14. Labirinti di lettura
IV. Il trono, l'altare (e al-minbar)

- seconda parte -
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"16. Dio dunque, il quale ha ispirato i libri dell'uno e dell'altro Testamento e ne è l'autore, ha sapientemente disposto che il Nuovo fosse nascosto nel Vecchio e il Vecchio fosse svelato nel Nuovo (29: il rinvio è ad Agostino di Ippona). Poiché, anche se Cristo ha fondato la Nuova Alleanza nel sangue suo (cfr. Lc 22,20; 1 Cor 11,25), tuttavia i libri del Vecchio Testamento, integralmente assunti nella predicazione evangelica (30: il rinvio è ad alcuni Padri della Chiesa), acquistano e manifestano il loro pieno significato nel Nuovo Testamento (cfr. Mt 5,17; Lc 24,27), che essi a loro volta illuminano e spiegano."

C'è da dire che il concetto è piuttosto contorto e interpretabile in vari modi, come sempre in teologia, specialmente nel campo cattolico, nel quale il doppio registro dell'assoluta continuità con il vecchio, che tuttavia viene svelato dal nuovo, rappresenta tuttavia quel tenue filo evolutivo che, come abbiamo visto nel settimo percorso, differenzia il cristianesimo dall'islam. Quel filo che i magisteri dei papi recenti e regnanti sembrano molto impegnati a recidere, anche attraverso retromarce attentamente studiate rispetto al Vaticano II.
La critica di Harris nei confronti della religione e delle sue pretese di dominio sul comportamento di tutti gli esseri umani continua con una rassegna assai efficace, dosando il sarcasmo con la puntuale denuncia. Come nel caso della ricerca sulle cellule staminali, per cui "coloro che si oppongono alla ricerca terapeutica sulle staminali per motivi religiosi costituiscono l'equivalente biologico ed etico di una società che crede che la Terra sia piatta". In sostanza, l'autore attacca la vecchia idea riciclata dal tomismo (ma mi pare di ricordare che Tommaso d'Aquino fosse molto più aperto e problematico dei rigoristi attuali circa il quando una vita diventa essere umano) della vita in potenza, per cui osserva sarcasticamente che "a voler considerare il potenziale di ogni cellula, dobbiamo riconoscere che ogni volta che il Presidente si gratta il naso è coinvolto in un diabolico massacro di anime".
Ma Harris non si limita al sarcasmo. Affronta anche argomenti piuttosto complicati come l'esistenza di diverse comunità morali e i conflitti che ne discendono, concretamente e in via teorica. L'autore sviluppa, soprattutto in una lunga nota in fondo al libro ("per non far morire di noia il lettore medio", dice), il confronto tra le tendenze relativistiche, pragmatiche e realistiche, per appoggiare, mi sembra di aver capito, una giustificazione empirica della morale, avendone scartato come irrilevanti anche le motivazioni evolutive. In sostanza, servendosi marginalmente del principio evoluzionistico e tagliandone fuori la componente culturale. Sicché, affrontando il tema della connessione tra amore e felicità (e dell'empatia come meccanismo neurobiologico: "in questo momento non ci interessa approfondire la questione"), il pacifismo gli appare come una falsa scelta. Debbo dire che alcune delle sue argomentazioni e la denuncia delle contraddizioni etiche in cui si dibatte l'umanità sono molto acute. Così come non si può che essere d'accordo quando sostiene che non può essere la biologia a dettare l'etica, "perché siamo proprio noi a decidere".
Mirato maggiormente alle basi documentarie della religione cristiana e con un taglio non giornalistico è invece il libro di Piergiorgio Odifreddi, Perché non possiamo essere cristiani (e meno che mai cattolici) [Milano, Longanesi, 2007, pp. 264], che ha avuto un notevole successo. L'autore, come difesa preventiva agli attacchi che in effetti gli sono stati mossi all'uscita del libro, osserva che oggi l'anticlericalismo costituisce "più una difesa della laicità dello Stato che un attacco alla religione cristiana". Del resto, l'anticlericalismo può esistere solo se esiste il clericalismo, il quale, in forme morbide o sfacciate, ritiene la Chiesa sovraordinata rispetto allo Stato e, quindi, abilitata a dirigerne le scelte attraverso l'espressione del magistero ecclesiastico; nonché, attraverso lo Stato, a regolare la società civile come suprema custode dell'etica pubblica e privata. Insomma a riesumare l'idea di uno Stato etico, che è una mostruosità antiliberale e liberticida, quale che sia la religione che lo persegue o tenta di favorirne l'esistenza. In una dichiarazione di qualche mese fa (la Repubblica del 16 maggio 2007) il cardinale Rino Fisichella, vescovo ausiliare di Roma, ha detto che "l'uomo appartiene a Dio". Questa discussione sulla proprietà delle nostre persone è piuttosto fastidiosa e assurda (e discretamente arrogante), se non fosse che, subito dopo, la conseguenza inevitabile è che, quindi, essendo noi - come dire?- gli amministratori di Dio... Mi fa un certo effetto sapere che appartengo in qualche modo e in via mediata a un papa, quale rappresentante ufficiale di Dio in terra. Ci sarebbe persino da sorridere se non fosse che in base a quell'affermazione un prelato, come anche un cristiano militante, mi dicono cosa debbo fare della mia vita e del mio corpo e, per sovrappiù, mi impongono le loro idee in proposito, attraverso leggi emanate da uno stato laico.
