16. Labirinti di lettura
VI. Il trono, l'altare (e al-minbar)

Quindicesimo percorso – etica laica

Lecaldano Savater

Nel libro di cui ho parlato, Sam Harris osserva che se la religione fosse necessaria per la moralità, dovrebbe esserci qualche evidenza che gli atei sono meno morali dei credenti. Invece, le indagini empiriche danno risultati esattamente contrari. Richard Dawkins cita il rapporto di una ricerca apparso sul Journal of Religion and Society, 7, 2005 nel quale il paleontologo Gregory S. Paul ha messo a confronto il livello etico di diciassette nazioni più sviluppate. La conclusione è che a più alti livelli di religiosità "corrispondono più alti livelli di omicidi, mortalità infantile e giovanile, malattie veneree, gravidanze e aborti di adolescenti". Degli studi prontamente messi in cantiere da organizzazioni religiose per dimostrare il contrario non si è saputo più nulla...
In ogni caso, per riprendere la citazione di Einstein in epigrafe, penso che si possa essere tutti d'accordo che se uno non delinque solo perché ha paura della polizia, beh, allora non potremmo certo pensare che costui sia dotato di un'etica rispettabile. Né più né meno che se uno non pecca per paura dell'Inferno, non potremmo ritenerlo dotato di una salda morale, nemmeno secondo i propri criteri religiosi.
Quasi tutte le religioni, e anche molti laici, sostengono che non si possa fare a meno della religione parlando di etica. Esaminiamo più da vicino questa affermazione.
Intanto, è un fatto che la religione-istituzione ha assorbito storicamente nella sua sfera la religione naturale di cui ho parlato discorrendo di Daniel Dennett e che è stato il primo sigillo messo sulle regole di convivenza umana, quando la società era diventata così complessa da non essere più sufficiente l'etica istintiva che è propria degli esseri umani, ma che non è estranea agli animali superiori, come regola di comportamento dettata dall'evoluzione. Come ha scritto Francisco J. Ayala, "il pensiero astratto, il linguaggio simbolico, la complessa organizzazione sociale, i valori e l'etica sono manifestazioni della meravigliosa capacità del cervello umano di riunire e integrare informazioni sul mondo esterno e di reagire in modo flessibile a ciò che è stato percepito". A suo tempo, fu necessario mettere il timbro della sacralizzazione sulle regole di convivenza, per dare maggiore cogenza alle norme sociali all'etica e all'organizzazione del potere. Da allora e finché non è nato il pensiero laico e non si è affermato il metodo scientifico – nonostante gli illustri precedenti di pensatori molto in anticipo sui tempi, come Epicuro, Tito Lucrezio Caro e pochi altri – etica e religione sono state strettamente legate; per cui esiste un abito mentale, praticamente una coazione inculcata fin dall'infanzia a considerare strettamente connesse etica e religione. A parte, poi, la tradizione storica per cui, almeno fino al XVII secolo, le leggi fondamentali erano formulate – scrive Eugenio Lecaldano – "in termini di doveri verso Dio, se stessi e gli altri".
Insomma, la religione si è appropriata storicamente dell'etica, la quale esiste indipendentemente da essa. L'etica non è un prodotto della fede è un prodotto dell'evoluzione che ha favorito la cooperazione tra gli individui e l'affermazione di un senso morale per consolidare le società umane. Non c'è alcuna identificazione necessaria tra etica e fede. A meno che non si voglia sostenere, come adombra la citazione di Albert Einstein, che se non ci fosse la minaccia di pagarla cara in un'altra vita, l'umanità non sarebbe capace di bontà. Il che è discretamente assurdo, visto che, per converso, l'essere credenti non dispensa dal commettere azioni criminali: vogliamo parlare degli ultimi duemila anni oppure, per rimanere ai nostri giorni, ci si può chiedere che razza di rapporto può esistere tra i pizzini trovati nel covo del padrino mafioso e i santini e la Bibbia da lui devotamente compulsati? Scrive Cristopher Hitchens nel libro recensito in precedenza: "che un responsabile di crimini si ispiri a una fede è vero quasi al cento per cento, mentre l'ordine di probabilità che una persona di fede stia dalla parte dell'umanità e della morale è più o meno lo stesso che si ha giocando a testa e croce". Oppure bisognerebbe riflettere sul fatto che, secondo un sondaggio Gallup, il 66% degli americani ritiene moralmente accettabile la pena di morte, confrontandolo con il circa 86% degli americani che si dichiara credente, contro uno stimato 14% di laici, una parte dei quali, certo, potrebbe essere anch'esso favorevole alla pena di morte.
Ora, la propaganda ecclesiastica ha per secoli martellato nei cervelli degli europei l'idea che chi non crede sia un poco di buono, sospetto dei peggiori vizi e dedito a piaceri inconfessabili. Oppure che intende lasciarsi andare all'anarchia morale e mentale. Scriveva lo scrittore cattolico G.K. Chesterton, con una scarsa considerazione dell'intelletto umano, che se gli uomini cessassero di credere in Dio comincerebbero a credere in tutto. E ancora oggi, anche nelle più recenti omelie papali, non mancano i generici attacchi all'edonismo, con l'esplicita allusione che solo una morale cristiana – l'ossequio al magistero ecclesiastico e a una concezione della natura umana del tutto inventata e figlia diretta di un pensiero medievale - ci può salvare in questa vita e in quell'altra supposta.
