21. Labirinti di lettura
I. La speranza del bruco. Una prospettiva storico-biologica.

Non sappiamo se l'umanità sia in cammino
verso un futuro più nobile,
o verso una inevitabile autodistruzione
.
D. Ruelle

La realtà va identificata e descritta
all'interno della scienza
e non nell'ambito della filosofia
.
W. Van Orman Quine

Quindi il mondo è più di quanto
pensasse Wittgenstein. Il mondo
è tutto ciò che accade e anche
tutto ciò che può accadere
.
Zeilinger

Del resto, se dobbiamo assumere
che le possibilità quantistiche siano sovrapponibili
e interferiscano tra loro generando il corso
degli eventi più probabili, allora bisogna
ammettere che esse coesistano
come fattori generativi dei fenomeni naturali.
Ma se ammettiamo che esse co-esistano
allora dobbiamo anche ammettere
che esse esistano come entità naturali
non osservabili e non come entità ideali
.
R. Nobili

1. Tutto è storia

Questo sarà un lungo viaggio senza approdo. Tanto più che la nozione di storia che si tenta qui di sviluppare non ha a che fare semplicemente con la storia della civiltà umana, nella quale – tradizionalmente – biologia, ambiente e accadimenti naturali sono collocati sullo sfondo, talvolta con irruzioni improvvise sul proscenio, tanto inspiegabili quanto non spiegate. Nel migliore dei casi, in questa vecchia tradizione storiografica uomini e donne hanno a che fare con la natura, ma non sono nella natura, non ne sono espressione piena, quasi che le nostre stesse capacità culturali e tecniche non fossero anche il risultato di un processo naturale. In questi casi, la specie umana non viene mai pensata come il fenomeno della materia che si auto organizza nella vita, diventa natura e raggiunge la capacità di pensare se stessa. È l'antiquato umanesimo che pensa alla nostra specie come entità separata, del tutto altra rispetto al resto del mondo. La stessa scuola francese delle Annales, che ha segnato un grande progresso nel proporre un'indagine storica non fumettistica (sequenza di battaglie, di personaggi, di eventi politici e così via) e non idealistica (un conflitto di idee disancorate dalle basi materiali della vita), cercando di mettere in evidenza le strutture profonde e di lunga durata dell'agire umano, era tuttavia circoscritta ad un'umanità staccata dallo sfondo naturale. Anche le grandiose visioni storiche come quella di Arnold Toynbee, in cui il susseguirsi delle civiltà non è che un processo verso la creazione di un'unica grande civiltà che riuscirà a raccogliere il meglio delle conquiste umane, sono del tutto staccate dalle nostre radici biologiche e evolutive.
Non vogliamo passare in rassegna le diverse concezioni della storia, per quanto sarà prima o poi interessante farlo. Vogliamo invece avviare un'esplorazione verso il futuro che tenga conto del tempo profondo, quello in cui siamo immersi come entità fisiche e biologiche, apparse all'incirca a metà della vita della Terra. Stuart Kauffman, nel libro Esplorazioni evolutive, che ha innescato gli interrogavi di questa serie di Labirinti e di cui parleremo ampiamente, scrive di arrivare "a pensare che abbiamo bisogno sia della scienza sia della storia per dare un senso a un universo dove noi agenti, parte di questo universo, ce la caviamo grazie al nostro saper fare incarnato, guadagnando il nostro momento di gloria sulla scena". In questo senso, Telmo Pievani, nella Postfazione allo stesso volume, parla di "potere della storia".
Non ci sembra possibile riuscire a parlare compiutamente di tutto ciò - sapendo che la biologia è anche una disciplina storica. Come accade spesso al viaggiatore troppo avventuroso, del resto, non è tanto l'arrivare la cosa più importante; l'importante è preparare il viaggio e andare, lasciando alle circostanze e agli accidenti interessanti il rischio di farci prendere vie secondarie che non portano a nulla. Come succede nei labirinti davvero tali. Però, nel nostro caso, si potranno prendere vie traverse (attraverseremo i muri?) per tornare su quella principale, oppure potremo tornare all'inizio della deviazione. Un po' come accade negli esperimenti, dove gli insuccessi non sono inutili perché segnano gli approcci da escludere e ci obbligano a riformulare le domande, fino a intravedere possibili soluzioni.
Nei precedenti Labirinti 17/20 dedicati, con un titolo forse un po' enfatico, al Lìmine della civiltà ci siamo posti alcune domande sulle prospettive della civiltà attuale da diversi punti di vista: economici, ambientali, geopolitici e istituzionali. Anche in questo caso non siamo arrivati a individuare con certezza un'uscita realisticamente praticabile dalle domande poste; siamo riusciti a segnalare, forse, solo alcuni dei percorsi che sembrano non portarci da nessuna parte.
Sarebbe ora da chiedersi, su un piano del tutto diverso, se è possibile affrontare il problema del futuro dell'umanità allargando lo sguardo alle sue presumibili capacità biologiche di superare le crisi che abbiamo descritto nei precedenti Labirinti e che vanno ben al di là del disastro economico attuale, che permane nonostante le esortazioni alla Pangloss dei nostri governanti. Il fatto è che ci sono molti dubbi (non da tutti condivisi, come vedremo in seguito) sulla capacità dell'umanità, giunta a questo stadio della sua evoluzione, in cui si intrecciano come mai nel passato natura, tecnica e un'economia dissipativa, di essere mentalmente (e forse, dovremmo dire, politicamente ed eticamente) attrezzata a compiere quella specie di salto evolutivo che apparirebbe urgente.
Un concetto, quello di salto evolutivo, che non ripercorre certo le piste lamarckiane della volontà di cambiamento. Le espressioni salto evolutivo, volontà di cambiamento risentono delle forti e tragiche influenze novecentesche relative all'avvento di un uomo nuovo, sull'onda di un darwinismo male interpretato e mal digerito, di cui riparleremo. Ci riferiamo ovviamente a quei filoni culturali la cui esasperazione ha prodotto infinite tragedie nel Novecento. Noi qui terremo semplicemente conto che all'evoluzione naturale si è sovrapposta e intrecciata quella culturale: il che riconsegna alle scelte umane coscienti, almeno in parte, le prospettive future. L'espressione salto evolutivo utilizza la versione evoluzionistica degli equilibri punteggiati di Gould e Eldredge. La velocità dell'evoluzione, come ormai sappiamo, non è costante e il gradualismo è per i tempi normali. In realtà, più che di salto occorre parlare di rapida accelerazione che produce impennate di cambiamento. Mario Ageno, in Che cos'è la vita? parla di punti di svolta. Tutti concetti utilizzabili sia in chiave evoluzionistica sia per quanto riguarda la rivoluzione tecnologica, come vedremo in seguito, quando confronteremo la lentezza della selezione naturale con la velocità sempre più accelerata del cambiamento tecnico e delle società umane.