Tra i tanti attacchi mossi al libro di Odifreddi, a parte i puntini sulle i messi talvolta a sproposito dagli esegeti cattolici su questa o quella interpretazione opinabile delle Scritture, quelli più curiosi e anche più volgari (un giro sul Web ne fa raccogliere a centinaia) riguardano il fatto che essendo Odifreddi un matematico, dovrebbe tornare a occuparsi della sua materia (riferisco in modo gentile gli improperi connessi). Come se esistesse una specializzazione e una competenza specifica in materia di "divinità" e ci fossero quelli autorizzati a parlarne e quelli che debbono solo ascoltare. Vecchio vizio del cattolicesimo.
Ma il cuore del libro di Odifreddi, dal Vecchio al Nuovo Testamento, per continuare con una parte dei dogmi, è nella critica testuale e nell'esame delle evidenti contraddizioni dei testi, spesso falsificati dalle traduzioni e adattati alle circostanze, come nel caso del Decalogo, che ha perso per strada un comandamento, nonostante l'ordine divino di non mutare di una virgola il testo. Oppure, la critica dell'autore si appunta alle vicende pseudo storiche farcite di miracoli e di comportamenti divini non proprio consoni a un Creatore del mondo o, almeno, all'idea che se ne può fare una persona moderna e non un pastore di un'area semidesertica di millenni fa. Dalla ricostruzione delle contraddizioni e delle origini assai diverse dei primi libri della Bibbia, ai rimaneggiamenti sacerdotali successivi dei testi, l'implacabile ricognizione di Odifreddi è esposta in maniera serrata. Comunque, per una buona rassegna delle contraddizioni e degli errori di storia in cui incorrono il Dio degli ebrei e i suoi angeli si può anche consultare il sito Alaxemenos Il Libro che avete letto male. Un'altra raccolta di testi sul Web, che tratta con molta competenza e in modo aggiornato la questione dei Vangeli, e in generale i problemi della religione, è in Homolaicus di Enrico Galavotti.
Così come, continuando con Odifreddi, la stessa critica esegetica applicata al cristianesimo, fino agli anatemi lanciati a chi non crede all'infallibilità del papa, e oltre, mette a nudo incongruenze imbarazzanti. Per esempio, i "dilemmi in cui ci si invischia quando si concepisce un vero Dio che si fa vero uomo e viene partorito da una vera donna, essendo per giunta già nato dal Padre prima di tutti i secoli". La quale donna, come si sa, è vergine e rimane vergine anche dopo il parto. Inoltre si scopre che è stata assunta fisicamente in cielo mille novecento anni dopo, secondo il dogma emanato nel 1950, anche se fin dai primi secoli esisteva nel cattolicesimo una tale tradizione. Mi chiedo se il fatto che il suo catasterismo ossia la sua ascesa in cielo, a somiglianza di tanti personaggi mitici del mondo classico, sia monco della sua identificazione con un astro è perché nel frattempo c'è stato Copernico. Ma il termine di vergine usato per Maria (e questa non è di Piergiorgio Odifreddi, ma di Paula Fredriksen, affermata storica della religioni, ma è ben nota anche tra tutti biblisti) in ebraico significa semplicemente giovane ragazza, tradotto poi nel greco vergine, appunto. Dunque un dogma fondato su un equivoco linguistico, a parte la credibilità dell'intera vicenda?
Del resto, lo stridente contrasto esistente tra la nostra morale e quella disegnata dalla Bibbia non è affatto ridotto dalla reinterpretazione che ne ha dato il Concilio Vaticano II (ancora la Costituzione DEI Verbum del 18 novembre 1965), secondo cui:

"[...] 15. L'economia del Vecchio Testamento era soprattutto ordinata a preparare, ad annunziare profeticamente (cfr. Lc 24,44; Gv 5,39; 1 Pt 1,10) e a significare con diverse figure (cfr. 1 Cor 10,11) l'avvento di Cristo redentore dell'universo e del regno messianico. I libri poi del Vecchio Testamento, tenuto conto della condizione del genere umano prima dei tempi della salvezza instaurata da Cristo, manifestano a tutti chi è Dio e chi è l'uomo e il modo con cui Dio giusto e misericordioso [corsivo mio] agisce con gli uomini. Questi libri, sebbene contengano cose imperfette e caduche, dimostrano tuttavia una vera pedagogia divina (28: si riferisce a un'Enciclica di Pio XI). Quindi i cristiani devono ricevere con devozione questi libri: in essi si esprime un vivo senso di Dio; in essi sono racchiusi sublimi insegnamenti su Dio, una sapienza salutare per la vita dell'uomo e mirabili tesori di preghiere; in essi infine è nascosto il mistero della nostra salvezza.."

Quanto possa essere considerato giusto e misericordioso il Dio del Deuteronomio e di altri passi biblici, rimane un mistero. Certo, tenuto conto dei tempi... Insomma, la morale divina sarebbe una morale evolutiva che cambia con la storia, come è ovvio. Poiché la Chiesa non può riconoscere un tale relativismo, è costretta ad assumere l'intera tradizione, mettendo la sordina a questo o a quell'aspetto non più presentabile, e consumando le intelligenze di schiere di commentatori nello sforzo di ridurre il potenziale eversivo (per la fede) delle contraddizioni accumulate. Finché la Chiesa, pressata dall'avanzare della storia, non cambia l'approccio, avendo prodotto sofferenze (e persecuzioni), senza nemmeno riconoscere di aver sbagliato, se non secoli dopo e in modo molto circoscritto. Sarebbe comunque interessante se islam e cristianità dichiarassero esplicitamente, senza troppi giri di parole, che respingono quei passi delle rispettive Scritture non più sopportabili dall'etica moderna.