Del resto, sottolinea Remo Bodei, nel saggio L'etica dei laici, contenuto nel libro, Le ragioni dei laici [Roma-Bari, Laterza, 2005, pp.192], che "il ricorso alla veritatis splendor sembra sottintendere che chi non è capace di vederlo sia, teoricamente e moralmente, cieco, daltonico o in malafede". Bodei osserva poi come il problema della Chiesa sia quello segnalato più volte in questi percorsi, cioè di una sua incapacità (o impossibilità, se non a condizione di auto sciogliersi?) di apprezzare l'autonomia della persona. "derubricata a relativismo etico, a sua volta concepito come il vizio segreto della democrazia". Insomma, il contenzioso con la Chiesa sulla questione della libertà umana, a dispetto di tutta la buona volontà di dialogo (o di occultamento del problema da parte di alcuni laici e di altri credenti?), rimane al centro dell'asimmetria tra una morale cattolica (non dico cristiana) e un'etica laica. Per non parlare di inconciliabilità.
Daniel C. Dennett ha scritto che i non credenti "prendono sul serio il loro impegno civile proprio perché non confidano nel fatto che Dio salverà l'umanità dalle sue follie". Il libro del filosofo della morale Eugenio Lecaldano, Un'etica senza Dio [Roma-Bari, Laterza, 2006, pp.109] affronta esattamente questo problema. Non si tratta di un libro innovativo, tuttavia rappresenta un'utilissima ricognizione dei ragionamenti e degli argomenti a sostegno di un'etica laica sganciata da suggestioni religiose. Lecaldano si muove nella stessa scia di Dawkins quando scrive che "solo colui che è agnostico o ateo può effettivamente porre al centro della sua esistenza le richieste dell'etica, e solo colui che è senza Dio può attribuire alla morale tutta la portata e la forza che essa deve avere nelle scelte che riguardano la sua propria esistenza, sia in quelle che riguardano l'esistenza altrui". Intanto, tutti coloro i quali sostengono che credere è una condizione necessaria per avere un'etica, dovrebbero prima precisare a quale Dio si riferiscono e "perché mai dovremmo privilegiare il suo Dio rispetto a quello di altre religioni". Qui c'è un problema di universalismo, che tutte le grandi religioni rivendicano, attaccando il presunto relativismo laico e democratico. Lecaldano osserva che il vero relativismo è proprio quello delle religioni, perché fanno dipendere l'etica da una particolare rivelazione e da una concezione esclusiva della divinità. Si può certo assumere una posizione deista (come quella che fu di molti illuministi) o razionalista, sostenendo che il credente e la morale sono comunque strettamente collegati, quale che sia la religione professata. Ma non mi pare un caso che nelle prove di dialogo in corso tra cattolicesimo e islam, il primo abbia proposto come tavola universale e condivisibile dei valori i diritti umani, ossia un'etica di derivazione illuministica e certamente laica. Segno che le risorse interne ad ogni religione pretendono di essere universali solo a condizione che tutti si convertano a quella determinata religione, mentre i valori di derivazione illuministica chiedono di essere osservati indipendentemente dal credo professato e si rivolgono a tutti gli esseri umani in quanto tali, senza distinzioni di religione o di altro.
Quando una chiesa o una credenza parlano di umanità hanno in testa, come retropensiero, quella determinata umanità di credenti nella stessa rivelazione, che si chiami cristianità o umma. Non sarà poi un caso che nella Chiesa cattolica si sente ancora levare l'accusa di irenismo come deviazione dalla vera dottrina o fede quando, per usare la definizione di Tullio De Mauro, si definisce irenismo il "movimento spirituale e teologico che si propone di favorire la riconciliazione di tutte le chiese cristiane". Figuriamoci poi parlare di una conciliazione tra diverse religioni. E non sarà un caso che, soprattutto da parte tradizionalista, il Concilio Vaticano II sia stato spesso accusato per l'appunto di irenismo, seguendo la condanna comminata da Pio XII nella Humani generis. Anche se, di recente, Benedetto XVI ha cercato di salvare e di valorizzare quanto di ortodosso l'antico vescovo di Lione ha lasciato scritto, condannando peraltro in altra circostanza "il relativismo o il facile e falso irenismo che risolvono la ricerca ecumenica. Essi anzi la travisano e la disorientano". Insomma ecumenismo sì, ma ognuno sulle proprie posizioni, per cui l'unico terreno di intesa interreligioso, e torno al punto, è dato dalla illuministica tavola dei valori dei diritti umani. Non c'è male per l'accusa allo stato moderno di essere vuoto...
Un comando esterno dell'etica la indebolisce, sostiene Lecaldano. Il divieto della violenza verso gli altri è un valore in sé, un portato dell'evoluzione, non un valore in quanto comando di un'autorità. Questo è il fondamento principale di una morale rigorosa e responsabile. Di qui la sua affermazione di una superiorità dell'etica laica su quella religiosa. L'etica non è un'etichetta, scrive l'autore; gli obblighi morali "sono validi indipendentemente da ciò che qualcuno ci dice di fare". Ora, questa è una vecchia questione che riguarda la capacità umana di autogoverno. Se si ha un'idea degli esseri umani quali creature intrinsecamente cattive, magari decadute da una condizione originaria di innocenza, allora è chiaro che servono degli occhiuti carabinieri, oltre che secolari anche religiosi, e che sono aperte le relative conseguenze, fino agli estremi delle guardie iraniane della rivoluzione e delle vessazioni talebane. Ma se si pensa che l'etica sia un portato dell'evoluzione biologica e della cultura (anch'essa permessa dalla particolare evoluzione di un bipede chiamato uomo), allora basteranno i carabinieri secolari e un'educazione appropriata che abbia coltivato il principio di responsabilità. A meno che non entrino in ballo altre questioni, come il reclamare un principio di coesione e di identità di un popolo che, giocando sull'effetto amico-nemico, permetta un controllo sociale più facile da parte del potere. Ma cosa c'entri tutto ciò con la religione, se non come strumento molto terreno e poco trascendente, è facile intuire. Qui, naturalmente, riesplode la discussione su ciò che sarebbe naturale e ciò che non lo sarebbe. Dove è chiaro che "coloro che presentano la propria morale come tesa ad affermare ciò che è naturale per l'uomo, in realtà definiscono natura o secondo natura attraverso decisioni preventive e funzionali a quanto vogliono impedire, condannare o concedere". Ossia a una tavola di valori, magari maturati nel Medioevo, nella quale la naturalità è un concetto piuttosto elastico e adattabile a seconda di ciò che si vuole sostenere, come abbiamo visto commentando il libro di Richard Dawkins.
