Recensioni e commenti di saggi

a cura di PierLuigi Albini

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Identità   

a cura di G. Preterossi, Le ragioni dei laici

Editore Laterza
Collana I Robinson. Letture
pagine 191
anno 2005

Credenti e non credenti approfondiscono il loro concetto di laicità in questo libro di cui consiglio senz'altro la lettura. Laddove i laici sono per il curatore "tutti coloro che - non importa se agnostici, atei o credenti - rifiutano di fondare la politica, le istituzioni, la convivenza civile su basi teologiche, fideistiche." Si tratta di un insieme di brevi saggi che affrontano la questione da diverse ottiche disciplinari (giuridiche, politiche, antropologiche, scientifiche, storiche e così via), quasi tutti chiarissimi, salvo - dispiace dirlo - quello di Ida Dominiijanni, che non riesce a tradurre il gergo femminista in concetti comprensibili a tutti.
Il lettore ne uscirà più fornito di strumenti di comprensione critica circa le esagitate esternazioni di tanti giornalisti, politici, saggisti, neomoralisti e prelati a proposito di relativismo e pluralismo nelle società moderne occidentali (ma c'è anche un saggio su Islam e laicità). Qui toccherò un solo punto, interno - per così dire - alla discussione tra laici credenti e laici liberali, riguardante proprio il significato e le radici del termine laico.
L'Europa moderna nasce quando il pensiero laico e illuminista mette in crisi la ormai ossificata cultura cristiana dominante, come scrive Anna Foa. Il liberalismo e la democrazia scaturiscono da questa crisi che la parte preponderante del mondo cattolico si è ostinata a combattere aspramente per circa due secoli. Certo, si può sostenere che si è trattato di un travisamento, di una incomprensione - come in qualche modo affermano Pietro Scoppola e Andrea Riccardi; che la vera natura del cristianesimo non è affatto in contrasto con le idee laiche delle società occidentali né con i principi di democrazia, come sembra aver scelto definitivamente il Concilio Vaticano II. Ma da questo a sostenere, come fanno sempre più spesso altri autori cattolici, che la democrazia è figlia del cristianesimo, francamente mi pare un passo troppo lungo che somiglia molto ad una revisione storica parecchio azzardata, se non indecente.
Quello della modernità non è stato un esito cercato dal cattolicesimo, ma prima combattuto e poi accettato, seppure tra molte contraddizioni e conflitti interni che sarebbe certamente ingiusto dimenticare, in un senso e nell'altro. Capisco l'attuale operazione politica di tentare un ancoraggio irreversibile del cattolicesimo ad una diversa visione della modernità. Però non può nemmeno essere sconvolta la galleria degli antenati. Se mi è permesso un pizzico di cattiveria, osservo anche che si tratta di un tipo di operazione che la Chiesa ha ripetuto diverse volte nella storia. Di qui anche, forse, la sua vitalità come istituzione mondana attraverso i secoli. Insomma, se i papi del Sette-Ottocento e anche dei primi decenni del Novecento potessero leggere quello che scrivono e predicano i loro successori in tema di diritti umani e politici, temo che li scomunicherebbero, almeno sulla base delle encicliche che hanno emanato. Forse potremmo dirla in quest'altro modo: dopo due secoli di conflitti interni ed esterni, nel mondo cattolico hanno finalmente prevalso le idee riformatrici, combattute dalle gerarchie e mal sopportate dal gregge amorfo. Il che vuol dire riconoscere che nell'ambito del cattolicesimo ci sono state voci e forze che avevano una ben diversa considerazione dei principi della laicità, ma che non si può per questo farle diventare la radice della modernità, proprio perché sono state ripetutamente e a lungo sconfitte. Caso mai esse rappresentavano una reazione intelligente al cambiamento inarrestabile del mondo; sempre sul punto, ancora oggi, di essere riassorbite da quegli ambienti clericali che vorrebbero finalmente saldare il conto ad una modernità mai accettata. Il contenzioso sul ruolo della libertà umana è infatti rimasto aperto (Remo Bodei) e la ripoliticizzazione della religione non promette nulla di buono.

