20. Labirinti di lettura
IV. In/out: sul lìmine della civiltà

- seconda parte -
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11. Di mese in mese

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La crisi, come è apparso nei precedenti percorsi, e come vedremo di nuovo tra poco è molto profonda, poiché quella finanziaria ne è solo un aspetto. Per questo qui prendiamo in considerazione l'ipotesi di una crisi di sistema, proposta nelle sue analisi dal Laboratoire Europeéen d'Anticipation Politique, un centro di studi che ha saputo prevedere la crisi ben prima degli altri (il rapporto che descriveva la crisi globale in arrivo era del dicembre 2006) e le cui analisi su ciò che sarebbe avvenuto nel breve-medio periodo si sono purtroppo dimostrate finora sostanzialmente corrette. Diciamo purtroppo perché le conclusioni del Laboratoire sono davvero catastrofiche, per quanto riguarda il prossimo futuro. Ci torneremo sopra in seguito.
Davanti al baratro che si è aperto, l'azione dei governi sembra far tornare di attualità John M. Keynes, visto che tutti stanno varando giganteschi piani di spesa pubblica per tamponare la crisi e finanziare le perdite del mercato. Keynes era peraltro accusato di criptosocialismo dai liberisti fondamentalisti degli ultimi trent'anni del Novecento e abbiamo visto poco fa quanto il keynesiano Federico Caffé era rimasto un inascoltato ammonitore. Eppure, ha scritto Stiglitz, "ha fatto più Keynes per salvare il sistema capitalistico di tutti i finanzieri pro mercato messi insieme". Così come oggi il gigantesco piano di intervento adottato da Barak Obama scandalizza i repubblicani e gli antistatalisti e fa titolare un editoriale del New York Times: American socialism? Ma non saranno gli strilli dei conservatori e nemmeno, purtroppo, le pur consistenti misure straordinarie di Obama a risolvere davvero il problema di una crisi di sistema. Lo stesso Paul Krugman scrive ancora sul New York Times del 9 marzo 2009. "Eppure, molti economisti, me compreso, hanno sostenuto che in realtà il piano era troppo piccolo e troppo prudente". E le medesime cose ha ripetuto nel suo recente incontro con la Commissione Europea, dichiarando che la risposta di Usa e Ue alla crisi è inadeguata. Krugman – ha riferito una nota dell'Ansa - ha detto di essere deluso: "Gli Stati Uniti non stanno facendo abbastanza, ma l'Unione europea sta facendo ancora meno" [...] In Europa servirebbe uno sforzo in stimoli fiscali del 4% del Pil (500 miliardi euro)". Il principale problema dell'Ue, per Krugman, è quello di non avere un'autorità centrale di bilancio. La cui costituzione è stata osteggiata in primo luogo dalla Gran Bretagna, ma anche da altri paesi
Comunque, per ora, nemmeno dall'America vengono messaggi rassicuranti sulla volontà di affrontare il nodo di una riforma finanziaria radicale del mondo, concentrata com'è solo sui problemi interni.
Keynes non aveva soltanto proposto un ruolo anticiclico dello Stato come erogatore e regolatore di risorse nella dura trattativa con gli americani, per dare una prospettiva più stabile al mondo del dopoguerra, aveva anche chiesto di creare un banca delle banche centrali, in grado di emettere la propria moneta, il bancor, con il compito di rifornire il mondo di liquidità sufficiente, un'istituzione al disopra delle parti. Invece, nel 1944 vennero creati solo il Fondo monetario, di fatto governato dagli Stati Uniti, e una Banca mondiale con scarsi poteri. Abbiamo visto le critiche di Stiglitz sul funzionamento e sulle responsabilità di queste due istituzioni. L'insegnamento fornito dalla creazione dell'euro dovrebbe suggerire di riproporre oggi, magari aggiornata, l'idea del bancor di Keynes, sostituendolo ai meccanismi attuali dei diritti speciali di prelievo. Sarebbe un primo passo verso un assetto mondiale in cui i movimenti della speculazione monetaria comincerebbero a essere messi davvero sotto controllo. Ma questo significherebbe, in prospettiva, che gli Stati Uniti non potrebbero più stampare dollari e bond del Tesoro, sicuri che gli altri paesi ne farebbero provvista, finanziando così le sue spese interne. Ci sono anche problemi strutturali e geopolitici, analizzati dell'articolo Il debito pubblico degli Stati Uniti di Daniele John Angrisani, per pensare che ciò potrà avvenire.