Per Lecaldano, poi, a proposito del problema del male, non è nemmeno necessario ricorrere a una concezione naturalistica del mondo per dichiararsi in disaccordo con l'idea di un disegno benefico e intelligente che lo guiderebbe. Basta un argomento dialettico, per cui "è proprio la realtà del mondo" a respingere una tale convinzione, a causa del male che ha sempre attraversato la storia umana. Un male le cui caratteristiche e i cui contenuti non sono stati sempre uguali nel tempo, un male che nessuna religione ha saputo arginare.
Se si affronta la questione della religione dal punto di vista etico-politico le cose peggiorano ulteriormente, perché "chi intende la moralità come una serie di comandi assoluti provenienti da Dio non può accettare che le leggi dello Stato facciano valere ciò che è errato o moralmente falso". E, naturalmente, non si tratta di accuse gratuite; basti pensare a tutti i temi cosiddetti eticamente sensibili o alla recente e ignobile vicenda dell'istituzione del registro delle unioni di fatto, respinta in Campidoglio (al contrario di quanto è avvenuto in altre città) per l'opposizione della gerarchia cattolica che ha ordinato ai credenti di votare contro e che ha trovato la compiacente disponibilità di cosiddetti laici. Incredibili le contorsioni di ragionamento espresse della gran parte dei politici cattolici per giustificare la vicenda. Esse danno ragione all'osservazione di Lecaldano che "mentre credere che Dio non esiste non ha alcuna incidenza sul carattere morale di un individuo, credere il contrario e credere che è da lui soltanto che discendono e si legittimano i nostri valori e doveri morali potrebbe avere un'influenza non secondaria sul modo in cui psicologicamente l'individuo si rapporta ad altri". Qui il condizionale è però superfluo, visto che tutto ciò autorizza la pretesa della Chiesa cattolica "di imporre a tutti – per il loro bene – come devono morire, come devono mettere su famiglia e come devono curarsi". In altre parole, è fatto divieto di rispettare le convinzioni altrui e l'autonoma responsabilità morale delle persone, la quale – in buona sostanza – significa invece che "solo quando l'individuo assume su di sé la responsabilità di ciò che ha fatto, avanzando le sue ragioni, testimonia il suo accesso alla sfera morale". L'affermazione mi fa venire in mente un passo di Italo Calvino: "Dare ai nostri gesti, ai nostri pensieri, la continuità del prima di noi e del dopo di noi, è una cosa in cui credo". Sembra questo il cuore di un'assunzione delle proprie responsabilità, di un'etica scomoda ma rigorosa che non cerca in un altrove la propria giustificazione, né si arrende di fronte all'enormità dei problemi esistenti.
L'etica non appartiene – insisto – alla religione perché, come hanno abbondantemente spiegato non solo i filosofi ma anche le scienze naturali, "nel momento in cui diveniamo consapevoli della nostra natura autonoma di esseri moralmente responsabili, questa consapevolezza si presenta come percezione della rilevanza della sofferenza e dei dolori altrui e si trasforma in una istintiva partecipazione all'altrui sofferenza, da alleviare o da eliminare". Si tratta di un fenomeno, peraltro, non limitato ai soli esseri umani. Una qualche partecipazione al dolore dei loro consimili è stata dimostrata anche tra gli altri animali e, in particolare, tra i primati, a dimostrazione della naturalità primigenia di questa empatia alla base dell'etica. Ma, ovviamente, la Chiesa cattolica riconosce a scartamento ridotto la sofferenza altrui. Anzi, ne fa una base salvifica (vogliamo parlare di nuovo delle allucinanti dichiarazioni di Teresa di Calcutta e delle condizioni indegne in cui teneva i sofferenti, privati di qualsiasi terapia del dolore?). La cosa è anche molto meno esotica di malattie come la peste: basti pensare alla difficoltà, alla gelatinosa resistenza con cui una cultura genericamente cattolica impedisce che negli ospedali italiani si generalizzino le terapie del dolore.
Eppure, dovrebbe essere ormai chiaro che l'etica "è una pratica generalmente diffusa tra gli uomini, i quali ne beneficiano per compiere delle scelte in termini cooperativi, regolati e condivisi". Insomma – insiste Lecaldano – dobbiamo convincerci che "la capacità degli esseri umani di farsi guidare da distinzioni tra bene e male, giusto e ingiusto, virtuoso e vizioso è radicata nella loro natura biologica". Il punto è che la Chiesa combatte la secolarizzazione della morale o il riconoscimento di questo dato di fatto perché intende conservarne il monopolio, a costo di ledere la libertà e l'autonomia individuali. Il che, ha di nuovo a che fare con il tema del rapporto tra cattolicesimo e democrazia. Cioè con il rifiuto ecclesiastico di accettare che "è la ragione [...] ciò che ci permette di apprezzare la superiorità di un punto di vista che non esprima o tuteli l'interesse particolare nostro o di qualcuno ma costituisca piuttosto la regola, la norma e che tuteli l'interesse di tutti". Ma ha anche a che fare con i comportamenti antisociali anarcoidi prevalenti tra gli italiani, visto che è la cultura cattolica quella che ha impregnato nei secoli l'ethos della popolazione. La doppia morale del cattolico, non è una bella cosa, e se è certamente meglio del fanatismo bigotto, perché è perlomeno un segno di aspirazione a un'occultata indipendenza di giudizio e di scelta, tuttavia la sua grande diffusione ha dei riflessi sociali pesantemente negativi, per esempio sull'ethos nazionale italiano. Qui il discorso si farebbe troppo lungo, ma penso che sia chiaro cosa voglio dire.