Per non parlare, riprendendo il libro di Odifreddi, di tutte le complicazioni successive all'avvento del cristianesimo, delle controversie anche sanguinose e, insomma, della storia della Chiesa. Impossibile ricapitolare efficacemente le argomentazioni dell'autore; la cosa migliore che posso fare è di rinviare alla lettura del libro come a un'esperienza da fare. Ma il punto specifico che interessa ai fini di questo Labirinto è soprattutto il capitolo finale, intitolato Laici e loici, perché alla fine e implicitamente si ripropone il tema delle domande iniziali e cioè: come mai le religioni? L'autore non pone problemi evoluzionistici, ma procede per così dire per via culturale, con l'ambizione di contribuire a colmare quel deficit di conoscenza di merito e di riflessione critica che connota, secondo tutte le ricerche sul campo, la maggior parte dei credenti. Nell'area cattolica media è assai difficile incontrare chi la Bibbia l'ha letta davvero (non le pillole ricevute dall'educazione religiosa) e che dei Vangeli, che il caso o una scelta incomprensibile ha deciso che siano quattro, abbia messo a fuoco le incongruenze. Forse l'autore eccede qua e là nel sarcasmo, il che viene immediatamente colto dai suoi critici per scantonare dalle obiezioni che muove al cristianesimo. Ma l'indignazione di Odifreddi si può capire, di questi tempi italiani di invasione massmediologica e politica delle gerarchie religiose nella vita pubblica.
Naturalmente, l'autore sa bene che non esiste argomentazione (razionale, linguistica, storica) in grado di smuovere chi ha deciso di credere e infatti, puntualmente, sono arrivate le accuse che l'autore non riesce a distinguere tra piano storico e piano della fede, la seconda – come abbiamo visto in precedenza – sottratta a qualsiasi esame di verificabilità. E poi, proprio sul piano storico illustri esponenti religiosi e semplici credenti non fanno che chiedere: come mai il cristianesimo ha avuto successo per duemila anni? Con l'implicita risposta che solo una religione veritiera può durare tanto. Anzi, recentemente Fr. Raniero Cantalamessa, predicatore ufficiale della Casa pontificia, l'ha proprio messa in questo modo, in un dibattito pubblico con alcuni laici. Peccato che si tratti della stessa argomentazione che propongono i seguaci dell'islam. Cosa dovrebbero dire poi i buddisti che vantano una maggiore anzianità?
Un personaggio controverso come Christopher Hitchens è l'autore del libro Dio non è grande. Come la religione avvelena ogni cosa [Torino, Einaudi, 2007, pp. 275]. Hitchens è un radicale che si schiera spesso con la destra politica, dopo essere stato un radicale di sinistra, anticlericale militante e, in particolare, avverso al cattolicesimo. Hitchens ha assunto una certa notorietà anche per il suo precedente libro La posizione della missionaria.Teoria e pratica di Madre Teresa [Roma, Minimum Fax, seconda edizione, 2003, pp. 128], una documentata denuncia dei metodi e dell'uso disinvolto delle donazioni ricevute. Ma il Vaticano ha sostenuto che le accuse di Hitchens non erano basate su prove. L'autore non si è dato per vinto, sostenendo di aver ricevuto tanti e tali testimonianze a favore delle sue denunce da gente che ha conosciuto davvero i metodi e le attività di Teresa di Calcutta, da poter scrivere un altro libro, come ha ripetuto anche in una vecchia intervista, ora tradotta in italiano.
Peraltro, Hitchens attacca frontalmente anche l'islamismo e i suoi esponenti, come abbiamo visto che ha fatto nei confronti di Tariq Ramadan al Festival di Mantova [sesto percorso]. Un'analisi del fenomeno del radicalismo laico guerrafondaio, penso a Daniel Pipes (che peraltro l'autore non apprezza) e ad altri, ci porterebbe troppo lontano, ma Hitchens è un esponente di primo piano di quella linea che predica il pugno duro nei confronti dei paesi islamici, con un'dea piuttosto messianica di democrazia come bene esportabile sulla bocca dei cannoni. Del resto, è un polemista acceso, oggetto di duri attacchi anche personali, ma altrettanto sprezzante e feroce nelle sue risposte.
Ovviamente il suo ultimo libro ha suscitato accese discussioni, anche se l'appena citato Raniero Cantalamessa, in un articolo pubblicato su l'Avvenire del 18 settembre 2007 lo ha stroncato sostenendo che "della religione egli considera solo i frutti marci, mai i frutti buoni", ma che "non si può non ammirare la straordinaria cultura dell'autore e la pertinenza di certe sue critiche". Tanto da fargli aggiungere che "molti rimproveri che Hitchens rivolge ai credenti di tutte le religioni (l'Islam non riceve nel libro un trattamento migliore del cristianesimo, ciò che rivela una buona dose di coraggio da parte dell'autore) sono fondati e vanno presi in considerazione per non ripetere gli stessi errori del passato". Alla fine, però, il rimprovero risolutivo, per Cantalamessa, è che Hitchens non ha fede e che ha rinunciato a convincere per stravincere. Mi pare di capire che una critica dell'autore più in punta di piedi, più rispettosa, sarebbe stata bene accetta.