Può sembrare una divagazione, se non un'eccentricità che, avendo iniziato a parlare di globalizzazione nei Labirinti precedenti, si finisca per interrogarsi sul futuro dell'umanità anche dal punto di vista evoluzionistico, ma solo una cultura un po' sclerotizzata, poco adatta a stabilire connessioni che riescano a leggere e a correlare con la dovuta cautela il massimo possibile dei fenomeni dei quali siamo attori e che tenta di escludere attraverso uno specialismo accademico esasperato - per quanto in via di principio reso necessario dall'estensione delle conoscenze attuali - la possibilità di vedere non solo l'albero ma anche la foresta, non può apprezzare questi percorsi. Del resto l'interdisciplinarietà è una delle nuove frontiere della conoscenza.
Con le previsioni, anche quando sono sostenute da una messe di dati e di proiezioni di tendenze occorre essere molto cauti. È vero che esistono ormai metodi raffinati per tentare previsioni probabilistiche e che esistono teorie matematiche come quelle bayesiane che, entro certi limiti, permettono un trattamento delle informazioni e delle interrogazioni sul futuro. Il problema – ci sembra – è che questi approcci sono tanto più efficaci in quanto la materia a cui si applicano è ben delimitata e le informazioni di base sono certe. Un esempio sono le previsioni tecnologiche, di cui riparleremo, che permettono affidabili predizioni sullo sviluppo tecnico possibile, visto che è possibile quantificare, in gran parte, sia linee di tendenza sia dati oggettivi. Ma se le informazioni a priori non sono incontrovertibili e se le inferenze tra un dominio e l'altro, di quelli presi in considerazione, non sono quantificabili, allora il rumore di fondo ci impedisce di confidare in previsioni certe. In questo caso, predomina la soggettività e le credenze individuali possono essere più o meno abilmente impennacchiate e persino imposte dall'autorevolezza intellettuale e/o del potere come interpretazione della realtà e tendenza prevalente per quanto riguarda il futuro, ma non per questo sono più vere o più probabili. Tanto per fare un altro esempio, pensiamo alla interpretazione dell'avvento di una società post-industriale che ha fatto scorrere fiumi di inchiostro e scagliato ripetuti fasci di fulmini sociologici contro quelli che sollevavano una qualche obiezione alla teoria della fine dell'industrializzazione e anche a quella della fine del lavoro. Siamo invece d'accordo con Jacques Attali – e non da oggi - che non sì è trattato dell'avvento di una società di servizi, che sostituiva la produzione materiale, "ma esattamente del contrario: sono gli inizi di una industrializzazione dei servizi, che mira a trasformarli in nuovi prodotti industriali." Un'interpretazione del genere, tra l'altro, ha il pregio di metabolizzare davvero quanto di nuovo è avvenuto nel campo tecnico-produttivo (informatica, biologia, comunicazioni e così via), ma dà esiti assai diversi sulla valutazione del valore-lavoro oltre che della fase socio-economica che si è aperta. In altre parole, fa giustizia degli spericolati cantori delle magnifiche sorti e progressive che hanno accompagnato le gesta dei bucanieri del turbo capitalismo.
Qui però non si tratta di immaginare scenari estrapolando i dati attualmente disponibili, ma di capire se è possibile rispondere a una domanda carica di incognite: possiamo farcela, essendo quel che siamo dal punto di vista della nostra storia evolutiva? Una domanda probabilmente troppo ambiziosa. D'altra parte, si tratta di un interrogativo che ha assunto oggi un senso e un'urgenza nuovi, come è testimoniato anche dalle sempre più frequenti inchieste giornalistiche sull'umanità di domani. Ma nelle riflessioni correnti l'interrogativo viene tuttavia facilmente schiacciato sull'attualità e sul breve periodo; oppure prende la strada dell'analisi dello sviluppo tecnico, senza curarsi troppo né della biologia in senso lato né dei fattori socio-economico-culturali. Anche per queste ragioni, molti autori denunciano che abbiamo perso il senso del passato e quindi anche del futuro, confinandoci in un eterno presente: come se la cesura operata dalla rivoluzione scientifica, economica e mediatica in corso potesse cancellare la continuità profonda della storia a esclusivo vantaggio di un'innovazione mai vista in precedenza. Che non ci siano precedenti nella storia umana e persino evolutiva è vero ma, per non ingenerare confusioni, occorre vedere bene a quale livello e con quali effetti ciò avviene. La cancellazione di ciò che, nonostante tutto, è permanente o di lunga durata nel comportamento umano rischia di ottundere prima di tutto le capacità critiche e poi di oscurare anche la possibilità di progettare un futuro accettabile. Sebbene questa potrebbe essere soltanto una preoccupazione un po' troppo eurocentrica, nel senso che si avverte in Europa molta fatica a superare lo storico nazionalismo degli stati, divenuto ormai un antistorico impaccio e, di conseguenza, sono assai diffusi un pessimismo e quasi una rassegnazione che escludono un protagonismo futuro, specialmente di fronte all'impetuosa ascesa dell'Asia.
L'uso di un prudente condizionale, quando si affrontano temi del genere, è comunque d'obbligo.
L'occasione per iniziare il viaggio è data dalla lettura di un testo in cui il destino dell'umanità è inscritto nell'ambito di un processo evolutivo, come sostiene Aldo Schiavone, in Storia e destino. La tecnica, la natura, la specie: esercizi di futuro e di speranza per prepararsi al tempo che ci aspetta. Il manifesto di un nuovo umanesimo [Torino, Einaudi, 2007].
Procediamo una passo alla volta, chiarendo subito una questione: per quanto ci riguarda, non crediamo che esistano destini e meno che mai finalismi di qualsiasi tipo. Se di destino dell'umanità si vuole parlare, esso potrebbe essere circoscritto dalla biologia e dall'ecologia, ma non iscritto, perché se non esiste alcun finalismo, non è nemmeno sostenibile alcun determinismo forte. Perciò, anche la versione di destino sostenuta da Schiavone potrebbe essere messa in discussione, se si respinge una visione teleologica dell'Universo. Ammettiamo però che quelle poste dall'autore sono domande inquietanti sulle quali, anche partendo dall'accettazione (e come potrebbe essere altrimenti, se si fa funzionare tutta l'intelligenza, e non solo una parte di essa?) dell'evoluzionismo, chi crede può innescare sia il mantenimento della fede in una qualche entità demiurgica, sia una visione storica che sconfina nella metafisica, come nel caso del gesuita e paleontologo Theilard de Chardin, di cui riparleremo.
Schiavone prende le mosse da due constatazioni non nuove che si possono condividere, con gli opportuni approfondimenti. La prima riguarda l'enorme differenza di scala temporale che intercorre tra la lentezza dell'evoluzione e la velocità del cambiamento culturale degli ultimi millenni della storia umana, e le loro correlazioni. La storia è piegata da una sorta di torsione temporale, per cui l'umanità è rimasta prigioniera della sua biologia, mentre "il suo pensiero e le sue azioni" sono uscite dal tempo profondo. La tesi sottintesa è che la mente si è evoluta poco dall'Età della pietra, come sostiene la psicologia evolutiva. Si tratta di un'ipotesi controversa. Secondo David J. Buller "recenti ricerche hanno dimostrato che la selezione modifica radicalmente la storia dei tratti evolutivi di una popolazione in appena 18 generazioni, che per gli esseri umani equivalgono a circa 450 anni." [Quattro errori sulla mente, in Le Scienze, 486, numero speciale, 2009]. Altri autori – si veda in particolare Giorgio Vallortigara, cap. 5 Animato, troppo animato e cap. 7. La macchina delle credenze del libro di Girotto, Pievani, Vallortigare, Nati per credere - sostengono invece la permanenza nell'uomo moderno di schemi mentali evolutisi nell'età paleolitica. Tuttavia, le due ipotesi possono riferirsi a piani evolutivi diversi: la prima alle mutazioni biologiche, la seconda a schemi mentali persistenti.