La via che propone l'autore è quella naturalistica e di un ricostruzione storica del processo di sviluppo dell'etica umana, per cui "i diritti morali [...] sono quelli che – sulla base del lungo processo di sviluppo storico che ci caratterizza in quanto specie umana - attribuiamo a tutti gli esseri umani". Qui si innesta il tema dell'universalità dei diritti, oltre che dell'etica. L'incardinamento della ricostruzione nel processo storico, peraltro, permette di riconoscere "le diversità invocate dalla stessa esistenza delle persone che abitano la terra circa la nascita, la morte e la cura". Ma permette anche un progressivo e costante ampliamente dei diritti e la loro almeno parziale estensione a altri esseri viventi, come gli animali, in modo da reinserire l'uomo nell'orizzonte naturale con molta maggiore efficacia dei tentativi su base metafisica compiuti, per esempio, da Hans Jonas.
Ma la condotta morale individuale va attentamente esaminata anche sotto un'altra luce. In primo luogo, le religioni ritengono che sia la sanzione giuridica (il braccio secolare, insomma, di cui continuano a servirsi, come dimostra di nuovo il caso di Roma citato poco sopra) "lo strumento più adeguato di controllo della nostra condotta". E, nella loro versione laicizzante, l'accompagnano spesso con un richiamo forte alle identità, o alle radici o a qualsiasi altra cosa possa servire da ferreo contenente di obblighi imposti anche a chi non ne vuole sapere, come abbiamo visto parlando di Amartya Sen. Al contrario, "un'etica senza Dio non rivendica una comune appartenenza o una uniformità di condotta, ma proprio il valore positivo della diversità dei soggetti morali, che in quanto tali devono essere liberi e individualmente responsabili".
Il libro di Lecaldano si conclude con un florilegio di utili citazioni di autori che hanno trattato l'argomento dell'etica e con un'utile bibliografia ragionata.
Fernando Savater, nel libro Etica per un figlio, [Roma-Bari, Laterza, 2007, pp.124] prova a esporre in modo piano e discorsivo il senso di un'etica laica, di un abito mentale per cui "l'etica per un uomo libero non ha nulla a che vedere con punizioni e premi distribuiti dall'autorità, umana o divina che sia fa lo stesso".
L'autore invita a chiedere a se stessi come gestire la propria vita, perché "l'etica non è altro che il tentativo razionale di indagare su come vivere meglio". "Quello che mi interessa – aggiunge - non è se c'è la vita dopo la morte, ma che ci sia prima. E che questa vita sia buona, non semplice sopravvivenza o continua paura di morire". Perciò, insiste sul fatto che "colui che si limita a sfuggire alla punizione e cercare la ricompensa che gli altri gli offrono, in base a norme stabilite da costoro, non è che un povero schiavo".
"Essere umano significa non riuscire a capire se stessi se si trascura e s'ignora il resto dei propri simili"; il che ci porta proprio alla base dell'etica, la quale è fondata sul fatto – diffuso anche presso altre specie – che se non si trattano gli altri come vorremmo essere trattati noi e, cioè, in primo luogo, non come cose, non si creano le condizioni "perché anche loro mi diano quello che solo una persona può dare a un'altra persona". Da questo punto di vista, la prova metaforica dello specchio è essenziale. Specchio in senso reale, di fronte al quale ci si possa guardare tranquillamente, e specchio metaforico come foro della coscienza. Il che, tutto sommato, riflette anche il significato profondo della scoperta dei neuroni specchio e delle capacità empatiche dell'uomo.
Tutto ciò non esclude, anzi pretende che "il primo dei diritti dell'uomo è quello di non essere la fotocopia del vicino, a essere più o meno strani". In primo luogo affrontando in modo davvero laico la questione del sesso, sul quale le fobie religiose invece si sprecano. Perché, suggerisce Savater al giovane figlio, "quando la gente parla di morale, e soprattutto di immoralità, l'ottanta per cento delle volte – e stai sicuro che non sto esagerando – la predica ha a che fare in qualche modo con il sesso". E bisogna stare ancora più in guardia se tali prediche vengono invocate in nome di qualche dettame naturale. "La verità – scrive Savater – è che sono proprio gli animali quelli che usano il sesso solo per procreare, così come usano il cibo solo per nutrirsi e l'esercizio fisico solo per mantenersi in salute; noi esseri umani, invece, abbiamo inventato l'erotismo, la gastronomia e lo sport". Ma - e qui è d'obbligo correggere l'autore - per la verità esistono altre specie in cui il sesso non è destinato alla sola procreazione, come negli arcinoti scimpanzé bonobo, che lo usano per rafforzare i legami sociali e per regolare questioni di potere; per non parlare dei numerosi casi di comportamenti omosessuali in altre specie animali, leoni compresi: il simbolo della mascolinità combattente. Purtroppo, nella specie umana allignano anche i puritani, i quali credono che "quando uno vive bene non deve spassarsela e che quando uno se la passa male vuol dire che vive bene". Che è poi la morale di Giobbe. Dopodiché, è ovvio che persone di tal fatta spendano il proprio tempo a controllare i comportamenti del prossimo, considerandosi i più morali del mondo.