In fondo, tutta la posizione di Hitchens nei confronti della religione potrebbe essere riassumibile nella sua dichiarazione che "i critici della religione non vogliono in realtà negarne l'effetto balsamico", ossia che essa risponde ad un bisogno di consolazione e di sicurezza, ma "piuttosto intendono mettere in guardia contro la sua funzione di placebo e l'effetto bottiglia di acqua colorata". A questo proposito – oltre che Freud - cita Karl Marx e la sua famosa frase sulla religione come oppio del popolo; ma la cita integralmente, con tutto il contesto che non viene mai naturalmente riportato e che esprime un ben più articolato pensiero politico. Tuttavia, il problema della religione, continua l'autore, si pone in modo radicale non per la sua funzione di effetto placebo, ma per il fatto che "la religione non si accontenta – e sul lungo periodo non può farlo - delle proprie straordinarie pretese e delle proprie sublimi certezze. Essa deve cercare di interferire con la vita dei non credenti, degli eretici o degli adepti di altre fedi". Da questo punto di vista, le distorsioni che vengono generate dalla interpretazione dei fatti che accadono nel mondo, attraverso il filtro religioso producono degli effetti tremendi.
Per esempio, durante la recente mattanza nei Balcani, la stampa occidentale ha sempre parlato, a proposito di Sarajevo, di milizie serbe e croate opposte ai musulmani, per non tacere della popolazione ebraica della città. Perché mai in un caso si debba definire una popolazione in termini di identità religiosa e nell'altro tacere che gli assedianti massacratori e stupratori fossero cattolici e ortodossi, chiamandoli invece con il loro appellativo nazionale, rimane una mistero. Così come, venendo al noto caso di Salman Rushdie e della sua condanna a morte da parte dell'ayatollah Khomeini a causa di un libro, Hitchens se la prende con le autorità religiose occidentali, perché "con meditate dichiarazioni, il Vaticano, l'arcivescovo di Canterbury e il sommo rabbino sefardita di Israele assunsero tutti una posizione di simpatia verso l'ayatollah". Il problema principale non sembrava essere la taglia messa sulla testa di un cittadino inglese dal capo di un paese straniero, ma la supposta blasfemia dei Versi satanici. Oppure, il modo con cui hanno reagito all'11 settembre di New York, sul versante dell'integralismo cristiano, i predicatori Pat Robertson e Jerry Falwell, che negli Stati Uniti sono delle vere e proprie potenze, persino ascoltati dalla Casa Bianca. Tutti e due dichiararono immediatamente "che il sacrificio di tante creature era il giudizio divino su una società secolare e permissiva verso l'omosessualità e l'aborto". Insomma, siamo ai terroristi come strumento divino, mentre il nemico principale è tra noi. Del resto, l'idea di un ruolo esecutore di Satana non è affatto nuovo nella tradizione cristiana, specialmente protestante.
Il libro è ricco di informazioni puntuali sulle posizioni assunte dalle varie autorità religiose nelle vicende più orribili degli ultimi decenni e dell'odio interreligioso che a livello popolare circola abbondantemente. Hitchens sintetizza la situazione con una batteria di espressioni correnti nelle varie parti del mondo: "I cristiani e gli ebrei mangiano carne di maiale contaminata e tracannano alcol velenoso; [...] i musulmani si riproducono come conigli e si puliscono il sedere con la mano sbagliata. Gli ebrei hanno i pidocchi nella barba e bramano il sangue dei bambini cristiani per aromatizzare e insaporire il pane azzimo di Pasqua. E avanti così".
Le interferenze della religione nel caso della medicina e della salute umana sono note, ma vale la pena ricordare il caso della vaccinazione contro la poliomelite a Calcutta, dove musulmani intransigenti diffusero la favola che si trattava di un complotto occidentale per ridurre all'impotenza la popolazione; oppure la vicenda di una fatwa emessa in Nigeria secondo la quale "il vaccino antipolio era un complotto degli stati Uniti (e, sorprendentemente delle Nazioni Unite) contro la fede musulmana"; o, ancora, il caso del cardinale Alfonso López Trujillo, presidente vaticano del Pontificio consiglio per la famiglia, il quale "avvisa con paterna sollecitudine il suo uditorio che tutti i preservativi vengono fabbricati con molti fori microscopici, attraverso i quali può passare il virus dell'Aids" (ripresa video esistente, dichiara l'autore). In questo caso il cardinale è in buona compagnia con altri vescovi africani. Del resto, non è stato forse l'allora cardinale e arcivescovo di Genova, Giuseppe Siri, a sostenere che l'Aids "è un castigo di Dio, evidentemente, perché prima non c'era"?. [Il Sabato, 23 marzo 1987] Un'occasione perduta per meditare sull'evoluzionismo e sulle continue mutazioni genetiche che avvengono sotto i nostri occhi (e talvolta sulla nostra pelle).