La seconda considerazione di Schiavone è che "ci stiamo muovendo verso una storia della vita orientata dall'intelligenza e non più dall'evoluzione". Come ha osservato il sociobiologo E.O. Wilson, "... noi ci stiamo congedando dalla selezione naturale. [...] Stiamo per guardare in noi stessi, e decidere cosa vogliamo diventare". [Consilience: The Unity of Knowledge, cit. in R. Kurzweil e in E. Boncinelli]
È da discutere, se l'evoluzione naturale non operi più nella storia umana, e a quale livello ciò avvenga. Certamente, e per nostra fortuna, continua ad avvenire a livello molecolare e genetico. Non solo l'accumulo delle mutazioni non può essere fermato, ma è stato possibile calcolare che l'evoluzione umana negli ultimi quarantamila anni, e soprattutto negli ultimi diecimila, è stata cento volte più veloce "rispetto a ogni altra epoca successiva alla separazione del primo ominide dagli antenati dei moderni scimpanzé". [P. Ward, Che ne sarà di Homo Sapiens?, in Le Scienze, 486/2009] Queste stime, basate su modelli matematici, possono subire dei cambiamenti in seguito all'adozione di modelli più dettagliati e alcuni ricercatori le hanno criticate. Ma su una cosa sembrano non esserci più dubbi: l'evoluzione biologica umana è ancora in pieno dispiegamento ed è stata anzi accelerata negli ultimi millenni da diversi fattori, compresi quelli culturali, che non è qui il caso di illustrare. Però, ciò che sta accadendo, osserva Antonio De Marco nel suo articolo Comparire e poi sparire: le estinzioni riguarda soprattutto le altre specie, perché "la globalizzazione connessa all'incremento esponenziale delle popolazioni umane, sta dirompendo gli equilibri esistenti favorendo l'avviarsi di fortissimi processi selettivi, che comportano un proliferare di fenomeni di estinzioni legati all'enorme velocità con cui si manifestano i cambiamenti ambientali. Molti elementi suggeriscono che ci troviamo di fronte ad una situazione catastrofica determinata dalle attività umane. Non sappiamo se la variabilità genetica presente tra gli organismi viventi sia in grado di dare risposte adattative adeguate; sappiamo che a livello mondiale la diversità biologica sta diminuendo, anche se localmente si registra un suo incremento per fenomeni di ibridazione e di domesticazione." È stato calcolato che negli ultimi quattrocento anni le specie animali e vegetali scomparse per responsabilità dell'uomo sono settecento ottantatre, il che pone anche altri interrogativi sulla direzione che potrà appunto prendere l'evoluzione per riempire i vuoti creatisi: se la pressione antropica impedirà un nuovo proliferare di vita e quali saranno i contraccolpi evolutivi sulla nostra stessa specie. Quest'ultimo caso potrebbe essere solo parzialmente rilevante dal punto di vista dei meccanismi evolutivi diretti, ma importante per gli effetti collaterali. Per esempio, sta emergendo il fenomeno della diffusione su scala planetaria di malattie infettive prima confinate localmente. Secondo una recente ricerca epidemiologica la riduzione della biodiversità, i cambiamenti climatici e i trasporti divenuti globali favoriscono nuovi comportamenti, a scapito della specie umana, da parte dei parassiti e, di conseguenza, dei virus.
Più in generale, è ragionevole pensare che l'evoluzione naturale umana non avvenga più a livello macro a causa dello sviluppo delle capacità tecniche e di controllo della specie umana. Non c'è alcun dubbio, per riprendere una considerazione di Edoardo Boncinelli nel libro di cui parleremo ancora Perché non possiamo non dirci darwinisti, che "per la prima volta il fenotipo di un essere vivente potrebbe agire direttamente sul suo genotipo, modificandolo." Ossia, l'intelligenza scientifica - non solo quella genericamente culturale e pratica che ha agito per gran parte della storia umana - potrebbe orientare il corso di una nuova evoluzione, con l'effetto – tra le altre conseguenze – di far cadere ogni residua barriera tra naturale e artificiale. Barriera che è implicita nella stessa evoluzione della nostra specie di dover fare cadere. La qualcosa va intesa almeno in due sensi, il primo dei quali è quello evolutivo.
Osserva ancora Boncinelli che "più il fenotipo di un organismo è svincolato dal controllo diretto del proprio genotipo, più è in grado di proteggerlo e di conferirgli un vantaggio evolutivo". La tendenza a non essere passivamente dipendenti dall'ambiente appartiene alla vita in quanto tale, anzi potremmo dire che essa cerca di esistere nonostante l'ambiente, inteso in senso lato. Tutta la vita non solo risiede in una nicchia ecologica, ma la co-costruisce modificandola a proprio vantaggio. Come l'azione degli archeobatteri che ha prodotto il cambiamento della composizione dell'atmosfera terrestre in cui la vita come la conosciamo ha potuto espandersi. Perciò, che una specie sia riuscita a sviluppare completamente un assetto culturale, riuscendo così a sottrarsi più delle altre ai condizionamenti dell'ambiente appartiene in pieno allo schema evolutivo e non a una deviazione innaturale, come sostengono i tecnofobi. Inoltre, c'è la questione del grande successo numerico della specie umana dovuto alla medicina, per cui non si riproducono più solo individui sani. A ciò andrebbe aggiunto il fenomeno del mescolamento accelerato delle popolazioni che, sottraendo in pratica all'isolamento i gruppi umani, rende difficile il fenomeno della deriva genetica, ossia l'affermazione di particolari mutazioni. Tanto da far sostenere al biologo Steve Jones che, almeno in parte, l'evoluzione naturale si è fermata o ha fortemente rallentato: "Oggi è la cultura e non l'eredità genetica il fattore che decide se gli individui vivono o muoiono". In sostanza, l'evoluzione non sarebbe più in preminenza di tipo darwiniano, specialmente nel nord del mondo. Ma un recentissimo studio epidemiologico condotto su un campione di duemila donne americane ha mostrato che i tassi di variazione madre-figlio sono allineati con quelli medi riguardanti piante e animali. Gli approfondimenti continuano seguendo un programma di ricerca più ampio. [S. Stearns et al., Natural selection in a contemporary human population]
La inedita situazione evolutiva pone comunque immensi problemi nuovi. Anche Jürgen Habermas, così allarmato per le implicazioni etiche e sociali di questa prospettiva, ritiene che "non è irrealistico pensare che la specie umana possa, a breve termine, prendere nelle sua mani la propria evoluzione biologica". [Il futuro della natura umana]. Certo, c'è qui un salto di qualità nella storia della Terra e della vita e si capisce bene perché la questione sollevi tanti interrogativi, paure e contrarietà.