Identità   

Cesare Mozzarelli, Identità italiana e cattolicesimo. Una prospettiva storica

Editore Carocci
Collana Studi storici Carocci
pagine 496
anno 2003

La lettura degli atti dei questo convegno, promosso tra gli altri dalla Conferenza episcopale italiana, è molto utile per capire i presupposti storico-teorici di quel vero e proprio rovesciamento della prospettiva e dei fondamenti dello Stato moderno che, a vario titolo, ha avviato la Chiesa italiana in alleanza con i cosiddetti atei devoti. Il cuore della rilettura storiografica dei diversi saggi contenuti nel volume è il conflitto tra la cosiddetta Western Civilization, con i suoi corollari della laicità e della secolarizzazione dello Stato, e la tradizione del cattolicesimo romano con i suoi fondamenti etici. L'esito complessivo dell'intero impianto, al di là delle molte contraddizioni messe in evidenza da alcuni interventi, è una secca richiesta di ristabilire lo Stato etico. Una specie di mostruosità destinata a permeare di sé ogni aspetto della vita pubblica e privata. E che ristabilisce, nelle sue conseguenze, un rapporto fraterno tra delitto e peccato, che in Italia ha imperversato per secoli. L'operazione parte da un doppio attacco.
In primo luogo, c'è uno sviluppo dell'intelligente cambiamento promosso a suo tempo dai vescovi polacchi, che nel conflitto con il comunismo dell'est chiesero e ottennero che la Chiesa di Roma spostasse le sue rivendicazioni sulla libertà religiosa, là conculcata. Questo è il tasto principale dell'attuale controffensiva sia nei confronti della negazione della libertà religiosa in vari paesi sia nei confronti della laicità occidentale (Western Civilization). In questa operazione, il più generale principio della libertà di pensiero (che comprende anche il credere e il non credere) viene oscurato e il pensiero religioso reclama un primato assoluto (gli altri, quelli che sono per il pluralismo e per la laicità, sono dei relativisti che stanno svendendo l'anima dell'Occidente).
Il secondo punto di attacco, specificamente nazionale e al quale è dedicato in sostanza il convegno, riguarda la rivalutazione della Controriforma come fondazione e ruolo creativo della sperimentazione dal basso dei rapporti tra Chiesa e mondo. Un fatto storico che ha segnato indelebilmente l'identità italiana, la quale "è anche, e forse prima di tutto, figlia di una "Controriforma" che ne ha plasmato il sapere delle scuole e delle biblioteche, le forme della cultura, l'arte e la musica, lo stile dei comportamenti, i riti sociali e l'identità della vita domestica, la visione del mondo e la coscienza del destino ultimo dell'uomo oltre la morte". (Danilo Zardin)
In buona sostanza, mettendo in secondo piano le responsabilità della Chiesa per l'enorme ritardo della cultura e della società italiana rispetto al mondo moderno; oscurando l'esistenza storica di un altro cattolicesimo (quello per cui persino il cattolicissimo Manzoni fu aspramente attaccato dai gesuiti perché chiedeva l'istruzione generale dei fanciulli), per non parlare delle altre minoranze; respingendo la tradizione liberale italiana come un'intrusione esterofila nel corpo sociale e statuale; cancellando la radicata tradizione laica e socialista come condannata dalla storia; ricuperando tutte le forme storiche dell'esperienza cattolica come fondazione permanente della società italiana, la tenaglia del doppio approccio delineato non può che concludersi con una sorta di rivendicazione del tipo, il mondo moderno è fallito, ora tocca di nuovo a noi. Una rivincita preparata anche dalle stravaganze del post modernismo, che non ha saputo più distinguere, come è stato scritto, tra Topolino e Monna Lisa, e fondata sulla stratificazione profonda nella coscienza e nel costume nazionali di secoli e secoli di intervento martellante, molecolare, nella e sulla società. A questo punto, sarebbe necessario ridiscutere la nozione di totalitarismo.

