una cosa buona come il risparmio o il lavoro?
In genere, chi critica le multinazionali, viene accusato di essere vetero-qualcosa o estremista, ma il circostanziato capitolo scritto da Stiglitz, come tanta parte della lettura sulla questione, non fa altro che documentare una situazione di fatto, che è quella della sostanziale irresponsabilità di queste imprese nell'operare su scala internazionale su molti versanti, da quelli ambientali a quelli della corruttela, per non tacere delle forme ancora più gravi di intervento per distorcere il mercato a loro favore. Nella Rubrica Democrazia&Impresa di questo sito, Ornella Cilona va documentando alcuni dei meccanismi che dovrebbero portare alla responsabilità sociale delle imprese, ma il paradigma del loro comportamento è in un esempio storico riferito da Stiglitz, dove ciò che inquieta di più è che quel modo di agire viene praticato ancora oggi: "Un tempo Los Angeles aveva la rete tramviaria più estesa del mondo (oltre 1700 chilometri di binari), fino a quando un gruppo capeggiato dalla General Motors non la acquistò per smantellarla e sostituire i tram con autobus GM".
Eppure, lentamente, sembra che il concetto di responsabilità sociale vada affermandosi tra le imprese industriali, sia per ragioni di immagine sia per convinzioni etiche dei dirigenti, anche se poi occorre guardarsi dalla loro esperienza nel manipolare la propria immagine. In altre parole, quando un'impresa si fa pubblicità mostrando il volto della responsabilità, se quest'ultima non è certificata da un organismo pubblico internazionale c'è poco da stare tranquilli.
La questione dell'onere del debito dei paesi è un altro capitolo della globalizzazione che non funziona, affrontato da Stiglitz con la competenza che gli proviene dall'aver avuto responsabilità primarie presso la Banca mondiale. Abbiamo già documentato, con John Perkins e lo stesso Stiglitz, in un altro Labirinto i meccanismi e gli effetti perversi del sistema in larga parte ispirato dai fondamentalisti di Wall Street sulle capacità autoregolative del mercato, ebbene il debito dei paesi poveri è un caso da manuale sulla manipolazione del mercato finanziario e sul suo uso spesso per fini inconfessabili. Tutto questo per una ragione semplice: "i prestatori incoraggiano l'indebitamento perché è redditizio". La corruzione dei dirigenti dei paesi da indebitare fa regolarmente parte degli armamentari dell'intervento e dopo l'illustrazione di una serie di casi accaduti negli ultimi anni e dei meccanismi che li hanno permessi, la conclusione di Stiglitz è indiscutibile: "il sistema finanziario globale non funziona come si deve. I flussi di denaro viaggiano in salita dai poveri verso i ricchi". Anche in questo caso l'autore indica i rimedi necessari:
1. Impedire che i prestiti vengano usati come arma di ricatto per imporre politiche economiche come quelle richieste dal FMI, che hanno rovinato diversi paesi;
2. gli organismi internazionali debbono tornare a praticare il prestito anticiclico, cioè l'apertura del rubinetto finanziario quando i prestatori privati si ritirano dal mercato chiedendo indietro i prestiti accordati;
3. ridurre il rischio del debito attraverso meccanismi assicurativi, l'accordo dei prestiti in moneta locale, maggiore attenzione ai contraccolpi internazionali delle decisioni di politica economica domestica;
4. indurre a una maggiore prudenza i paesi già oberati di debiti nel chiedere prestiti;
5. stabilire un diritto fallimentare internazionale, oggi inesistente, sottraendo ai rapporti di potenza l'esito dei contenziosi, con una serie di provvedimenti che l'autore illustra in dettaglio.
È sicuro – scrive Stiglitz - che "la resistenza contro queste idee sarà fortissima. Come abbiamo visto, gli Stati Uniti si sono opposti alla creazione di un sistema ordinato di ristrutturazione dei debiti".