Per queste e altre ragioni, non sembra perciò realistico immaginare che l'amministrazione americana convenga di passare da una gestione pressoché unilaterale del sistema finanziaria mondiale a un sistema condiviso in cui la loro libertà di azione sia limitata. Anche se qualcosa dovranno cedere. Una nota Ansa riportava l'intervento di Timoty Geithner, neo ministro americano del Tesoro, all'ultimo meeting di Davos in questi termini: "Al di là dei possibili modelli da adottare, ovvero quello europeo o quello americano, l'importante è trovare una strada comune per disegnare degli standard efficaci, e questo richiederà la stretta collaborazione di tutti i Paesi." Il che vuol dire che se gli europei insistono su un nuovo assetto mondiale (ma in quale misura e convinzione?), non c'è ancora traccia, ad oggi, di un accordo con gli USA. Del resto, ha notato Paul Krugman, lo stesso Geithner, se aveva denunciato i pericoli di un sistema completamente deregolamentato (ma solo nel giugno 2008, quando era ancora presidente della New York Federal Reserve Bank), ne aveva anche sottovalutato sottovalutato la portata e gli effetti.
Può darsi che nel prossimo futuro - al contrario delle dichiarazioni più ottimistiche che vengono di continuo proposte dal governi (lasciamo perdere il teatrino di quello italiano), e puntualmente smentite ad ogni revisione delle previsioni degli organismi internazionali (il peggio deve ancora venire...) - il disastro annunciato sarà talmente più grave di quanto si prevede da costringere i responsabili a prendere provvedimenti più radicali.
Joseph E. Stiglitz, nel libro La globalizzazione che funziona ha avanzato l'ipotesi di una sorta di riedizione del bancor di Keynes, attraverso l'adozione di una banconota universale che spezzi "la logica della somma zero che ha provocato una crisi dopo l'altra". Anzi, prevedendo la resistenza degli Stati Uniti ad aderirvi, si spinge a proporre che tutti gli altri paesi adottino il nuovo sistema in attesa che gli States si decidano a fare altrettanto.
Può darsi che abbia invece ragione l'economista Franco Modigliani che l'idea del bancor era astratta allora, visto il predominio degli USA, e che è superata oggi, in regime di cambi fluttuanti. Ma forse, proprio oggi avrebbe un senso molto diverso da quello proposto a suo tempo da Keynes, specialmente se, come è possibile, molti paesi cominceranno a essere più cauti nel costituire le loro riserve in dollari (e ora anche in sterline) e magari, come alcuni stanno già facendo, sposteranno le loro riserve dai dollari agli euro. Angrisani, per esempio, nell'articolo succitato, riporta l'opinione che l'atteggiamento degli USA nei confronti dell'Iran derivi proprio da questa preoccupazione e che la minaccia di invasione (per lo meno fino ai tempi di Bush) serviva anche come avviso nei confronti degli altri paesi dell'Opec.
Eppure, sebbene abbiamo visto che anche Paul Krugman, attraverso un esperimento mentale, giunge alla conclusione che una moneta mondiale (il globo) non funzionerebbe, non bisogna sottovalutare quanto affermato da Giorgio Ruffolo, che proprio con il dollaro diventato moneta di riserva mondiale è cominciata l'età della sregolatezza. Che dura tutt'ora. Speriamo che questa osservazione sia ben presente nelle opinioni che contano nello scacchiere mondiale.