Antipatici   

Luca Ricolfi, Perché siamo antipatici? La sinistra e il complesso dei migliori

Editore Longanesi
Collana Le spade
pagine 203
anno 2005

Lo so che questo libro ha avuto un grande successo e che l'autore si è molto accreditato come analista politico anche per altri saggi. Ma a me non è piaciuto affatto. È uno di quei libri che dimostrano come non basta cogliere alcune verità e tentarne una cucitura secondo una qualche categoria che le tenga assieme (pensate prima? create per l'occorrenza?) per spiegare atteggiamenti e modi di essere politici e anche prepolitici che hanno le loro radici in storie che attraversano un secolo e talvolta di più. In caso contrario, si fa solo sociologia à la carte. Come quando si sostiene che la sinistra è antropologicamente incapace di accettare la destra.
Qualcuno potrebbe per favore ri-spiegare che esiste una dimensione temporale delle culture, che c'è una storia politica e sociale, una teoria di fatti incarnati in precise e ricorrenti scelte politiche che nessun revisionismo potrà reinterpretare se non stravolgendo la storia? La questione della cosiddetta superiorità etica della sinistra - come si suppone che sostengano quelli di sinistra - non è affatto una questione antropologica, di presunzione temeraria o di spocchia culturale, ma è esattamente speculare a quello che la destra ha espresso in questo Paese negli ultimi cento cinquanta anni. Anzi, per meglio dire, è sempre esistito un robusto filone minoritario in questo Paese che avrebbe voluto un costume ed un'etica pubblica rispettosi della persona e delle collettività, che crede nel lavoro e nella sua etica, così come crede che le regole non siano intercambiabili a seconda delle convenienze, che il potere e le élite si giustificano se svolgono una funzione anche per gli altri e non di gretta difesa dei propri interessi, che la libertà non è un accumulo di privilegi ma liberazione. Non è questione di destra e sinistra per partito preso, è questione di formazione e di educazione nazionale e persino di come si è formata l'unità del Paese e dell'enorme distorsione storicamente creata dal difficile rapporto tra Stato e Chiesa. Sono alcuni secoli che si discute di una riforma morale e intellettuale degli italiani. Esiste una lunga sequenza di scrittori politici di varie tendenze e di osservatori del costume che hanno rilevato con dovizia di particolari le distorsioni all'opera nelle profondità del corpo sociale. Se vogliamo, ce n'è una testimonianza in un'altra rubrica di questo stesso sito [Carlo Levi].
Questo desiderio di rinnovamento, di libertà e di democrazia, di giustizia e di correttezza sociale, di rispetto delle istituzioni comuni, di regole condivise e di rigore, di non intrusione nelle sfere di vita personali, di miglioramento della qualità culturale e sociale, di comportamenti pubblici seri e responsabili, di coerenza tra ciò che si dice e che si fa, questo rifiuto di una filosofia della sopraffazione, dove si è maggiormente e in varie forme incarnato, dove alligna più facilmente e con minori contraddizioni? Si può discutere a lungo attorno a tale risposta, ma non si può capovolgere, con l'aria di dire una cosa brillante, la realtà. Desiderare tutte queste cose rappresenta davvero - con buona pace di Ricolfi - un'etica civile più alta. Caso mai la domanda da farsi è: come mai alcune grandi aree socio-politiche non le desiderano ugualmente? Da qui l'autore avrebbe dovuto partire per poi spiegare anche alcune fissazioni della sinistra.

Democrazia   

Robert A. Dahl, La democrazia economica

Il Mulino
pagine 146
anno 1989

Questo è uno dei vecchi e classici saggi del decano dei politologi americani, purtroppo ormai fuori commercio. Ancorché rintracciabile solo in biblioteca, vale tuttavia la pena di recensirlo sia per l'efficacia delle sue stringenti argomentazioni sia perché i suoi temi sono stati ripresi dall'autore in diverse opere successive, tra cui quella più recente e matura Sulla democrazia, edita in Italia da Laterza nel 2006, che si presenta come una vera e propria guida alla democrazia.
Il tema centrale trattato da Dahl è quello del conflitto permanente tra libertà e uguaglianza che innerva la nascita della democrazia moderna (non del liberalismo in senso stretto, in quanto alle sue origini l'uguaglianza e la libertà erano riservati ai ceti dominanti).
Se la democrazia è nata in America sostanzialmente sulla base di un compromesso tra un popolo di coltivatori proprietari o che aspiravano ad esserlo, e in cui la terra disponibile sembrava potenzialmente inesauribile, per cui la preoccupazione principale dei costituenti era che l'uguaglianza non ledesse la libertà economica, in seguito la rivoluzione industriale ha cambiato i termini del problema. "Nella nuova realtà la libertà delle grandi imprese e società per azioni aiutava a creare una massa di cittadini fortemente disuguali quanto alle risorse che essi erano in grado di apportare nella vita politica." È questo il nucleo del ragionamento da cui l'autore sviluppa l'analisi e la proposta di raggiungere un equilibrio più avanzato, nel pieno rispetto dei due valori fondativi, ma dialettici, della democrazia. C'è da dire che, in seguito, Dahl ha ridimensionato la fattibilità o la desiderabilità di alcune sue proposte, sottolineando piuttosto che quello del rapporto tra libertà e uguaglianza è un viaggio conflittuale senza fine. Il che, allo stato attuale dello sviluppo delle società umane, mi sembra un approdo accettabile, purché non dimentichi di riequilibrare sempre i loro rapporti. Un politico italiano, alla domanda di un giornalista su cosa ci fosse "dietro l'angolo" (del processo democratico), rispose: "un altro angolo".
Tuttavia le domande di fondo che Dahl si poneva in quel vecchio saggio rimangono valide, tanto più oggi in cui il problema emergente è proprio quello di una generale asimmetria, di uno squilibrio forte, dovuti, da un lato, ad un accrescimento marcato delle disuguaglianze economiche, e, dall'altro all'affermazione di una nozione di libertà individuale che prevale sulla dimensione politica collettiva. È strano, ma il fondamentale tema della democrazia economica ha preso strade assai impervie. Per certi ambienti è quasi una bestemmia. In altri, ruota attorno ad un suo pallido sebbene importante simulacro: la partecipazione. In generale, la si riferisce al tema del governo mondiale e al contrappeso politico alla globalizzazione economica. Ma il tema della persona, con la sua autonomia e con l'interezza dei suoi diritti formalmente riconosciuti, con i suoi desideri di autorealizzazione, sembra scomparso dall'orizzonte, quando gli uomini e le donne si muovono in uno spazio economico in cui immettono l'unica cosa che hanno, il loro lavoro.