Alcuni autori - come Arnold Gehlen in Prospettive antropologiche – hanno osservato che ci troviamo di fronte a una cesura storica di prim'ordine: la modernità rappresenterebbe la terza epoca della storia umana (dopo i passaggi caccia e raccolta / agricoltura / natura inanimata oppure, neolitico / agricoltura e scrittura / rivoluzione industriale); ma i nostri percorsi usciranno dalla ristretta registrazione antropologica perché i cambiamenti possibili nel vivente sono più profondi di quanto potesse apparire quaranta anni fa. Ci inoltreremo nell'ipotesi di quella che viene definita una singolarità - sulle cui diverse accezioni torneremo ampiamente -, e che va ben oltre le tradizionali periodizzazioni storiche, comparando la fase che forse attraverseremo in un futuro immediato all'emersione dell'autocoscienza nella nascente specie umana. Parlarne non rappresenta più un esercizio di fantascienza o un approccio visionario alla realtà, perché la nuova fase evolutiva dell'umanità comincia già ad essere sotto i nostri occhi ed è meglio non rimanerne sorpresi, attardati nelle anticaglie e nei relitti di pensieri che abbiamo ereditato e che non danno più un'interpretazione affidabile della realtà. La prevedibile convergenza di tecnologie (biotecnologie, nanotecnologie, robotica), congiunta a un'esponenziale crescita delle capacità di calcolo dei computer, già in parte avviata, potrebbero generare scenari del tutto fuori centro rispetto al tradizionale andamento delle civiltà umane.
Ne discuteremo in seguito – anche per il confinante e controverso dominio della sociobiologia - ma sempre partendo da una concezione di ciò che è naturale libera da incrostazioni ideologiche e religiose, per quanto possibile. Cercheremo di sgombrare il campo anche da ambientalismi deformati al cui fondo c'è un'aspirazione non dichiarata à la Rousseau per impossibili ritorni indietro, sapendo – come ha scritto Roberto Marchesini nel suo Post-human – che "se il problema fosse quello di non interferire con la selezione naturale, ebbene l'avremmo già fatto", iniziando il processo parecchi millenni fa. Niles Eldredge aggiunge che "gli esseri umani manipolano i geni degli organismi da 15.000 anni e probabilmente da più tempo ancora". La quasi totalità del pianeta, ivi compresa la vita, è ormai antropizzata. A meno di sostenere che l'acceso all'autocoscienza da parte della specie umana – l'innesco di tutte la vicende successive - sia stato un evento innaturale. Il che equivarrebbe a sostenere il pasticcio mentale che l'umanità e la sua storia, per loro natura, sono innaturali, qualsiasi cosa ciò voglia significare. Ma qui non interessano, ovviamente, le varie ramificazioni del pensiero mitico-religioso e new-age.
Ora, i tre condizionamenti principali che ogni specie deve riuscire ad aggirare per sopravvivere riguardano i casuali sconvolgimenti esterni (glaciazioni, condizioni ambientali di lungo periodo, eventi sismici a grande scala e così via); poi, quella che è definita come genetica delle popolazioni nelle sue varie espressioni (aumento e contrazione di numero, deriva genetica e così via); infine, le mutazioni genetiche casuali, il più delle volte neutrali, molte volte negative e talvolta positive ai fini della sopravvivenza e della riproduzione dell'individuo e, quindi, della trasmissione della mutazione. Paradossalmente, non possiamo nemmeno dire che a tutto ciò si deve oggi aggiungere come novità assoluta quella dei mutamenti prodotti dalle attività umane, come nel caso del riscaldamento globale. Non ovviamente nel senso che non si rischia il disastro della civiltà e della specie per le dissennate politiche fin qui seguite, ma nel senso che almeno un'altra volta la vita ha prodotto un radicale cambiamento dell'ambiente, quando la progressiva produzione di ossigeno atmosferico da parte dei primi unicellulari fotosintetizzatori ha cominciato a bloccare la letale radiazione ultravioletta, permettendo l'esplosione della vita, prima nel Cambriano, e poi nel Siluriano l'estensione ulteriore della biosfera, con l'invasione la terraferma. Come ha sottolineato Mario Ageno, i tempi evolutivi "della biosfera vanno dunque messi in relazione, più ancora che col tasso di mutazione degli organismi, con la lentezza con cui l'ambiente terrestre si è andato modificando attraverso il tempo". Sul peso dei diversi fattori in campo sull'evoluzione ci sono state e ci sono controversie, facendo evolvere il darwinismo in un modello interpretativo ancora più potente, in grado di spiegare sempre più cose della vita, fin nei dettagli più fini: discussioni che alla fauna antievoluzionista sono apparse come la breccia attraverso cui demolire l'ipotesi; tacendo o non capendo il fatto che si trattava di controversie scientifiche interne al darwinismo che non ne hanno messo in discussione in quadro generale, ma lo hanno arricchito di risposte in grado di spiegare fenomeni un tempo non rilevabili.
Riprenderemo in seguito una rassegna su questi aspetti dell'evoluzionismo, per ora è sufficiente dire che, guardando a tutto il vivente, la direzione di marcia sembra proprio una gara della vita a superare nel lungo periodo se stessa. Se ogni evoluzione è sviluppo è anche vero l'inverso. A questo proposito, Boncinelli cita l'eminente zoologo Ernest Mayr, secondo il quale si possono riscontrare elementi di progressività nella storia della vita. Vale la pena di riportare la citazione per intero: "dai procarioti (i batteri) che hanno dominato il mondo vivente per più di due miliardi di anni, agli eucarioti (tutti gli esseri viventi unicellulari e pluricellulari), con il loro nucleo ben organizzato, i cromosomi, e gli organelli cellulari; dagli eucarioti unicellulari alle piante e agli animali con la loro rigida divisione del lavoro tra i vari organi e sistemi così specializzati; all'interno degli animali, dagli ectotermi, che vivono soggetti ai capricci del clima, agli endotermi a sangue caldo; e, tra gli endotermi, da categorie di animali dotati di un piccolo cervello e di una organizzazione sociale embrionale a quelli che esibiscono un potente sistema nervoso centrale, cure parentali molto sviluppate, e la capacità di trasmettere l'informazione da una generazione all'altra".
Esiste cioè una storia e perciò stesso una traiettoria, sul cui senso l'umanità si interroga da millenni, magari partendo da presupposti sbagliati, come quello di considerare il senso di tutto ciò una domanda fondativa (ontologica) e non semplicemente come il portato della nostra stessa evoluzione animale. Anche su questo aspetto torneremo in seguito seguendo l'interrogativo che si pone Telmo Pievani nel suo libro Introduzione alla filosofia della biologia: "Esiste un progresso nella storia naturale?" Una domanda che nella filosofia della biologia rimane aperta, essendo assai controverso il rapporto tra progresso e contingenza. Intanto potremmo però avanzare l'ipotesi che l'evoluzione si muove verso la configurazione di un ordine crescente: un'idea che può essere confortata, come vedremo in seguito, da congetture fisico-chimiche.