Per non parlare del concetto di naturalità, variamente tirato per un verso o per l'altro. Per il vescovo ausiliario di Rio de Janeiro, Rafael Llano Cifuentes "la Chiesa è contro l'uso del preservativo. I rapporti sessuali tra uomo e donna debbono essere naturali. Non ho mai visto un cane usare un preservativo in un rapporto sessuale con un altro cane". Mentre parecchi vescovi anglicani hanno sostenuto che l'omosessualità è innaturale "perché non la si riscontra in altre specie", affermazione che possono fare solo degli ignoranti completi di etologia. Per tacere del comportamento estremo delle sette di qualsiasi ambito religioso, dai fondamentalisti chassidici, ai seguaci della Christian Science, ai mormoni, ai Testimoni di Geova e di tutte le altre strane e spesso barbariche usanze che pretenderebbero di essere rispettate in nome di non sa quale valore culturale.
Hitchens critica poi le pretese metafisiche della religione, ripercorrendo sinteticamente le vicende di un dibattito che parte dall'assurdità della dichiarazione del padre della Chiesa, Tertulliano (e che ho sentito spesso ripetere nel XX secolo): "Credo perché è assurdo"; e arriva all'essenza della questione, al "paradosso fondamentale nel cuore della religione". "I tre grandi monoteismi – sottolinea l'autore – insegnano agli uomini a considerarsi spregevoli, quali miserabili e colpevoli peccatori prostrati di fronte a un dio irato e geloso, il quale, secondo racconti discrepanti, li avrebbe creati o dalla polvere o dal fango o da un grumo di sangue". Il che viene accompagnato paradossalmente dall'idea di essere fondamentali e centrali nel grande disegno dell'universo e dalla convinzione di avere a disposizione un dio personale. Naturalmente l'autore, a proposito di disegni, affronta anche la questione del "disegno intelligente" o del "creazionismo", di cui ho parlato diffusamente nel primo percorso, ma vale la pena rileggerne la critica anche in questo libro per il brio e la sagacia con cui l'autore affronta l'argomento.
Anche Hitchens, come gli autori precedenti, sottopone poi la Bibbia a un'analisi dettagliata, specialmente dei primi libri, e non c'è bisogno di sottolineare che "dobbiamo essere felici che nessun mito religioso esprima una verità", perché "la Bibbia può contenere, anzi contiene, giustificazioni per il traffico di esseri umani, per la pulizia etnica, per la schiavitù, per il prezzo della sposa, per il massacro indiscriminato, ma non siamo tenuti a nulla di ciò perché si tratta di pratiche di mammiferi rozzi e privi di cultura". Del tipo della prescrizione contenuta nei Numeri, dove il Signore si infuria perché i suoi generali hanno risparmiato troppi civili:

"Adesso, quindi, uccidete ogni maschio tra i piccoli, e uccidete ogni donna che ha conosciuto l'uomo giacendo con lui. Ma tutte le bambine che non hanno conosciuto l'uomo per aver giaciuto con lui, tenetele vive per voi".

Di recente, c'è stata una polemica sul Corriere della Sera tra Sergio Romano e il gesuita Corrado Marucci. Il primo aveva scritto di non vedere sostanziali differenze tra la violenza presente nell'Antico Testamento e quella contenuta nel Corano. Il gesuita ha obiettato che la rivelazione divina è stata progressiva e che, in buona sostanza, quel che fa fede ed è vincolante è il Nuovo Testamento. È stato facilmente obbiettato che è piuttosto incredibile che una morale divina rivelata ammetta (anzi prescriva) prima che gli esseri umani "si sbranino a vicenda", e in seguito "dica loro che sbranarsi a vicenda è un male".
Ma anche il Nuovo Testamento è oggetto della severa critica di Hitchens, per le contraddizioni evidenti tra le varie versioni, per il fatto di essere stato scritto (assemblato) parecchio tempo dopo la morte di Cristo, per il fatto che i primi testi sacri sono gli scritti di Paolo di Tarso e non quelli degli evangelisti, per il fatto che i Vangeli riconosciuti sono solo quattro perché... perché – così giustificò la cosa Ireneo, padre della Chiesa – "i punti cardinali del mondo sono quattro"... Del resto, qualsiasi studioso serio del Nuovo Testamento - anche quelli credenti: e magari si tratta di gesuiti o di francescani - riconosce ormai il bricolage che è stato fatto per assemblarlo e tira fuori tali ammissioni in merito che il credente comune o troppo distratto sui casi della sua religione lo riterrebbe senz'altro un eretico.
Poi tocca al Corano, che l'autore sottopone ad una ricostruzione storica della sua compilazione e su cui conclude che "lungi dall'essere nato nella limpida luce della storia, come si espresse molto generosamente Renan, l'islam, nelle sue origini, è invece torbido e approssimativo come le religioni dai cui trasse i suoi prestiti [giudaismo e cristianesimo]. Ha immense pretese per sé, chiede ai suoi seguaci una sottomissione o una resa totali, ed esige per soprammercato deferenza e rispetto dai non credenti". Ma lo stesso giudizio di costruzione attraverso un bricolage di citazioni dal altri testi e di tradizioni antecedenti riguarda anche gli hadith (i detti del Profeta), che avendo raggiunto la bella cifra di circa trecentomila furono poi ridotti a diecimila da Bukhari vissuto più di duecento anni dopo il Profeta. "Siete liberi di credere – commenta Hitchens - che [...] "Bukhari [...] sia riuscito a selezionare solo quelli in grado di superare il vaglio della purezza e della genuinità". Non aggiungo osservazioni nel merito di certe prescrizioni contenute nelle Scritture sacre dell'islam, non meno inaccettabili di quelle contenute nel Vecchio testamento.