In realtà, l'esperienza dell'euro sembra aver fatto breccia nelle sovranità statali di altri continenti e il battere moneta in un futuro prossimo potrebbe essere trasferito a raggruppamenti di paesi viciniori. Nel 2006, Cina, Giappone e Corea del sud hanno cominciato a discutere la possibile creazione dell'acu (Asian currency units). Si è parlato anche della possibile creazione di un amero (Stati Uniti, Canada, Messico), che però sembra porre problemi insormontabili, almeno nel breve periodo; così come nel caso dell'eco (Africa Occidentale), dell'afro e del khaleeji (Stati del Golfo). Questi abbozzi di proposta sono stati anche derisi, ma sarà da vedere se ora la crisi accelererà o frenerà questi processi di semplificazione monetaria. In ogni caso la possibilità di costruire nuove regole del sistema finanziario internazionale non potrà prescindere dalla situazione attuale in cui, con la caduta della sterlina, le monete mondiali di riserva sono rimaste solo due, il dollaro e l'euro. Intanto, con molta cautela, qualche economista (come Marcello De Cecco, su Affari&Finanza de la Repubblica del 9 febbraio 2008) comincia a interrogarsi sulla possibilità che il dollaro non sia più in futuro moneta di riserva e si chiede se per caso non siamo alla fine di un regime (monetario): "Non siamo ancora all'ultima fase, quella della fuga dal dollaro, ma nemmeno più tanto lontani da essa". In altre parole, non siamo forse alla fine del ciclo aperto con l'unilaterale decisione degli Usa di sganciare il dollaro dall'oro nel 1971 e con il successivo accordo del Gruppo dei Dieci, che dette inizio al regime di fluttuazione dei cambi? E se è così, quale regime monetario e di controllo dei movimenti finanziari sarà necessario introdurre per superare la crisi? Qui non si tratta solo di rafforzare regole e controlli, come ormai tutti auspicano e dicono di voler fare. Qui si tratta di mettere sotto controllo una massa debitoria pari a 14/20 volte il prodotto mondiale lordo, come abbiamo già segnalato nel precedente percorso. Qualcuno, in modo secondo noi eccessivo, parla di fine della globalizzazione, anzi se l'augura.
Su questi temi gli americani sembrano particolarmente silenziosi, anche se c'è da immaginare l'esistenza di un confronto serrato nel chiuso degli incontri riservati e delle strutture tecnocratiche internazionali (almeno, lo speriamo). È difficile interpretare in un senso o nell'altro la dichiarazione di Valerie Jarrett, "la super-consigliera del neo presidente americano Barack Obama, unica rappresentate del Governo Usa a Davos", la quale ha detto che "gli Stati Uniti sono pronti a riprendere la leadership globale". [Il Sole/24 Ore del 30 gennaio 2009]
Purtroppo, non ci sembra che né nel programma, né nel piano che il Congresso ha finalmente varato, né nelle interviste finora rilasciate ci sia in Barak Obama l'intenzione di affrontare, oltre alla crisi degli USA, anche i problemi di un nuovo assetto finanziario mondiale in modo da tagliare le unghie ai comportamenti speculativi e di evitare il ripetersi di pesanti crisi; come chiede almeno una parte degli europei. Per non parlare del fatto che alla netta presa di posizione in difesa dei diritti umani (nel caso specifico, la chiusura della mostruosità di Guantanamo) corrisponde solo un parziale cambiamento di rotta sullo scenario internazionale, perché non sembra che gli Stati Uniti intendano ratificare il Trattato sul Tribunale Penale Internazionale, "una condizione questa - ha commentato un osservatore - che continua a porre Washington fuori dal Diritto Internazionale". Assieme a Russia, Cina e Iran.
La questione vera non è se Barack Obama sia o no una straordinaria novità - perché indubbiamente lo è, così come sono del tutto straordinarie le misure finora adottate e lo stesso mutamento di rotta della politica estera (ci fosse da noi un tale riformismo!) - ma se è cambiato il blocco sociale che lo ha sostenuto, se esso sarà abbastanza stabile e abbastanza riformatore, tanto da riuscire a prevalere nei confronti dei miopi interessi di Wall Street e dintorni e dei santoni del neoliberismo, oggi momentaneamente camuffati e persino presenti nel governo di Obama. Paul Krugman, per esempio, nella già citata nota apparsa sul New York Times, teme che a partire dal prossimo settembre, quando i provvedimenti presi da Obama non avranno sortito gli effetti sperati, il clima dell'opinione pubblica americana potrà cambiare. E sembra, da recenti sondaggi, che stia già cambiando.