Stephen J. Gould in suo famoso articolo del 1994, ha osservato che "la storia può essere spiegata, con un rigore soddisfacente se le testimonianze sono sufficienti, dopo che si è svolta una serie di eventi, ma non può essere prevista con precisione prima". Gould si riferiva ai meccanismi dell'evoluzione, per loro natura multifattoriali, ma a maggior ragione l'affermazione vale per la storia delle società umane intessuta di troppe variabili e casualità per poter permettere predizioni. Gould, tra l'altro, nega che l'aumento della complessità sia un principio direttivo dell'evoluzione, anche se, retrospettivamente, e quindi secondo una visuale appiattita degli eventi, finalizzata ai risultati raggiunti dalla nostra versione del vivente, potremmo inferirne che la traiettoria dal più semplice al più complesso sia la tendenza principale della vita e dello stesso universo. Ciò potrebbe anche essere, aggiungiamo (esamineremo in seguito il problema). Quella di Gould è una speculazione filosofica e non un'ipotesi comprovabile. La crescita della complessità è, inoltre, un'affermazione di tipo storico, nel senso, come osserva Schiavone, che "noi ci siamo, per quanto complicato sia stato l'itinerario alle nostre spalle". Registriamo in sostanza due fatti: quello della contingenza evolutiva da cui siamo nati come specie, lungo una catena eventi piuttosto casuali, di emergenze e adattamenti, di accidenti fisico-geologici; e quello del "primato evolutivo del pensiero e dell'attitudine tecnologica". Non dobbiamo spaventarci della casualità – aggiunge l'autore - visto che l'intero universo è in corso di spiegazione attraverso la meccanica quantistica ossia attraverso una ragione probabilistica che potrebbe anche essere una necessità non formalizzabile.
Anche Niles Eldredge, nella sua doppia polemica contro quelli che definisce gli ultradarwinisti (come Dawkins e il suo gene egoista) e contro i creazionisti, elimina qualsiasi tendenzialità o scopo dell'evoluzione, sostenendo che se "la vita ha un qualche scopo questo è semplicemente vivere". Quanto all'idea di uno scopo, Eldredge ha ragione, ma quanto alla tendenzialità ci sembra di no. La differenza tra Eldredge e altri rispetto a chi sostiene che l'evoluzione – tutta l'evoluzione, compreso l'Universo – possiede una traiettoria, sta soprattutto nel fatto che i primi scattano una fotografia, mentre i secondi proiettano un film.
Il secondo senso in cui la barriera tra il naturale e l'artificiale si sta sgretolando come mai prima nella storia umana, riguarda la nostra storia socio-culturale. Si tratta di un territorio su cui l'arte contemporanea ha condotto molti esperimenti e ha prodotto delle anticipazioni straordinarie. Non affronteremo tale aspetto in questi Labirinti, se non per i confinanti problemi dell'etica e della necessità di una cultura nuova; ci limitiamo a dire che alcuni studiosi di estetica, e anche filosofi, hanno da tempo orientato le loro elaborazioni in questa direzione, esplorando anche il cambiamento dello storico rapporto tra mente e corpo, soggetto e oggetto, animale e umano, cosa e persona, cercando di rimuovere l'eredità di un pensiero occidentale non ancora investito dall'uragano della rivoluzione scientifica. D'altra parte, siamo obbligati, proprio dallo sviluppo scientifico e tecnologico, a ripensare i dualismi che hanno nutrito – qualcuno potrebbe sostenere: distorto - il pensiero occidentale. Si aprirebbe qui un lungo percorso sui temi della persona, del rapporto tra soggetto e oggetto e dei tanti feticismi contemporanei. Basterà, in questo primo percorso, citare Schiavone, per tornare al nostro autore, il quale prevede che "si sposteranno le frontiere dell'etica [...] fino a comprendervi tutto il vivente che ci circonda".
Storia e destino, il libro da cui siamo partiti, poggia dunque su una trama che fa della storia il dominus dell'interpretazione possibile del mondo futuro. Non una storia degli eventi o di personaggi, ovviamente, ma una storia estesa al cosmo e alle specie; insomma, all'insieme del grande retroscena che ci determina: "l'universo è fatto di storie non di atomi", nel senso che anche la fisica, e non solo la cosmologia, ha una dimensione storica, almeno quella non classica. Tutto, insomma, ha dietro di sé il cambiamento, un'evoluzione. E qui non siamo d'accordo con Boncinelli, quando nel libro citato osserva che bisognerebbe riservare il termine di evoluzione alla dimensione biologica, anche se è vero che la spiegazione darwiniana non è certo in grado di dire cosa è successo prima che apparisse la vita. In realtà, il concetto di evoluzione è ormai entrato orizzontalmente a fare parte delle descrizioni dei fenomeni più diversi, contribuendo in modo potente a darne una spiegazione. È un altro di quei pensieri nuovi, come quello delle tecnologie informatiche, che impongono un radicale cambiamento del modo di pensare.
Il libro di Schiavone è importante anche per le sollecitazioni che offre ad un approfondimento e per gli spunti suggeriti, che nel breve spazio delle sue centonove pagine non poteva certo sviluppare. Sicché, in questo primo lungo percorso introduttivo stiamo solo accennando a questioni da riprendere più ampiamente in seguito, attraverso altre letture, citando anche altri autori di cui riparleremo più estesamente.
In tutta l'impostazione del saggio è dunque fondamentale il concetto di evoluzione come modo naturale di pensare, per quanto contro intuitivo esso possa essere nell'opinione comune. Come del resto accade in tutta la fisica non classica.