La questione dei miracoli, il modo di formazione delle religioni (anche nei tempi recenti), fanno poi da premessa ad una domanda fondamentale e cioè se la religione induce gli uomini a comportarsi meglio. La risposta dei credenti, dopo aver messo da parte la collezione delle storie del tutto improbabili che accompagnano la nascita delle religioni, sarebbe che senza la religione gli uomini "si abbandonerebbero a ogni genere di licenza ed egoismo". Facile dimostrare che così non è, e Hitchens porta una serie di documentati casi contemporanei in cui la religione non è affatto servita a frenare massacri e altri delitti, senza parlare dell'intera storia umana. Per esempio, come si giustifica il fatto che "il 25% dei membri delle SS fossero cattolici praticanti e che nessun cattolico sia mai stato minacciato di scomunica per la sua partecipazione ai crimini di guerra"? Il caso Goebbels, spesso tirato in ballo, non conta, visto che la scomunica gli era stata comminata molto tempo prima. "Dopo tutto – aggiunge maliziosamente l'autore – se l'era cercata per aver commesso l'oltraggio di sposare una protestante". Per non parlare di quanto accadde in Germania con la firma del concordato. Ma riprenderò la questione dell'etica nel prossimo e ultimo Labirinto dedicato alle religioni.
Ovviamente, per Hitchens, nemmeno quelle che lui chiama la soluzione orientale, ossia la tendenza a considerare l'Oriente come sorgente di una spiritualità più profonda e umana, è davvero frequentabile. In pagine precedenti aveva riportato l'esempio dei buddisti e dei musulmani dello Sri Lanka, che diedero ai festeggiamenti alcolici per il Natale 2004 la colpa dello tsunami che seguì immediatamente.
La conclusione dell'autore è che sia del tutto corretto applicare alla religione, almeno alle tre grandi religioni monoteistiche, il termine di totalitarismo, definizione che condivido del tutto. Del resto fu Pio XI a sostenere che "se c'è un regime totalitario - totalitario di fatto e di diritto - è il regime della Chiesa, perché l'uomo appartiene totalmente alla Chiesa, deve appartenerle". Certo, all'epoca, il termine totalitario non era ancora carico delle tragedie umane che sappiamo, ma la pretesa di quel papa si commenta da sola.
La resistenza della razionalità e la necessità di un nuovo illuminismo concludono il libro di Hitchens. "Tuttavia – scrive – solo il più ingenuo utopista può credere che tale nuovo stadio di civiltà si svilupperà, come certi sogni di progresso, in maniera lineare. Dobbiamo prima andare oltre la nostra preistoria e sfuggire alle mani nocchiute che si allungano per trascinarci indietro alle catacombe, agli altari fumanti e ai colpevoli piaceri della soggezione e dell'abiezione".

Undicesimo percorso
riepilogo Dawkins

Dawkins

Concludo questa pare della rassegna con il recente libro di Richard Dawkins, L'illusione di Dio. Le ragioni per non credere [Milano, Mondadori, 2007, pp. 400] che rappresenta un riepilogo e una riproposizione di alto profilo di molte delle osservazioni e delle critiche fin qui sviluppate, ma con argomentazioni anche nuove. Il libro ha già fatto molto discutere e sta incontrando un buon successo mondiale. Naturalmente, la pubblicazione ha subito scatenato delle polemiche e persino una risposta critica scritta a tamburo battente, come quella di Alister McGrath, L'illusione di Dawkins. Il fondamentalismo ateo e la negazione del divino [Caltanissetta, Alfa&Omega, 2007, pp. 96], al quale lo stesso Dawkins ha dato una riposta al vetriolo. Tra l'altro, all'accusa di credere in una scienza onnisciente, obbietta: "McGrath immagina che io non sarei d'accordo con il mio eroe Sir Peter Medawar su I limiti della scienza [Torino, Bollati e Boringhieri, 1985, pp. 96]. Al contrario. Non mi stanco mai di enfatizzare quante cose noi non sappiamo. The God Delusion si conclude proprio con un tema del genere. Da dove vengono le leggi della fisica? Come è cominciato l'universo? Gli scienziati stanno lavorando su questi profondi problemi, con onestà e pazienza. Alla fine potrebbero risolverli. Oppure potrebbero non farcela mai. Non lo sappiamo. Ma mentre io ed altri scienziati siamo abbastanza umili da dire che non lo sappiamo, che fanno i teologi come McGrath? Lui sa. Lui ha abbracciato il Credo di Nicea. L'universo è stato creato da un'intelligenza soprannaturale molto particolare, che è in realtà tre in uno. Non quattro, non due, ma tre. La dottrina cristiana è notevolmente specifica: non solo nelle sue risposte secche e sicure ai problemi profondi dell'universo e della vita, ma circa la natura divina di Gesù, sul peccato e la redenzione, il paradiso e l'inferno, la preghiera e la moralità assoluta. Eppure McGrath ha l'incredibile coraggio di accusare me di avere l'ingenua, "fuorviante", "spicciola" fede che la scienza abbia tutte le risposte".