A me piace in modo particolare un suggerimento che Savater dà al figlio, per cui "l'etica ha la funzione di garantire che vale la pena vivere, che persino con tutte le pene che la vita comporta, vale la pena". Ma perché ciò sia possibile, ha sostenuto altrove l'autore in un suo intervento, è necessaria la tolleranza, che è precisamente "la disposizione civica a vivere in armonia con persone che hanno idee e costumi differenti". Ma non si tratta di indifferenza. Una società pluralista ha dei limiti, non tutto può essere tollerato. Intanto, ripeto, non si possono tollerare gli intolleranti e poi esiste una differenza fondamentale tra il tollerare le persone e il non condividerne le idee e perciò criticarle. La tolleranza non è affatto debolezza o timidezza di fronte alle idee altrui. Anche se un tartufesco costume oggi invalso scambia volentieri la critica con l'intolleranza, e per un delitto di lesa maestà. Il caso recentissimo, prima dell'invito e poi della mancata visita di Benedetto XVI a La Sapienza di Roma, e poi la poderosa campagna mediatica tesa a criminalizzare i cattivi maestri che avevano criticato l'invito fatto dal Rettore, è un caso da manuale. Invito improvvido e davvero fuori luogo, lettera legittima al Rettore di un gruppo di docenti (ci mancherebbe altro che non si possa manifestare il proprio pensiero, anche quando riguarda la religione e i suoi rappresentanti), retromarcia del Vaticano sulla visita e diffusione, con vasta eco, del testo dell'intervento che il Papa avrebbe dovuto tenere, manifestazione di solidarietà in Vaticano indetta dal cardinale Ruini. A chi volesse rendersi conto di quanto davvero sgangherata sia stata la propaganda in questo caso, basta collegarsi al video di Radio Maria per sentir volare evocazioni di Satana e dintorni.
Non so commentare la faccenda meglio di un appello che ha ricevuto migliaia di firme circolato a sostegno dei 67 docenti di fisica: [...] "Infine, ci dichiariamo esterrefatti dalla devastante superficialità ed incompetenza di gran parte della stampa, che si è lanciata alla ricerca dello scoop nel migliore dei casi, o della strumentalizzazione politica nel più frequente. In particolare, è stato completamente stravolto il significato dell'appello, non certo inteso a tacitare una voce e a impedire il dialogo e il confronto, ma a tutelare il profondo significato storico e morale dell'inaugurazione dell'anno accademico, la più solenne cerimonia accademica, nella quale l'università celebra la libertà del sapere universale, idealmente libera da qualunque condizionamento e patronato".
Tornando a Savater, occorre poi ricordare sempre che è il genere umano il destinatario della nostra etica, della nostra tolleranza e, di conseguenza, dei diritti umani. Genere umano in senso generale, ma anche genere umano come persone in carne e ossa. In fondo," non ha molto senso amare l'Umanità in astratto" - scrive l'autore; anzi, i fanatici della morale eterodiretta (cioè dettata da una religione o, comunque, da un'autorità esterna) spesso amano proprio l'Umanità astratta e, in nome di essa, sono capaci di compiere dai più orrendi misfatti alla concreta negazione del diritto degli altri a vivere secondo le proprie scelte e inclinazioni personali. "Dopo tutto – osserva Savater - nessuno di noi incontrerà mai la signora Umanità né sarà costretto a cederle il posto in autobus; ma ciò che è veramente difficile è rispettare gli altri esseri umani reali e ancor di più se sono strani, se vengono da lontano, se parlano un'altra lingua e hanno altre credenze, come ormai accade in molte nostre città. Rispettare il prossimo che ci somiglia è abbastanza ovvio, perché in certo modo equivale a rispettare noi stessi, visto che siamo come lui: la difficoltà inizia quando dobbiamo accettare il diverso, l'estraneo, lo straniero, l'immigrante". Ma questa difficoltà esiste anche quando dobbiamo accettare che gli altri si comportino, in materia di scelte personali, in modo diverso da quelli che riteniamo la nostra visione della vita o, più pomposamente, gli architravi della civiltà.
"Ma, come vivere nel miglior modo possibile?". Questa domanda, conclude l'autore, "è molto più sostanziosa di altre apparentemente tremende", come la questione se dopo la morte c'è vita o se vale la pensa di vivere oppure se la vita ha un senso. "...La vita ha un senso, un senso unico; va avanti, non c'è la moviola, le giocate non si ripetono e non si possono correggere. Per questo bisogna riflettere su quello che uno vuole e pensare a quello che si fa".