Intanto, scavando più a fondo, e a quanto è dato di giudicare dal programma elettorale e dai suoi primi interventi, non sembra che Barack Obama sia orientato a seguire una sorta di neokeynesimo, nel senso di un'estensione del Welfare State, come sostiene anche Gian Paolo Caselli nell'articolo Progetto Obama, apparso su Limes. Se prevarranno, tra i suoi consiglieri economici quelli come Jeffrey Feldestein, allora passerà l'idea che "che il sistema di sicurezza sociale negli Stati Uniti impedisce la formazione del risparmio". Cosicché, l'approccio europeo di una copertura sanitaria pubblica e universale non verrà preso in considerazione e verrà probabilmente sostituito (come si dice nel programma presidenziale) da un'estensione del sistema delle polizze assicurative private, con una non calcolabile ulteriore espansione dei costi complessivi (già oggi molto più alti del PIL che i paesi europei destinano alla sanità) ma con risultati peggiori. Del resto, sembra che solo il 30% dei cittadini americani pensi che lo stato debba assumersi la responsabilità della sanità, per cui l'impostazione di Obama risulta in linea con la maggioranza dell'elettorato.
È vero che se l'economia americana si rimettesse in moto, la Germania e la Cina potrebbero in parte tirare il fiato (e, di conseguenza, anche l'Italia), ma l'effetto dei piani di intervento in corso di attuazione o predisposizione da parte della nuova amministrazione americana non avranno effetti a breve termine, se li avranno, perché la spesa pubblica prevista è giocoforza spalmata su diversi anni. Per non parlare del fatto che il Giappone ha affrontato la sua recente crisi impegnando molte più risorse pubbliche di quelle stanziate da Obama, ma senza effetti consolidati. D'altra parte, la clausola buy american, introdotta nel piano di intervento di Obama, potrebbe – a dispetto delle assicurazioni contrarie - scatenare un guerra protezionistica, come si affannano a segnalare i paesi dell'Unione Europea (nonostante taluni di essi, come la Francia, abbiano imboccato quasi la stessa strada). La clausola vulnera gli accordi raggiunti in sede di WTO e escluderebbe le industrie non americane dai benefici della eventuale ripresa, tanto che da parte europea non è stato escluso un ricorso al WTO. Si potrebbe aprire così un nuovo ciclo protezionistico mondiale, sulla falsariga di quanto è avvenne nel 1929, nonostante tutti si affannino a dichiarare, Stati Uniti compresi, che così non sarà. "La clausola del buy american - ha assicurato Geithner - verrà attuata nel "rispetto delle regole del libero commercio". Non si capisce bene cosa vuol dire, visto che nel piano di interventi è passato un emendamento in base al quale si vieta alle aziende che ricevono aiuti dallo stato di assumere tecnici specializzati stranieri, oltre a obbligarle a rifornirsi da aziende americane.
Nel frattempo, sono fiorite le dichiarazioni, come quelle del cancelliere tedesco Angela Merkel a Davos, favorevole a istituire un'autorità internazionale attraverso un Consiglio economico dell'ONU e a concordare una Carta sull'ordine economico globale. Ciò che infatti preoccupa la Germania, come la Cina, è il ritorno a un protezionismo mascherato, fatto di sussidi statali alle aziende.
Se questi scricchiolii di protezionismo diventassero realtà, varrebbe allora l'avviso di Daniele Archibugi che "i paesi del Nord hanno la possibilità di sopravvivere anche chiudendo le porte a quelli del Sud, che vedono così sostanzialmente ridotto il loro peso contrattuale". Il che potrebbe essere davvero possibile, considerando, come abbiamo visto nel quinto percorso, che la globalizzazione è avvenuta lasciando ancora fuori gran parte dei paesi meno favoriti. Tuttavia, ciò significherebbe anche una riduzione dello sfruttamento delle risorse del Sud, se non si raggiungesse un nuovo e più equilibrato livello di governance globale, ivi comprese le questioni ambientali, con conseguente abbassamento della capacità ridistributiva del reddito nel paesi avanzati, oppure – con un aumento dello sfruttamento - un ulteriore peggioramento delle condizioni di vita dei paesi poveri (ancora più miseria e malattie?). D'altra parte, la spinta al protezionismo non proviene solo dagli stati ma rischia di coinvolgere i lavoratori e le organizzazioni sindacali, come è accaduto di recente nel Licolnshire inglese, con lo sciopero degli operai britannici organizzato dopo che un'azienda italiana ha vinto una gara d'appalto per la costruzione di un impianto di raffinazione ad alta tecnologia, contro l'arrivo di tecnici italiani. Il parallelo con certi atteggiamenti italiani contro i romeni e i lavoratori di altri paesi dell'Est, europei non meno degli inglesi e degli italiani, dovrebbe allarmare molto di più di quanto i media non facciano. Una guerra tra poveri potrebbe innescarsi anche nei paesi più ricchi, con esiti disastrosi per la democrazia.