L'altro pilastro che sorregge il testo è l'idea che la vita è un fenomeno atteso e proliferante; anzi, per dirla con Stuart Kauffman, "le biosfere, come tendenza secolare, vale a dire nel lungo periodo, diventano le più diverse possibili, espandendo letteralmente la diversità di ciò che succede in seguito"; ossia agendo come moltiplicatori. Ci sono obiezioni a questa ipotesi, per esempio da parte di Stephen J. Gould in La vita meravigliosa e in altre opere, secondo il quale "la storia della vita è una storia di eliminazioni di massa seguite da differenziazioni all'interno dei pochi ceppi superstiti, e non il racconto convenzionale di un progresso costante verso una sempre maggiore eccellenza, complessità e diversità". Osserviamo che lo stesso Gould ammette in seguito che, rispetto a un paio di miliardi di anni fa, gli oceani contengono attualmente molte più specie, sia pure su "un numero minore di piani anatomici". In realtà, Gould distingue tra diversità e disparità e "mentre la diversità ha conosciuto un notevole incremento nel corso del tempo, la disparità sarebbe diminuita a partire dal Cambriano." Per queste ragioni più dell'80% dei phyla esistiti è estinto. Ora, se si assume la tesi di Kauffman sostenuta nel libro Esplorazioni evolutive, che "la diversità e la complessità stesse della biosfera ne causano l'ulteriore diversificazione e complessificazione", abbiamo l'immagine di una biosfera che si espande costantemente, nonostante estinzioni e catastrofi, e forse proprio per questo. Come se "cercasse" un canale di convergenza. Ma ogni volta, osserva ancora Antonio De Marco, "la possibilità di superare il limite superiore della complessità biologica, così come è avvenuto passando dal livello più basso dei procarioti, come i batteri, agli eucarioti unicellulari, come le amebe, e da questi ultimi ai vari organismi pluricellulari, si è realizzata riducendo di volta in volta l'ampiezza dello spostamento verso il nuovo livello di complessità." Potremmo dirla anche così: ogni volta che la vita ha attraversato una transizione di fase, lo ha fatto riducendo lo spazio delle possibilità e aumentando quello della profondità, in una ripetizione di forme e del rapporto delle specie con l'ambiente, analoghi ma sempre diversi. Come in una spirale ascendente, un'immagine che – è incredibile – può essere utilizzata anche per la storia dell'arte, per gli studi culturali e per la storia in generale. Si veda in particolare Renato Barilli in Scienza della cultura e fenomenologia degli stili, dove si analizza il succedersi degli stili proprio attraverso l'immagine di una spirale evolutiva o grafo spiraliforme, in cui ritornano nel tempo approcci all'arte simili a precedenti eppure diversi. Barilli, peraltro, è uno dei pochi studiosi di estetica che per interpretare la storia dell'arte utilizza il concetto di tecnomosfismo spiegando come l'arte dia una forma ai procedimenti tecnologici dominanti nelle varie epoche. Anche L.L. Cavalli Sforza in L'evoluzione della cultura, utilizza per la storia delle diversità culturali alcuni dei meccanismi che agiscono nell'evoluzione biologica.
Due testi, questi ultimi, che utilizzeremo ancora, ma condividendo fin d'ora solo in parte l'interpretazione di Telmo Pievani che "l'evoluzione della cultura viene intesa come un processo di cambiamento autonomo, dotato di proprie specificità, e tuttavia debitore alla teoria dell'evoluzione di alcuni meccanismi esplicativi fondamentali". Dove il debito non è dovuto solo – secondo noi - all'adozione di approcci simili a quelli dell'evoluzione, ma anche al fatto che l'evoluzione culturale non può che essere strettamente intrecciata alla storia naturale.
Al tema della complessità dedicheremo un capitolo, ma intanto Schiavone osserva che "il più complesso non emerge dal più semplice in modo inevitabile, soltanto con l'aggiunta del tempo". Qui l'autore intende sottolineare, a ragione, la imprevedibilità e la casualità dell'evoluzione, che ha portato alla nascita dell'umanità. In qualche modo riprende la tesi di Gould sulla natura della storia e sul destino dell'umanità, per cui "la nostra origine sarebbe il prodotto di una massiccia contingenza storica, e noi non avremmo probabilmente mai più origine se potessimo far ripartire per mille volte dal principio il film della vita." Ora, all'esperimento mentale di Gould del film della vita che, se riavvolto e fatto ripartire non si svolgerebbe mai in modo uguale, si può rispondere non solo che questo test non ha valore empirico ma anche che noi come siamo molto probabilmente non saremmo di nuovo qui, ma che non si può escludere che altri come noi avrebbero potuto esserci. Quello di Gould non è insomma un test probante nella discussione sulla direzione della vita.
Infatti, se è vero che estinzioni di massa e diversificazioni delle specie avrebbero potuto far prendere all'evoluzione una strada diversa, lungo una qualsiasi delle innumerevoli biforcazioni che affrontano i sistemi complessi nella loro evoluzione - con effetti non immaginabili sulle caratteristiche di talune o di tutte le specie (fino alla possibile non comparsa di quella umana) - non è affatto detto che non si potesse comunque sviluppare un animale pensante con caratteristiche diverse dalle nostre. Le variazioni casuali del DNA sono così numerose, offrendo alla selezione naturale tali sorgenti costanti di variazione, che riesce difficile pensare che sarebbe per sempre preclusa la possibilità di esplorare domini evolutivi che portino all'intelligenza. Anche in questo caso occorre guardarsi dal finalismo di tipo storico-umanistico per cui, essendo noi qui, il tempo e la storia, di necessità, non potevano che tendere a questo risultato e che, perciò, la storia futura non potrà che essere la continuazione di quella. Non abbiamo molti dubbi che l'intelligenza - in pratica la materia che riesce a pensare se stessa - rappresenti un processo di autorganizzazione insito nelle leggi biofisiche: la scala della crescente complessità dei sistemi nervosi sta lì a testimoniarlo. Detto in altri termini, da una parte l'evoluzione non è reversibile: se le condizioni ambientali tornano a essere quelle antecedenti l'adattamento della specie, la precedente biologia non può essere comunque ripristinata. Dall'altra parte, se l'umanità si estinguesse, per qualsiasi ragione, la prova di una vita intelligente probabilmente si ripeterebbe attraverso un diverso philum, in forme e modalità che non possiamo immaginare, comunque diverse dalla nostra. A meno che l'intero ambiente terrestre non fosse divenuto inospitale per la vita. In terzo luogo, se a metà del cammino della durata della Terra è apparsa l'intelligenza umana, in quella stessa metà qualche altra intelligenza avrebbe potuto benissimo essere al nostro posto. Ipotesi fantasiose che non cambiano la realtà e perciò inutili, queste? Intanto servono ad ammonirci, a ricollocare il nostro posto nella natura, sfuggendo a quella vertigine di boria che ci ha fatto immaginare di somigliare a chissà chi e a chissà cosa, meno che di essere il prodotto degli stessi meccanismi che hanno dato inizio a tante altre specie, vegetali e animali.
L'autocoscienza non nasce per una scintilla accesa chissà dove e da chissà chi, ma rappresenta ciò che nelle teorie del caos applicate ai sistemi complessi viene definito un attrattore. Se con David Ruelle in Caso e caos diciamo che "i problemi fondamentali della vita possono [...] essere descritti nei termini di creazione e di trasmissione di messaggi generici in presenza di caso"; e se, in effetti, non esiste incompatibilità "tra caso e determinismo fisico, perché lo stato di un sistema nell'istante iniziale, anziché essere fissato in modo preciso può essere distribuito secondo una certa legge casuale", allora – sia pure ancora a livello ancora largamente teorico – nell'universo un certo ordine riesce a esprimersi come vita. È ciò che può essere definito come caos deterministico e l'attrattore non è altro che una tendenza "definita dai punti dello spazio visitati dal sistema", comportandosi in modo dinamico ma senza "ripetersi in modo identico – come scrive Mauro Annunziato in Caos, complessità ed autorganizzazione. Una provocazione al confine tra scienza, tecnologia e cultura. Trattandosi di un sistema che si autorganizza, con il tempo migliora le configurazioni dei suoi elementi e le proprie capacità funzionali. Torna qui l'immagine della spirale ascendente.