Sedicesimo percorso - per concludere, anzi no

MicroMega

Sarebbe perlomeno avventato pensare di concludere davvero questa serie di percorsi sulla religione. Anche perché non solo la polemica, ma le concrete ragioni di discussione continuano a irrompere nella cronaca e nella vita quotidiana. Fossero discussioni di scuola e di indirizzi etici e filosofici, la cosa testimonierebbe della persistenza di modi di pensare per me non condivisibili, ma sarebbero anche il segno di una vivacità intellettuale e di un fertile terreno di confronto. Sfortunatamente non è così, perché il terreno di confronto sono le leggi dello stato e, come ho cercato di dire in questi percorsi, sono l'autonomia e la maturità personale del cittadino nel campo etico e delle scelte dei valori, oggetto di tentativi di restrizione, spesso coronati di successo, da parte della gerarchia cattolica. Perciò non si può discutere in astratto, facendo finta di niente, come fa, ahimè, Giancarlo Bosetti, rispondendo a Piergiorgio Odifreddi, su la Repubblica del 7 gennaio 2008, con l'articolo Ma laicità e ateismo pari non sono. Perché, facendo finta di non vedere che la laicità dello stato è sotto attacco concentrico, si incorre nel facile scivolone di definire clericalismo e anticlericalismo come opposti estremismi, cercando di ritagliarsi un ruolo da equilibrati e moderati custodi della pace religiosa. Ora, vorrei ricordare che: i.) l'anticlericalismo non può esistere se non c'è un clericalismo; ii.) ci sono stati (e ci sono) illustri credenti e religiosi che si sono dichiarati anticlericali; iii) l'anticlericalismo è la lotta contro l'ingerenza della religione nella sfera costituzionale e politica; iv.) non siamo parlando di un atteggiamento da mangiapreti di stampo ottocentesco, ma della difesa dei fondamenti dello stato liberale e democratico.
Oppure si ritiene che gli interventi della Chiesa in materia matrimoniale, di dignità della morte, di possesso del proprio corpo, di fecondazione artificiale e assistita, di aborto e così via siano solo l'espressione di una doverosa rappresentazione dei propri principi etici? Non è sotto gli occhi di tutti la potenza di intervento legislativo e l'ingerenza continua del Vaticano su ciò che si può o non si può fare nel campo delle scelte personali? Certo che laicità e ateismo non coincidono necessariamente, come afferma Bosetti: si può essere laici e agnostici, oppure laici e moderatamente credenti (teisti o dotati di doppia morale o incerti); oppure credenti ma fermamente convinti dell'autonomia della politica nei confronti della religione. Anche se in quest'ultimo caso si tratta di una strada assai impervia da praticare: in Italia e non in altri paesi, pure in quelli a forte presenza cattolica. Ciò che è del tutto assurda è l'affermazione di Bosetti che l'ateismo sarebbe una metafisica, anzi una forma di metafisica asseverativa, per la quale non può essere tirata in ballo la scienza. Ora, è del tutto evidente che si può essere credenti e assumere nel contempo un punto di vista scientifico sull'universo. Già, ma credenti in cosa? Perché un conto è ritenere che, alla fine o al principio di tutto, ci sia una qualche indicibile e inconoscibile divinità immanente o meno, oppure una specie di teoria del tutto, ma che l'universo sia regolato da leggi. È la cosiddetta ipotesi Dio sulla quale la scienza non ha nulla da dimostrare o da non dimostrare, anche se Dawkins, come abbiamo visto, osserva che si tratta di un'ipotesi impraticabile dal punto di vista della complessità e della probabilità. Ma non ha nulla da dire tanto più la teologia, secondo il mio parere; e, infatti, quando si arriva al dunque essa solleva immediatamente la cortina del mistero e la tautologia della fede. Un altro conto è credere in una religione organizzata coi suoi enormi apparati di credenze, di riti e di miti che servirebbero a stabilire dei rapporti con divinità e sottodivinità personali, dedicate a interferire sul regolare funzionamento dell'universo e della vita. Una macchina immaginaria, insomma.
In altre parole, mentre l'ateismo non è in contrasto con la scienza, anzi tende a utilizzarne i risultati (talvolta forzandone il senso), questa macchina immaginaria lo è. Perciò, classificare un pensiero naturalistico come avente lo stesso fondamento della teologia significa semplicemente aver accettato l'equivalenza di due opposti modi di pensare il mondo, di cui uno è indimostrabile mentre l'altro, nel peggiore dei casi, è almeno probabile e, comunque, aperto verso l'ampliamento delle conoscenze umane. Anzi, questa posizione rappresenta la forma più inconsistente e inaccettabile di relativismo. Peraltro, questo tentativo di equiparazione è esattamente la tesi per cui si battono i credenti nell'Intelligent Design e i credenti fondamentalisti in genere. Più intelligente, la Chiesa ufficiale pretende almeno che le sue verità appartengano ad una sfera diversa; lasciamo stare che pensi anche trattarsi di una sfera superiore.
Ecco, qui, nel caso dell'articolo di cui discorriamo, tocchiamo di nuovo i limiti di una vecchia cultura umanistica nei confronti della scienza. Ma forse, siamo ad una convinzione su base di tattica politica, per cui conviene far andare avanti la scienza per la sua strada, ma senza dirlo troppo in pubblico, cioè senza farle svolgere alcun compito educativo. Certo che il mondo offre oggi molte opzioni possibili, come sottolinea Bosetti, ma se anche lui ritiene – per riprendere una citazione più volte fatta – che Topolino, Monna Lisa e quant'altro si equivalgano siamo davvero alla destrutturazione culturale e (quel che è peggio) politica, non a una battaglia per la cultura.
Così, è bene tentare di riassumere il senso di questi diciassette percorsi sulla religione dedicandosi alla lettura di una serie di saggi brevi, che hanno anche il pregio, nel loro complesso, di proporre una specie di bilancio della situazione; oltre che di precisare ciò che i laici dicono o non dicono per davvero. Parlo del numero monografico di MicroMega uscito nel dicembre del 2007, Per una riscossa laica, [Roma, Gruppo Editoriale L'Espresso, pp. 240]. Si tratta di una pubblicazione importante, sia per gli argomenti affrontati sia per gli autori presenti, alcuni dei quali abbiamo già incontrato durante questi percorsi dedicati alla religione. La ricchezza e la varietà dei contributi mi costringere però a farne delle citazioni sommarie.