Quello che emerge dal carosello di incontri governativi non è di facile interpretazione. Il prossimo aprile si riunirà di nuovo il G20, mentre sul lavoro tecnico-diplomatico sotterraneo effettivo in corso, ossia di ciò che accadrà in futuro alle popolazioni del mondo, non è dato di sapere alcunché. Dal precedente summit del G20 riunitosi ancora sotto la presidenza di Bush sono uscite indicazioni assai vaghe, come "la determinazione a rafforzare la collaborazione per ristabilire la crescita e riformare il sistema finanziario", assieme alla dichiarazione di voler respingere il protezionismo e di riprendere i negoziati per il commercio internazionale (Doha Round). Indicazioni subito in parte smentite dai comportamenti nazionali e regionali. Ma una nuova Bretton Woods sembra ancora lontana, specialmente se economisti e governanti continuano a pensare che "ha da passa' a' nuttata", limitando i danni e sperando in una ripresa futura tra due o tre anni. In altre parole, procedendo solo a qualche aggiustamento del sistema. Possibile che si debba sentire dal Vaticano l'ammonimento a cambiare radicalmente il modello di sviluppo? Ammesso che si possano condividere le idee del Vaticano sul retroterra culturale che ha ispirato l'ammonimento.
Non c'è da essere ottimisti, se ha ragione l'economista Luigi Spaventa, il quale ha osservato su La Repubblica del 24 novembre 2008 che, da una parte, l'idea "di un regolatore unico globale è inattuabile" ma che, d'altra parte, quanto è finora uscito dal G20 è assolutamente insufficiente, se l'attuazione delle nuove regole verrà devoluta agli stati nazionali, perché "la finanza, sia pure temporaneamente addomesticata, resterà globale; ma i guardacaccia che dovrebbero impedire il bracconaggio continueranno ad avere uniformi diverse e a restare ciascuno entro i propri confini". Già sarebbe un passo in avanti l'attuazione di ipotesi intermedie, come la costituzione di un Forum internazionale per la finanza sul modello del Wto, ma anche questa ipotesi comporterebbe una cessione di sovranità da parte degli Stati. Sono pronti gli States (ma non solo loro) a un simile passo, nel quale non potrebbero ripetere lo schema del Fondo Monetario Internazionale in cui con il 17,09% delle quote mantengono un assoluto controllo dell'istituzione in quanto unici titolari del diritto di veto? Vedremo, ma abbiamo seri dubbi che ciò avverrà, per non parlare della opacità di simili istituzioni e della loro permeabilità ai poteri lobbistici, come abbiamo visto in precedenti percorsi. In altre parole, chi controllerà i controllori? Per questo l'idea della Merkel non è da buttar via, anche se ha scarse probabilità di essere accettata. Va però detto che in queste circostanze il cancelliere tedesco si sta in realtà comportando come Mr. Jekyll e Dr. Hyde. Da una parte propone soluzioni coraggiose sul piano globale, dall'altra, quando si tratta dell'Europa, improvvisamente diventa miope e autolesionista, seguendo le vecchie logiche nazionali. Non è lei che ha bloccato il tentativo di fare leva sulla crisi per far avanzare una politica economica e fiscale comune europea, imponendo di procedere con interventi solo sul piano nazionale? E lasciando fuori della porta i paesi dell'Est, da poco entrati nell'Unione procedendo a tappe forzate con politiche ispirate soprattutto dalla Germania? In questo modo, se dalla crisi non si uscirà velocemente, saranno state gettate le basi per la dissoluzione del sogno europeo. Il che potrebbe anche accelerare lo spappolamento italiano.