Ora, Richard Dawkins non ha certo bisogno di presentazioni e debbo dire che ha scritto un libro quasi perfetto. Qualche caduta di stile o qualche eccesso, qua e là, sono dovuti alla passione e al fatto che "il cortile dei non credenti è molto più nutrito di quanto non si pensi". Perché, aggiunge l'autore, il problema è proprio quello degli atei e degli agnostici che non vogliono infilarsi in discussioni scabrose per quieto vivere o per convenienza sociale. E magari tirano fuori l'osservazione che in fondo la religione serve come fondamento dell'etica. Oppure, è il problema di quelli che ribattono alle critiche contro la religione: "Ma la religione è consolante, come se ciò implicasse automaticamente che sia anche vera". "E poi non si sa mai – osservano altri agnostici". A tutti costoro in particolare è diretto il lungo saggio di Dawkins, ma anche ai credenti che continuano ad interrogarsi, non accontentandosi dell'educazione religiosa conculcata loro fin dalla prima infanzia, oppure che "non vivono la religione come un ornamento sociale che si indossa per tradizione e magari solo in alcuni passaggi importanti della vita". Ma Dawkins non dispera che lo leggano anche i credenti militanti, magari per misurarsi con le osservazioni e le critiche contenute nel libro.
Nonostante l'estrema chiarezza del testo e la sua eccellente leggibilità è davvero difficile riassumerne in qualche modo il senso a causa della ricchezza di argomentazioni e della vastità dei temi affrontati. Tanto che tornerò ad utilizzarne la parte dedicata all'etica nel prossimo Labirinto. Forse si potrebbe iniziare con la citazione che l'autore fa di un passo dell'astronomo Carl Sagan, a proposito dell'esistenza di Dio: "Se per Dio si intende una serie di leggi fisiche che governano l'Universo, senza dubbio Dio esiste. Ma è un Dio che non appaga dal punto di vista emotivo... non ha molto senso pregare la legge di gravitazione universale".
Ad un certo punto delle impostazioni, per così dire, preliminari dirette a inquadrare il problema oggetto del libro, Dawkins stila una specie di tabella delle convinzioni diffuse a proposito dell'esistenza di Dio, "ai cui estremi stanno opposte certezze". La riporto – adattata – in modo che ciascuno possa trovare la sua collocazione:

Credenti Agnostici Non credenti
1. Sono certo che Dio esiste   5. Non so se Dio esiste, ma tendo allo scetticismo
2. Non lo so per certo, ma vivo come se Dio esistesse 4. L'esistenza e la non esistenza di Dio hanno la stessa probabilità 6. Improbabile che Dio esista e vivo dando per scontato che è così
3. Sono molto incerto ma tendo a credere in Dio   7. Sono certo che Dio non esiste

Dawkins dichiara di collocarsi nella sesta categoria con inclinazioni verso la settima, che è di parecchio meno nutrita della prima. Ovviamente, l'oggetto delle sue critiche sono le categorie che vanno dalla prima alla quarta, con una speciale attenzione per quest'ultima, quella degli agnostici, dichiarando ironicamente che anche lui sarebbe agnostico "riguardo a Dio come lo sono riguardo all'esistenza delle fate in un angolo del giardino".
Poi l'autore contesta l'idea assai diffusa che l'argomento della fede religiosa sia molto delicato e che "debba per questo essere oggetto di un rispetto esagerato, ben superiore a quello che qualsiasi essere umano deve al suo simile". Eppure la religione, anzi, i credenti in carne e ossa non si peritano "di mettere il naso nelle vite private altrui", anzi se ne arrogano il diritto. I casi di vera e propria isteria di ambienti islamici quando si parla male della loro religione o ci si scherza sopra sono troppo noti per ricordarli qui.
Dawkins definisce l'ipotesi di Dio in modo più difendibile di quanto si possa fare riferendosi alle personalizzazioni delle religioni esistenti o passate, nel senso che "esiste un'intelligenza sovraumana e soprannaturale che ha deliberatamente progettato e creato l'universo con tutto quanto vi è compreso, inclusi noi". Una definizione che dovrebbe trovare d'accordo tutti i credenti, senza distinzioni di appartenenza. Ebbene, la sua ipotesi, quella che sostiene nell'intero libro, è che "qualsiasi intelligenza creativa abbastanza complessa da progettare qualcosa è solo il prodotto finale di un lungo processo di evoluzione graduale". In buona sostanza, un qualcosa di ipoteticamente complesso come Dio non può essere all'origine di tutto. La mia opinione, al termine della lettura, è che le sue argomentazioni sostengano in modo robusto la sua ipotesi.
"Forse – premette Dawkins, con un concetto ripreso nella sua replica al teologo Alister McGrath – vi sono alcuni interrogativi davvero pregnanti e importanti cui la scienza non potrà mai rispondere. Può darsi che la meccanica quantistica stia già bussando alla porta dell'insondabile. Ma se la scienza non può dare una risposta ad alcuni quesiti fondamentali, come si può pensare che possa dargliela la religione?".