Forse qualcuno avrà pensato che le posizioni e i giudizi espressi nel corso di questi percorsi siano viziati da preconcetti, come il continuo parallelismo tra l'integralismo islamico e quello cristiano o come l'accusa a certo cattolicesimo di voler rimettere indietro l'orologio della storia. Ebbene, per cominciare, si legga l'articolo della storica Marina Caffiero, intitolato Miracoli e storia, sull'imponente tentativo in corso da parte di ambienti cattolici e reazionari di falsificare la storia, contraffacendo citazioni, prendendo per buoni documenti inattendibili, accusando gli storici di giacobinismo e reintroducendo nella storia "il soprannaturale, il mistero, l'irrazionale" come spiegazione degli eventi. Il capofila di questa pubblicistica è lo scrittore Vittorio Messori, il quale ritiene che "la fede rappresenta il principio assoluto di verità a cui anche la ricerca scientifica deve essere subordinata"– applicando le istruzioni ufficiali della Chiesa sulla prevalenza delle fede sulla scienza – per cui la storia si riduce a una apologetica infarcita di miracoli. La bestia nera di questo filone in espansione è la Rivoluzione francese perché "vi vede il frutto maggiore del complotto anticattolico, l'antitesi radicale e manichea tra Chiesa e modernità e tra fede e ragione, l'avvio di minacciosi processi di secolarizzazione e di laicizzazione in grado di sconvolgere l'assetto tradizionale della società cristiana". Naturalmente, queste correnti ideologiche – che trovano ospitalità in giornali autorevoli - professano un antiebraismo nemmeno tanto occultato.
Ma veniamo all'articolo iniziale a firma di Paolo Flores d'Arcais, Le tentazioni della fede (undici tesi contro Habermas), nel quale l'autore critica a ragione il capovolgimento tentato da Habermas tra razionalità e fede con una serie di rovesciamenti verbali in cui l'accusato diventa l'illuminismo, ormai laicisticamente sclerotizzato nella modernità. Il tentativo di Habermas, come ho già detto, mira a ristabilire una consonanza tra fede e razionalità ma, nel farlo, chiede tutto alla razionalità, anche di diventare irrazionalità, e nulla alla fede. Tanto che cerca di istituzionalizzare la fusione di due universi separati, che rimangono "retti da regole opposte e incompatibili" – osserva Flores d'Arcais – inventando un terreno di comunicazione libero dagli opposti estremismi del naturalismo e dell'ortodossia religiosa, i quali metterebbero "a rischio la stabilità della comunità politica". Naturalmente, per poter sostenere una tesi del genere Habermas ha bisogno: i.) di fare una caricatura della scienza; ii.) di denunciare l'esistenza di una deriva scientista. Cosicché, dopo aver bruciato tutti i ponti della comprensione della scienza e averla accusata di mire che la scienza non ha (come quella di dirci come dobbiamo comportarci), ad Habermas non rimane che rifugiarsi in una teologia, che è poi quella di Hegel. Gli scenari che Habermas dipinge per motivare le sue affermazioni sono a dir poco apocalittici, ma sono scenari finti, perché – come ho già detto – non se la prende con le cause reali dei pericoli planetari che accompagnano il nostro futuro, ma l'apocalisse gli serve per sostenere un ruolo suppletivo della religione nei confronti di uno stato inaridito e deragliato a causa dei processi di razionalizzazione culturale e sociale (leggi: secolarizzazione). Insomma, si tira fuori - come sottolinea Flores d'Arcais – dalla lotta per la democrazia dentro la democrazia, mentre il rischio, il vero rischio è la democrazia incompiuta.
Emilio Carnevali scrive su Il "terrorismo" vaticano, il cui sottotitolo esprime compiutamente il senso dell'articolo: "Le gerarchie ecclesiatiche usano gridare allo scandalo e spesso accusano addirittura di terrorismo chi osa semplicemente ricordare fatti storici e verità indiscutibili. Eppure eminenti rappresentanti della Chiesa apostolica romana non mostrano il minimo senso del pudore – né tantomeno di onestà – quando trattano – con espressioni, queste sì, davvero terroristiche – temi come l'aborto, l'Aids, l'omosessualità, l'eutanasia. Leggere per credere". Dove il leggere riguarda un florilegio di citazioni della gerarchia ecclesiastica.
Gian Enrico Rusconi, del cui libro ho già a lungo parlato, anticipando anche alcuni contenuti di questo articolo, ragiona su La ragione di Ratzinger e la ragione tout court, riuscendo a mettere in evidenza con molta chiarezza la distanza di mentalità che separa un laico dagli insegnamenti della Chiesa e, molto opportunamente, precisa che l'accusa di proceduralismo senza valori che viene mossa allo stato laico, mentre è esattamente ciò che permette al credente di esprimere la propria etica, non è affatto privo di valori. È certamente un valore il fatto che quando nella democrazia laica "si manifestano credenze e convinzioni incompatibili tra loro" ciò che decide non sono le Verità Ultime autoritativamente imposte, ma "le procedure che minimizzano il dissenso tra i partecipanti al discorso pubblico". Ho la sgradevole sensazione che questo continuo e gratuito attacco portato dai più diversi ambienti a una supposta democrazia senza valori, coinvolgendo proprio tali procedure, significhi soltanto che si è stanchi della democrazia. Senza aggettivi.
Mauro Barberis, osserva che quattro secoli dopo Galileo la storia si ripete e che la Chiesa continua preferire dei pastrocchi metafisici a autentiche teorie scientifiche come l'evoluzionismo.