Ma da sole, le ricette europee non basterebbero nemmeno, se non venissero accompagnate da una revisione degli indicatori economici tradizionalmente usati, come il PIL, sostituendovi indici che non tengano conto dei soli dati quantitativi. Per esempio, ha osservato Giorgio Ruffolo, è possibile che l'aumento del traffico di armi venga conteggiato come aumento della ricchezza nazionale e che non si tenga conto, non solo dei bilanci ambientali, e dello sviluppo di altre forme di economia, che pure esistono? [intervista su l'Unità del 3 gennaio 2009].
È indicativo il fatto che il G7 di Roma del 14 febbraio si sia concluso con dichiarazioni tanto povere di contenuti, quanto più i media (almeno quelli italiani) hanno fatto immediatamente da passiva cassa di risonanza di inesistenti decisioni efficaci. Sennonché, passate le ventiquattro ore, i più seri e preparati commentatori, dopo aver riflettuto su quanto era in realtà accaduto nell'incontro, hanno messo a nudo quanto miserelle e collaterali fossero state le decisioni del consesso dei ministri dell'economia. È andata meglio nel successivo vertice di Berlino cui hanno partecipato i paesi europei membri del G20, se non altro per concordare una linea di condotta secondo la quale è necessario mettere sotto controllo gli hedge funds, per confermare il no al protezionismo (almeno formalmente) e per confermare che è necessario "dare al mondo una nuova struttura finanziaria". [Il sole/24ore]
Sembrerebbe, comunque, che la crisi abbia davvero interrotto il tran-tran adottato per anni dal Fondo Monetario Internazionale e dal Tesoro degli Stati Uniti in occasione di tutte le precedenti crisi di carattere regionale. Per dirla con Paul Krugman, la loro politica economica, infatti, era "diventata più che altro un esercizio di psicologia dilettantistica, con il quale [...] hanno cercato di convincere i paesi a fare cose che speravano sarebbero state percepite dal mercato come rassicuranti". Già, ma sembra che nemmeno le iniziative assunte da Barack Obama e dagli altri governanti abbiano finora convinto i mercati visto che la "sensazione degli investitori è che non esiste una cura capace di arrestare l'emorragia di perdite causate da questa crisi finanziaria" – come osserva un commentatore degli andamenti delle borse. Tuttavia, proprio in queste circostanza le borse si stanno rivelando del tutto inattendibili e continuare a identificare con esse il mercato dà ragione alle analisi di Federico Caffé: quando i dati degli organismi internazionali sono negativi, le borse salgono; quando sono positivi, scendono. Non hanno alcuna relazione affidabile con l'economia.
Per tutte queste ragioni, può darsi che siano fondate le analisi del Laboratoire Europeéen d'Anticipation Politique (LEAP) che abbiamo citato all'inizio di questo percorso, e cioè che si tratti di una di una crisi sistemica globale, capace di portare a una disarticolazione geopolitica mondiale. I collaboratori del Laboratoire non sono proprio quelli che potremmo definire degli estremisti, e hanno il pregio di essere indipendenti dai governi e di far parte di un ampio rete di competenze. "Noi avevamo sperato – scrive il Laboratoire in un suo rapporto periodico - che la fase di decantazione avrebbe permesso ai leader del mondo intero di trarre le conseguenze dal crollo del sistema che organizza il pianeta dalla fine della Seconda Guerra Mondiale. Purtroppo, a questo punto, non si può più realisticamente essere ottimisti a questo proposito. Negli Stati Uniti come in Europa, in Cina o in Giappone, i leaders continuano a comportarsi come se il sistema globale in questione fosse solo vittima di un blocco passeggero e come se fosse sufficiente aggiungere del carburante (liquidità) e altri ingredienti (abbassamento di tasse, acquisto di attivi tossici, piani di rilancio di industrie in quasi-fallimento, ...) per far ripartire la macchina. Ma - ed è proprio questo il senso del termine di crisi sistemica globale creato dal LEAP/E2020 nel febbraio 2006 - il sistema