Libro   

Renato Barilli, L'arte contemporanea

Editore Feltrinelli
Collana Campi del sapere
pagine 368
anno 2002

Questo è un altro testo fondamentale per comprendere l'arte contemporanea. Barilli basa la sua interpretazione su tre fattori principali che ne spiegano le variazioni: 1. gli sviluppi della tecnologia o cultura materiale; 2. il raffronto tra il campo dell'arte e quelli delle altre arti e delle scienze; 3. le oscillazioni interne (intrinseche) al campo dell'arte.
La ricostruzione della vera e propria rivoluzione compiuta dall'arte contemporanea comincia da lontano, da Nicola Poussin, per poi transitare ovviamente per gli impressionisti, fino alla vera e propria rifondazione compiuta da Cézanne. Il quale rifiuta la prospettiva classica, che si basava sull'illusione ottica della piramide rovesciata teorizzata nel Rinascimento, per adottare il punto di vista dello spettatore che è sempre sferoidale. Su questo tema e sulla riduzione della natura ad un insieme di cilindri, di cubi, di sfere e di coni si basa tutta le lettura fatta da Cézanne dei fenomeni come ci appaiono. In questa geometrizzazione della realtà ciò che gioca un ruolo essenziale è il tempo medio di luce ricevuto dall'oggetto rappresentato. Il Cubismo e i movimenti ad esso affini andranno oltre, cercando di rappresentare direttamente il noumeno, vale a dire l'inconoscibile che è oltre l'apparenza. Ma è con Picasso che si "fa strada la consapevolezza tecnomorfa." Ovvero, che l'uomo non si limita più a usare gli strumenti disponibili, "ma ha il compito di assumerli anche come filtri" dell'esperienza estetica. Il limite del Cubismo consiste nello scegliere come punto di riferimento la tecnologia meccanica, in grande sviluppo all'epoca. Già i Futuristi tentano di andare oltre, rimanendo però "sempre incerti tra il linguaggio spezzato delle macchine e quello curvilineo delle energie radianti." Poi c'è la ripresa di un rapporto critico con la modernità, specialmente per quanto riguarda la Metafisica e altri movimenti, che non si affidano al togliere dell'Espressionismo o al ricreare del Futurismo, ma alla decontestualizzazione e alla ricombinazione dei significati: quanto più la rappresentazione della cosa si fa precisa, tanto più sfugge, si aliena. I filoni artistici che si rifanno alla Nuova Oggettività, associano impegno sociale e deformazione della realtà con il realismo magico.
Intanto urge l'uso di nuovi materiali di pari passo con lo sviluppo tecnologico e con il mutare dei paradigmi scientifici, con un ritorno alla natura, all'uso di materie non secondarie e al biomorfismo, sostituto di una visione macchinistica della realtà, che si rappresentano esattamente per quello che sono. Dall'Art Brut a Burri, in tutte le sue possibili variazioni, è Dubuffet la chiave fondamentale del passaggio di secolo. Da lì in poi, la ripresa di un rapporto positivo con la tecnica si esprime con un andare e venire circolare. "Il grafo del progresso non si sviluppa sempre in avanti [...] ma a un certo punto compie una curva, entra in un ritmo spiraliforme di grande ritorno."
Debbo dire che il volume di Barilli è troppo complesso, ricco di suggestioni e di prospettive originali, per poter riuscire ad esprimere compiutamente il suo fascino in una recensione così breve.

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