Felice Mill Colorni attacca il multiculturalismo che punta all'integrazione degli stranieri attraverso la religione e il comunitarismo, come abbiamo già visto parlando di Amartya Sen e della questione delle identità. Ma lo fa con una sintesi interessante. Come sintetica e efficace è la rapida ricognizione di Piefranco Pellizzetti, il quale sottolinea che "una visione del mondo disincantata e laica va di pari passo con il progresso sociale e civile". Forse, tra le tante diagnosi sul possibile declino dell'Italia, andrebbe messa l'espansione del pensiero religioso e una certa ripresa dell'egemonia cattolica gestita da alcuni decenni direttamente dalla Chiesa.
Nel numero monografico c'è poi il resoconto di una tavola rotonda o, meglio, di uno scambio di idee non sempre felicemente coordinate a distanza, tra alcuni degli autori che abbiamo già incontrato (Dennett, Harris, Savater) e altri studiosi di diversi orientamenti
Carlo Augusto Viano tratta naturalmente dei miracoli e delle imposture, ma aggiunge anche un secondo interessante contributo sul perché la condanna di Gesù fosse inevitabile.
Le contraddizioni della Chiesa a proposito di eutanasia (Linda Pavanelli), si accompagnano al già citato Telmo Pievani, il quale si chiede Chi ha paura dell'ateismo? Precisando ciò che Dawkins ha detto e ciò che non ha detto, ma criticandone anche alcuni aspetti.
Eugenio Lecaldano, della cui etica ho parlato nel precedente percorso, propone il tema de La propria vita e la propria morte, rivendicando la formulazione di una nuova etica di fine vita, di fronte agli enormi progressi compiuti dalla scienza medica. Propria morte perché l'imposizione di punti di vista vetero-religiosi riguarda, come sempre, l'etica altrui, largamente applicata nel nostro paese. Il matrimonio (Riccardo Ferrante), l'egemonia vaticana in TV (Fabio Bartoli), la scuola in debito di laicità (Carla Castellacci), i meccanismi truffaldini dell'8‰ (Maria Bonafede), la libertà delle religioni e dalle religioni (Pierluigi Chiassoni) e, all'inizio del numero monografico, una testimonianza di Alessandro Dal Lago sulla laicità incompiuta e una ricostruzione dello storico Marco Revelli sul peccato originale della sinistra in materia di rapporti con la Chiesa, concludono il panorama degli articoli. L'ultimo saggio è la riproposizione di uno scritto del filosofo Mark Lilla, già pubblicato sul New York Times, il quale, chiudendo la rassegna su La politica di Dio, sostiene che "fintanto che un gran numero di persone crede nelle verità di una teologia politica globale non ci si può aspettare la piena riconciliazione con la democrazia liberale moderna".

A conclusione di questa serie di Labirinti dedicati alla religione debbo dire che non si è affatto persa la speranza in un mondo migliore, in questo mondo non in un altrove; e che non sarà un intervallo della storia, l'increspatura di un tempo breve (il tempo presente) che molti intendono far credere come definitivo, a oscurare tale possibilità. I cicli ascendenti a spirale della storia non sono terminati. Non ci sarà affatto una fine della storia, se finalmente di assumerà pienamente il tema dello sviluppo umano come libertà, caro a Amartya Sen, come presupposto dei diritti umani universali. Non si tratta solo di una speranza politica, ma della fiducia in un processo tutto sommato inarrestabile, se la civiltà dell'uomo è iscritta nell'avventura dell'evoluzione. In fondo, salendo lungo la scala evolutiva, aumentano progressivamente i gradi di libertà e l'automatismo degli istinti cede progressivamente il posto a decisioni meno predeterminate e più riflettute. È un viaggio che non è ancora terminato.
La stessa democrazia – che è il corollario necessario dei diritti umani - è un viaggio che non ha termine, anzi, la democrazia è il viaggio, è l'avventurosa storia umana che si riempie strada facendo di nuovi significati e di potenzialità prima inespresse e nella quale è impossibile indicare il limite oltre il quale c'è altro. E, naturalmente, c'è la speranza che l'evoluzione (naturale e culturale) proceda nel senso di favorire l'adeguamento e la modifica degli antichi costrutti mentali, in un mondo in cui i punti di vista arcaici sono di ostacolo a un armonioso sviluppo dell'umanità e al dispiegamento di una libertà più piena
Tutto sommato, si tratta di una speranza ben più solida di quella agitata dalla metafisica dell'ultima enciclica papale. È di pochi mesi fa la pubblicazione sui Proceedings of the National Academy of Sciences risultati di una ricerca, secondo cui l'evoluzione dell'uomo continua, anzi accelera e che "noi saremmo geneticamente più differenti dalle persone che vivevano cinquemila anni fa di quanto non lo fossero esse dai Neanderthal". Insomma, l'evoluzione avrebbe "operato a un tasso cento volte superiore a quello di ogni altro periodo precedente della storia dell'umanità", essendosi in questo breve arco di tempo modificato circa il sette per cento del patrimonio genetico umano. Si tratta di una ricerca condotta da John Hawks e altri, i quali sono riusciti a quantificare, grazie al successo del Progetto genoma umano e all'incredibile quantità di dati disponibili, la "correlazione fra dimensione di una popolazione e selezione naturale", già ipotizzata da Darwin. La diffusa teoria secondo cui l'evoluzione umana sia rallentata o addirittura arrestata è priva di fondamento, cosicché questa notizia può dare il benservito a quelli che insistono sull'Intelligent Design e sulla creazione divina una volta per tutte, e che si ostinano a camminare con la testa voltata all'indietro.
Sì, ci sono speranze.

(fine dei Labirinti dedicati a Il trono, l'altare e al-minbar)

continua con la bibliografia e sitografia dei sedici percorsi

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