globale è ormai fuori uso. Bisogna ricostruirne uno nuovo invece di ostinarsi a salvare quello che non può più venir salvato." Anche secondo il LEAP le ultime speranze sono appuntate sul prossimo summit del G20: [...] "Molto concretamente, il Summit del G20 di aprile 2009 costituisce secondo la nostra équipe l'ultima possibilità per riorientare in modo costruttivo le forze in gioco, prima che si metta in moto la sequenza costituita dalla cessazione dei pagamenti da parte della Gran Bretagna e poi degli Stati Uniti. In mancanza di ciò, [i grandi attori mondiali] perderanno ogni controllo sugli avvenimenti, compresi, per molti di loro, quelli nei loro paesi, cosicché il pianeta entrerà in questa fase di disarticolazione geopolitica come un bateau ivre. Alla fine di questa fase di disarticolazione geopolitica, il mondo rischia di somigliare all'Europa del 1913 più che al pianeta del 2007." [...] "... la nostra équipe ritiene che le entità politiche più monolitiche e più "imperiali" saranno quelle più gravemente sconvolte nel corso di questa quinta fase della crisi. La disarticolazione geopolitica agirà così su stati che subiranno un'autentica disarticolazione strategica, la quale, a sua volta, rimetterà in causa la loro integrità territoriale e l'insieme delle loro zone di influenza nel mondo. Di conseguenza, altri stati saranno proiettati brutalmente al di fuori di situazioni protette, precipitando in situazioni di caos regionale." Una crisi ben peggiore di quella del 1929, insomma. Ci sono commentatori che non condividono questo pessimismo, come si può seguire nel dibattito trasmesso da France24 nel febbraio scorso, De la crise aux guerres civiles?, ma ci sembra che il direttore del LEAP, Franck Biancheri, abbia saputo motivare in modo serio le sue preoccupazioni. Per non parlare del fatto che finora le previsioni del LEAP sono state attendibili.
Quali sono le misure proposte dal LEAP? Esse partivano dal 2008 e poiché non sono state adottate, ciò spiega il pessimismo, fino a prevedere dei torbidi sociali nel quarto trimestre del 2009. Le misure, anche in controtendenza, comprendevano l'innalzamento dei tassi d'interesse fino a tutto il 2008; la messa in opera di un programma per rendere trasparenti i CDS (Credit Default Swaps) e gli altri OTC (Over-The-Counter), che rappresentano la minaccia che circola liberamente per il mondo; un piano, per l'Europa di 5000 miliardi di euro in cinque anni, finanziato da prestiti, per la costruzione di infrastrutture; la creazione di un paniere di monete per tenere sotto controllo il prezzo dell'energia e altre misure. Ora il Laboratoire teme che la mancanza di tempestività farà scattare il "si salvi chi può".
Quale che sia il giudizio sulle misure suggerite, purtroppo la distanza tra la necessaria radicalità degli interventi e ciò che si sta facendo sembra destinata a diventare sempre più pericolosa. Sicché gli scenari disegnati da Jacques Attali, che abbiamo visto in un precedente percorso diventano pericolosamente di attualità. Ma tra pochi giorni, dopo l'appuntamento del prossimo G20, si potrà misurare meglio questa distanza, sperando che le previsioni più pessimiste siano smentite dai fatti, se l'alluvione di carte e di proposte tecniche che arriveranno sopra i tavoli del summit non si perderanno in soluzioni parziali e perciò inefficaci, come ha sottolineato in un dibattito recente l'economista Luigi Spaventa, il quale suggerisce una strada a suo avviso realistica per salvare le banche e mettere sotto controllo gli hedge funds. Spaventa parte dal presupposto che non sia nemmeno realistico, dal punto di vista istituzionale, la creazione di un organismo internazionale che amministri nuove regole sul modello del WTO. A suo avviso, sarebbe già un passo avanti la costituzione di "un segretariato molto snello", appoggiato a organismi preesistenti. Se sarà così, però, il pericolo di nuove crisi non sarà superato, ammesso che quella in corso abbia una durata e una profondità minori di quel che si teme.