Se tutto ciò è corretto, allora è possibile pensare che anche la storia naturale ha una direzione (concetto diverso da quello di destino); il che non vuole dire che sia prevedibile. Riemerge qui la vecchia questione della freccia del tempo: deve essere considerata reale o il tempo è un'illusione? Ilya Prigogine, nel convegno È il tempo già dato?, ha sostenuto che l'irreversibilità "è l'unica proprietà che io conosco che sia presente dovunque, nel nostro universo" perciò non è un'illusione e il concetto di evoluzione appartiene interamente ai sistemi lontani dall'equilibrio (come quelli biologici) perche essi evolvono secondo biforcazioni. C'è un prima e un dopo. Per quanto la fisica moderna descriva l'universo come deterministico e reversibile. Nella funzione d'onda di Schroedinger, per esempio, il tempo è reversibile, però si tratta di una possibilità che, non appena viene misurata, scompare.
In termodinamica "la freccia del tempo è semplicemente la tendenza dei sistemi a evolversi verso uno dei numerosi stati naturali ad alta entropia". [Sean M. Carroll, Le origini cosmiche della freccia del tempo] Carroll sostiene anche che su scala cosmologica potrebbe non esserci nessuna differenza tra passato e futuro. Ora, a parte le speculazioni teoriche, è un fatto che la vita, in quanto sistema aperto non fa altro che opporsi all'entropia. Si tratta di argomenti non facili che riprenderemo in esame parlando di Stuart Kauffman; intanto è sufficiente osservare con lui che, dal punto di vista biofisico, esiste una direzionalità del tempo verso una continua rottura della simmetria, essendo la vita una serie di cicli di lavoro termodinamici. Un concetto simile a quello utilizzato da Prigogine quando parla della rottura della simmetria del tempo come effetto di una fluttuazione, propria dei sistemi lontani dall'equilibrio che, perciò, acquistano una dimensione storica con la comparsa di novità.
In altre parole e a un diverso livello di descrizione del fenomeno, l'espansione della biosfera avviene grazie al fatto che "un pezzo di materia è vivo quando scambia materia ed energia con l'ambiente e in questa incessante attività metabolica e motoria produce ordine, strutture e forme cibandosi del disordine circostante." [Telmo Pievani, Introduzione alla filosofia della biologia] Il che vuole dire (anche di questo riparleremo) che la vita è tale se si colloca sul bordo del caos cercando di sfuggire all'entropia cui è soggetto l'universo, secondo la definizione che ne diede il grande fisico Erwin Schrödinger. Osserva sinteticamente Boncinelli: "Il fatto è che l'incostanza, il cambiamento incoercibile e il caotico procedere verso un futuro aperto è la cifra essenziale del biologico e in definitiva del vivente, in netto contrasto con l'assetto quasi regolare del mondo fisico". E osserva ancora: "se guardiamo all'evolversi del mondo presente a partire dalle sue origini, osserviamo un progressivo emergere di nuove proprietà". [in È il tempo già dato?]
Dal punto di vista evolutivo, in buona sostanza, se lo schema sintetico può essere il seguente: milioni e milioni di anni perché la chimica trovasse la strada dell'assemblaggio e della replicazione di molecole organiche complesse, poi dei meccanismi regolativi dell'associazione cellulare; meno tempo per passare dalla vita monocellulare a quella pluricellulare; ancora meno per procedere alla sperimentazione di piani anatomici e di metabolismi diversi; e poi alla configurazione sempre più complessa di schemi neurologici, se tutto ciò è quello che è avvenuto, allora possiamo legittimamente sospettare che il tempo della vita (e forse dell'intero universo) ha una direzione. Il fatto è che non sappiamo quale e possiamo solo azzardare delle congetture, tra le quali che la vita è un fenomeno atteso. Per Stuart Kauffman è il risultato di insiemi autocatalitici. Per altri essa è semplicemente il frutto di meccanismi computazionali messi in atto da automi cellulari semplici, come afferma il discusso Stephen Wolfram. Forse – come ha sostenuto Richard Dawkins - la sua direzione è verso una complessità adattativa crescente; forse si sta dirigendo verso quella che alcuni autori considerati un po' visionari, definiscono una singolarità.
Ci sono molte e diverse idee sulla universalità della vita, ma – osserva Schiavone - quale possibilità è più sconvolgente? "quella dell'indicibile, totale solitudine, o quella di un universo brulicante – seppure in tempi non coincidenti – di pensiero e di vita"? Se tutto l'universo sembra attraversato, anzi sorretto, da leggi probabilistiche, ebbene – contrariamente a quanto sostengono alcuni – la vita non può essere un fenomeno raro rispetto alle altre centinaia di miliardi di mondi esistenti, ma un evento atteso. Come possono certe tradizioni religiose sostenere che tutto questo spiegamento di galassie e di sistemi esiste solo in funzione di una specie unica confinata alla periferia di una delle tante galassie esistenti? E se il processo di comparsa della vita è sempre più scientificamente spiegabile, anche su basi empiriche, come si può ragionevolmente sostenere che le condizioni ideali perché ciò sia avvenuto, in un universo immenso, si sono realizzate solo nel nostro piccolo spicchio di spazio? A parte il fatto che i parametri che conosciamo noi potrebbero non essere gli unici utili per l'apparizione della vita. L'esobiologia, la nuova disciplina che si occupa della possibile vita extraterrestre, è appena agli inizi. Ad oggi, sono più di quattrocento i pianeti extrasolari individuati e con l'entrata in funzione di nuovi strumenti di rilevazione – tra l'altro, sono previste missioni spaziali in grado di rilevare biomarcatori su pianeti di tipo terrestre - l'inventario è destinato ad arricchirsi in modo esponenziale. Tra le ultime scoperte ci sono sei pianeti intorno a stelle simili al sole, non troppo distanti da noi, due dei quali poco più grandi della Terra. L'esistenza di pianeti intorno alle stelle sembra essere piuttosto diffusa.
Possiamo, su queste basi, gettare anche lo sguardo verso un probabile lontano futuro? Se il numero delle possibili combinazioni molecolari è un numero più grande di tutto l'universo – come sostiene Kauffman - le conseguenze sono tre:
i. la vita (l'Universo) non ha finito di sperimentare nuove soluzioni e combinazioni, almeno per quanto riguarda la biosfera;
ii. la descrizione di tutte le possibili configurazioni biologiche e molecolari sarebbe un algoritmo lungo l'intera sequenza, cioè inutile;
iii. lo sviluppo futuro è perciò imprevedibile, così come quello passato è certamente ricostruibile ma non necessario (ossia, non è l'unico possibile).
C'è però una finestra da cui è possibile scrutare in modo approssimativo il panorama che verrà. Nelle condizioni ambientali date e in quelle prevedibili, così come è avvenuto nel passato, non tutte le transfinite combinazioni molecolari e quelle biologiche, possono superare (hanno superato) il vaglio della selezione naturale. Esistono dei vincoli chimico-fisici e, se si accetta una teoria dell'informazione come parte costituente (o addirittura fondante) della materia, esiste una "memoria" degli insuccessi e quindi una non ripetibilità di determinate configurazioni che non hanno superato la prova della sopravvivenza. Naturalmente, occorre evitare la suggestione che l'informazione preesista alla materia e che agisca come una specie di fantasma della macchina, riproponendo una metafisica in salsa informatica. L'informazione non sta tutta all'inizio, ma – come nel caso del rapporto tra gene e ambiente – co-esiste e si co-costruisce con il cambiamento della materia.