L'ultimo capitolo di ciò che è necessario fare perché la globalizzazione funzioni riguarda la riforma del sistema di riserva globale, che per i paesi in via di sviluppo è troppo oneroso: gli costa il quadruplo di tutti gli aiuti finanziari al Terzo Mondo. L'autore si chiede se "il dollaro possa e debba rimanere la valuta di riferimento del sistema di riserva internazionale", perché i tremila miliardi di dollari di riserve necessarie e/o obbligatorie detenute dai paesi in via di sviluppo rendevano solo un ritorno medio reale attorno all'1-2%; il che vuol dire che tali paesi sono costretti a prestare soldi agli Stati Uniti a un tasso di interesse bassissimo. Per non parlare poi del fatto che in caso di prestiti bancari privati, i paesi richiedenti sono costretti ad accantonare come riserva la stessa cifra ottenuta con il prestito, ma siccome il prestito privato costa molto di più, il risultato è un flusso di dollari in più verso gli Stati Uniti. Instabilità, inefficienza, iniquità e crisi a ripetizione sono solo alcuni degli effetti dell'attuale sistema (come l'autore ha facilmente pronosticato, anche lui inascoltato), al quale andrebbe sostituito un sistema di banconote universali. Riprenderemo nell'ultimo percorso la questione.
Quella che in sostanza l'autore delinea è una globalizzazione democratica, contro l'attuale sistema, in mano a circoli ristretti di potere i quali tutto fanno meno che operare nell'interesse generale. Nella recensione al libro David Rothkopf, Superclass. La nuova élite globale e il mondo che sta realizzando [Milano, Mondadori, 2008], abbiamo visto alcuni aspetti della questione.
Perché si possa fare qualche passo in avanti è intanto necessario che nei paesi avanzati cambi la politica economica e fiscale attraverso un'azione massiccia di qualificazione della forza-lavoro, un aumento degli ammortizzatori sociali e il ristabilimento della progressività sulla tassazione del reddito. A livello internazionale un altro passo avanti sarebbe la riforma delle istituzioni sovranazionali, come il Fondo monetario e la Banca mondiale e lo stesso WTO, da tempo interamente "in mano agli Stati Uniti e ad altri paesi industriali avanzati". Le misure da prendere sarebbero tutto sommato molto semplici e logiche e dovrebbero riguardare:
1. Il cambio della la qualità delle rappresentanze, affiancando i ministri per il Commercio con le altre responsabilità ministeriali interessate;
2. l'adozione di principi di equa rappresentanza tra i paesi.
Poiché la resistenza a queste riforme da parte di chi governa il sistema attuale a suo uso e consumo sarà strenua, si potrebbe intanto adottare una serie di miglioramenti che riguardano:
1. Una maggiore trasparenza nel funzionamento degli organismi sovranazionali esistenti, oggi del tutto opaco;
2. il miglioramento delle norme che regolano i conflitti di interessi;
3. l'associazione alle decisioni anche di altri soggetti rilevanti sullo scenario internazionale, come le Ong;
4. il permettere una partecipazione più significativa al processo decisionale dei paesi in via di sviluppo;
5. la responsabilizzazione delle istituzioni internazionali (e dei loro dirigenti) facendoli rispondere del loro operato;
6. l'introduzione di procedimenti giudiziari più efficaci, regolati internazionalmente;
7. l'adozione di meccanismi più efficaci per il rispetto delle leggi internazionali,
Ma insieme a queste misure debbono cambiare le politiche economiche dal punto di vista ambientale, dello sfruttamento delle risorse, della riduzione degli armamenti, del contenimento dei monopoli globali, della proprietà intellettuale, di regimi commerciali più equi. Intanto, l'adesione (tuttavia improbabile sotto qualsiasi presidenza) degli Stati Uniti alla Corte penale internazionale sarebbe un segnale importante di cambiamento.
Tempo a disposizione, anche per Stiglitz non ce n'è davvero molto, "perché il disastro può essere dietro l'angolo". E torna qui un interrogativo già posto nei precedenti percorsi: dobbiamo per forza passare attraverso un disastro per dare al pianeta e a noi stessi un futuro?

I libri e gli articoli citati o recensiti in questi due percorsi sono: libri

(continua nel prossimo Labirinto):
20. Labirinti di lettura
IV. In/out: sul lìmine della civiltà

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