Nel corso di questi percorsi ci siamo imbattuti in diverse nozioni di crisi, ma se è vero che si tratta di tre crisi inscatolate l'una dentro l'altra come delle matrioske (finanziaria, ambientale, energetica/tecnologica), ognuna della quali è capace di produrre terribili scenari di conflitti e di danni irreversibili, si dovrebbe convenire che semplici aggiustamenti al posto di un intervento di sistema non renderanno il mondo più sicuro, specialmente se avesse ragione il LEAP che "tutti continuano a giocare sulla base delle regole che conoscono da decenni senza rendersi conto che il gioco stesso è sul punto di scomparire".
Abbiamo passato in rassegna diverse proposte concrete, di carattere istituzionale, ambientale e economico. Si potrebbero riprendere in mano la riforma borsistica immaginata decenni fa da William McChesney Martin e le proposte di Joseph E. Stiglitz sulla riforma dei sistemi di controllo e delle istituzioni finanziarie internazionali, nonché quelle di Archibugi sul sistema giuridico e istituzionale internazionale, e le raccomandazioni del Wuppertal Institut sull'ambiente. Talune di esse sembrano riguardare il libro dei sogni e il loro insieme disegna davvero un altro mondo: ma tra un livello minimo e uno massimo di scelta, c'è spazio per il realismo. Tutte le proposte si muovono infatti nell'ambito di un'economia di mercato. Certo, delineano un altro capitalismo, o meglio, mettono sotto controllo il turbocapitalismo, frenando la distruzione del pianeta e tentando di introdurre nel mondo più equità e giustizia. Bruno Trentin, era poco appassionato all'interrogativo se esisterà sempre il capitalismo. "Io constato – osservava - che esistono diversi capitalismi e non un capitalismo solo".[B. Trentin, Il coraggio dell'utopia. Il coraggio dell'utopia. La Sinistra e il sindacato dopo il taylorismo. Un'intervista di Bruno Ugolini, Milano, Rizzoli, 1994, pp. 266] L'unico legame comune ai diversi capitalismi, che andrebbe messo sotto controllo nelle sue varie incarnazioni, è la cosiddetta società manageriale e anche la superclass globalizzata, di cui ha scritto Rothkopf, la quale opera senza vincoli di sorta.
Ma la globalizzazione non è un fenomeno solo economico. È piuttosto l'idea che la specie umana è una e che è titolare degli stessi diritti fondamentali, ovunque essa viva. Perciò, uno dei problemi più seri è che ci sia anche un governo globale, come ha illustrato Daniele Archibugi con la proposta di una democrazia cosmopolitica. Le circostanze storiche possono favorire un tale processo, così come possono portare a una maggiore frammentazione (la disarticolazione pronosticata dal LEAP e immaginata da Jacques Attali); dipenderà da quanto i governi degli stati che contano di più si renderanno conto che siamo ad uno di quei passaggi stretti della storia in cui è necessario prendere delle decisioni guardando al futuro e non ai sondaggi o agli interessi di circuiti ristretti di potere, per quanto potenti.
Lo storico Eric Hobsbawn ci ricorda che l'idea originaria dello stato moderno, ereditata dalla Rivoluzione francese e da quella americana non ha basi etniche e nemmeno linguistiche; si tratta di "un popolo che sceglie il suo governo, e decide di vivere con una certa Costituzione e con certe leggi". È solo più di recente che l'idea di stato si è identificata con un popolo particolare "caratterizzato da peculiarità etniche, linguistiche e culturali, e che questo costituisce una Nazione". [Eric J. Hobsbawn, Intervista sul nuovo secolo, Roma-Bari, Laterza, 2001, pp. 174] L'idea di nazione è stata un potente fattore di sviluppo, assieme a uno strumento di esclusione e di morte; ma oggi è una eredità, nemmeno plurisecolare, che rischia di generare instabilità e regressione, se non riesce a collocarsi in una costruzione più vasta, speculare alla globalizzazione economica e capace di governare i processi a scala planetaria; cominciando concretamente su scala regionale, come l'Europa non sta purtroppo facendo.
La verità è che nessuno sa bene come uscire dalla situazione attuale. Eppure, la storia va avanti, può andare avanti, se - a meno di incidenti planetari autodistruttivi – si assume uno sguardo storico dal punto di vista evoluzionistico. Ma su questo punto ci interrogheremo in un altro Labirinto.

I libri e i saggi recensiti o citati in questi tre percorsi sono: libri

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