Sul piano della teoria evolutiva si parla di vincoli (constraints) di cui Gould dà una definizione che per ora ci appare sufficiente: "ciò che dirige altri tipi di cambiamenti o che impedisce cambiamenti che sarebbero operati dalla selezione". Partendo da qui si può forse cominciare ad azzardare la previsione di ciò che non sarà, scontando il rispetto delle leggi fisiche. È una discussione, questa, che ha attraversato e attraversa tutto il campo dell'evoluzionismo (lasciamo da parte le sciocchezze dell'Intelligent Design) e che in parte riprenderemo affrontando la questione della complessità, di difficile soluzione in biologia proprio a causa del suo dinamismo. Per esempio, alcuni autori - osserva Telmo Pievani – hanno contestato a Gould la tesi che la crescita della complessità sia soltanto un errore di prospettiva e che, in realtà, rappresenti solo un processo di crescita e di diversificazione "a partire da un minimo statistico". Il fatto è che, se si accetta la ormai difficilmente contestabile ipotesi che la vita co-costruisce la propria nicchia ecologica, allora bisogna ammettere che i vincoli ambientali (e della complessità) "evolvono necessariamente insieme alla vita, producendo a loro volta nuove possibilità evolutive e pregiudicandone altre". Il processo avrebbe un andamento esponenziale, come sostengono alcuni autori? Sarebbe simile a quello registrato nello sviluppo tecnologico dell'età moderna? Comunque, Mario Ageno ha sottolineato come "tutti i sistemi materiali siano legati, costituiti in definitiva da particelle fondamentali, e come tali sistemi costituiscano una gerarchia inclusiva a molti livelli, tale che i sistemi di ciascun livello risultano dall'aggregazione di sistemi legati del livello immediatamente inferiore".
Naturalmente non bisogna dimenticare l'altro senso culturale in cui è possibile interpretare il fenomeno. L'ambiente che la specie umana co-costruisce è anche il prodotto dell'organizzazione sociale e tecnologica. Come ciò retroagisca sulla sua biologia è ancora oggetto di discussione, mentre sono chiariti a sufficienza gli effetti profondi sul suo modo di pensare e sull'arte. Ormai è assodato che la configurazione sinaptica del cervello è estremamente plastica e che l'esperienza umana, nei suoi vari aspetti, in particolare tecnologici, incide profondamente sulla sua cablatura, anche nel corso della vita individuale.
Qui si biforcano, semplificando la varietà delle posizioni in campo, due interpretazioni principali sulla direzione dell'evoluzione. La prima cerca di trarne, come nel caso di Schiavone, indizi per immaginare il futuro, anche più remoto. La seconda posizione ne dichiara l'imprevedibilità assoluta o al massimo ne descrive alcune tendenze.
Scrive l'autore: "Verrà il momento in cui le modificazioni tecniche dell'umano e il controllo complessivo dell'ecosistema non riusciranno più a mantenersi dentro questa cornice [scienza, tecnologia, finanza, mercato, nda]. E in cui la forma di merce e la mano invisibile del mercato non saranno più in grado di esprimere la razionalità sociale ed economica della specie ormai trasformata, né le potenzialità biologiche del pianeta, allora completamente nelle nostre mani". Qui Schiavone parte da una contraddizione profonda, già operante nel nostro tempo a cui non si può sfuggire parlando d'altro o rifugiandosi in approcci vetero-umanisti o adottando acritiche esaltazioni della tecnologia: "l'onnipotenza divorante tra scienza e mercato se da una parte crea e diffonde dismisure e spiazzamenti, è per un altro verso il volano di tutta la crescita economica e tecnologica". Ma c'è di più: il processo è irreversibile; e una transizione rivoluzionaria è necessaria perché "attraverso la scienza e la tecnica l'infinito – l'infinito come assenza totale di confini alla possibilità del fare, come caduta di ogni determinazione obbligata da una barriera esterna a noi [...] – sta entrando stabilmente nel mondo degli uomini...".
Perciò, per superare la crisi incipiente – intesa sia come preannunciato passaggio ad una fase diversa della civiltà umana, sia come possibile catastrofe – servirebbe "un nuovo umanesimo, costruttore di una razionalità integrata e globale al passo con le nostre responsabilità". Se vogliamo, questa nuova cultura la si può identificare con la razionalità critica, a cui si appellava Ludovico Geymonat. Oppure anche con la proposta di una Terza cultura di cui parlano diversi autori (John Brockman, Giuseppe Longo e altri). In Italia, questa linea di pensiero è soprattutto debitrice a Roberto Marchesini - di cui abbiamo già citato Post-human. Verso nuovi modelli di esistenza -, anche con il recente Il tramonto dell'uomo. La prospettiva post-umanista, in cui partendo da un'efficace critica dei tradizionali paradigmi umanistici afferma che il post-umanesimo è portatore di una "visione inclusiva e ibridativa", la quale "considera l'umano non più come emanazione delle qualità inerenti nella nostra specie, bensì come cammino di integrazione del non umano". Una tesi che ha delle ripercussioni grandiose anche per quanto riguarda la convivenza civile (e politica). Ne riparleremo, ma perché avvengano questo e altri mutamenti evolutivi è anche necessaria, secondo Schiavone, una rivoluzione etica i cui capisaldi sono:
1. La costruzione "di una vita non prigioniera della sua naturalità evolutiva", ambito che abbiamo comunque già da tempo in gran parte abbandonato;
2. Il superamento delle eredità neurologiche acquisite durante i lunghi processi evolutivi (violenza, aggressività e così via.);
3. Il pianeta non più considerato come mero strumento, ma come presupposto della nostra stessa integrità;
4. La questione dell'uguaglianza non come serialità, ma come autorealizzazione biologica e intellettiva, nel quadro di un'umanità interconnessa.
Speranza, disincanto e vertigine rappresentano i tre sentimenti che attraversano l'intero saggio di Schiavone e che sfumano verso un futuro remoto in cui altri autori prima di lui hanno cercato di gettare uno sguardo metafisico in grado di pacificare il violento contrasto tra un'eredità nutrita di miti e di illusioni ancestrali e l'assunzione della scienza come scheletro di un'umanità finalmente liberata. Ci riferiamo a Pierre Teilhard de Chardin, che Schiavone riecheggia in alcuni passi conclusivi del suo saggio. Anche il gesuita, morto in odore di eresia ma talvolta rivalutato, sperava in un superamento dell'umanesimo tradizionale, abbandonando l'eredità greca dell'uomo armonioso per puntare ad un uomo pienamente evoluto. Ma la teologia ha poco a che fare con la natura, anche se il tentativo di Theilard de Chardin di ancorarla a una base scientifica invece che alle nuvole era interessante. Il fatto è che solo una visione naturalistica del mondo può alimentare la speranza del bruco di diventare finalmente una farfalla.

I libri e gli articoli recensiti o citati in questo primo percorso sono

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