L'autore, d'altra parte, non è nemmeno d'accordo con la ormai celebre frase dello scienziato e divulgatore Stephen Jay Gould, ripresa spesso nelle polemiche tra credenti "creazionisti" e evoluzionisti; il quale, a proposito di Dio, dichiarò che: "Non confermiamo né neghiamo; semplicemente, in quanto scienziati non possiamo esprimere un giudizio di merito". Ora, a parte il fatto che Gould era un evoluzionista e – dice Dawkins – "uno scienziato molto vicino all'ateismo de facto", perché mai - si chiede – la scienza non può nemmeno emettere giudizi probabilistici sulla questione? Secondo l'autore la presenza o meno di una superintelligenza creatrice è inequivocabilmente una questione scientifica, così come lo è "la verità o la falsità di tutti i miracoli su cui fa assegnamento la religione per impressionare la moltitudine dei fedeli". Oltre tutto, la non sovrapposizione dei due magisteri avrebbe un senso se ci fosse una reciprocità, ma dal momento che la religione cerca di spiegare il mondo e si immischia al mondo reale parlando di miracoli, l'amichevole concordia di cui parlava Gould "è spezzata".
Dawkins passa poi in rassegna gli argomenti principali e più noti spesi per dimostrare l'esistenza di Dio, da Tommaso d'Aquino e da Anselmo d'Aosta (quello dell'inconsistente argomento ontologico) alle fole diffuse sui grandi scienziati credenti (come la leggenda di una fantomatica conversione di Darwin in punto di morte), alla famosa scommessa di Pascal (il quale consigliava di credere, in buona sostanza, per opportunità politica), ai più recenti pasticci probabilistici impiegando con criteri soggettivi le teorie statistiche bayesiane. Le argomentazioni sul perché è quasi certo che Dio non esiste si affidano sostanzialmente all'evoluzionismo, che è davvero una teoria controintuitiva (come la relatività di Einstein o la meccanica quantistica, del resto), per cui è forse questa la ragione per cui stenta a diventare senso comune. In genere – come ha osservato Daniel Dennett – pensiamo "che ci vuole una cosa bella e grandiosa per produrne una più piccola". Così, non pensiamo certo che un ferro di cavallo possa fabbricare un fabbro o un vaso un vasaio. Invece, "Darwin ha scoperto un processo concreto che agisce proprio in tale modo controintuitivo": cioè che procede dal più semplice al più complesso, con "rampe graduali di complessità crescente". Le storie principali sulla complessità irriducibile, di cui Dawkins parla, le abbiamo già in parte viste nel secondo percorso. Qui l'autore, in particolare, prende in esame la questione del meraviglioso funzionamento dell'occhio o dell'ala, cavalli di battaglia dei creazionisti per sostenere che la loro complessità non può essere spiegata se non con un intervento divino. Naturalmente, con riflessioni di merito e con la sua ironia basata persino sul buon senso logico e scientifico, Dawkins smonta anche questi argomenti. Proprio mentre scrivevo queste pagine, mi sono imbattuto nella notizia che un gruppo di ricercatori dell'Università della California ha scoperto su un tipo di polipo la proteina partecipante alla capacità di ricezione della luce e antecedente all'organizzazione di fotorecettori più complessi, il che permette di datare l'apparizione dei primi organi della vista a circa 600 milioni di anni fa. I creazionisti, osserva Dawkins, "cercano affannosamente una lacuna nelle conoscenze attuali. Se ne trovano una, sia pure apparente, assumono che Dio debba colmarla per default, ossia automaticamente". Salvo, come nel caso della vista, essere sloggiati dalla provvisoria lacuna. Alla fin fine, questo Dio dei creazionisti rischia di diventare un Dio delle lacune, "che cerca di farsi largo tra fenomeni che fanno benissimo a meno della sua esistenza". Insomma se i mistici "esultano nel mistero e vorrebbero che restasse misterioso", gli scienziati esultano per motivi diversi, quando si imbattono in un mistero, perché "vi trovano motivo di ricerca".
Ma i creazionisti più avveduti, dopo aver rinunciato a falsificare le informazioni e i dati che di solito vengono spacciati da questo tipo di letteratura, e a cercare di capovolgere in negazione totale della teoria le controversie esistenti nell'ambito della scienza su questo o quel punto, si rifugiano nella questione dell'origine della vita, sposando il principio antropico, con l'idea che esso sostenga la loro causa. Cosa molto strana, osserva Dawkins, perché tale principio non sostiene affatto l'ipotesi di Dio, ma è al contrario "un'alternativa all'ipotesi del progetto, in quanto fornisce una spiegazione razionale e non finalistica al fatto che ci troviamo in una situazione propizia alla nostra esistenza". In modo chiaro e folgorante, l'autore prende in esame la versione cosmologica del principio, che si riferisce alle costanti fisiche universali, mostrando come – proprio sulla base delle teorie fisiche esistenti e della loro straordinaria creatività, che non hanno nulla da invidiare, quanto ad emozionalità, a altre attività umane come l'arte - non sia possibile che Dio tenga "costantemente un dito su ciascuna particella, frenando i suoi assurdi eccessi e mettendola in riga assieme alle colleghe perché resti sempre uguale a se stessa". A meno che non siamo vicini a identificare Dio con le costanti fisiche universali, il che ci ricorda la battuta del "pregare la legge di gravità".
Sul problema delle origini della religione, Dawkins non crede alla teoria di Daniel Dennett sul suo effetto placebo come presupposto della sua naturalità e nemmeno esamina l'ipotesi neurologica. Peraltro, le più recenti ricerche dell'Università di Chicago sull'influenza della fede nelle guarigioni hanno dato risultati contraddittori, come tutte le ricerche precedenti. L'autore non sembra nemmeno prestare molta attenzione all'indirizzo neuroteologico che cerca nel cervello un centro deputato all'esperienza mistica. Certo che dal punto di vista evoluzionistico l'ipotesi è affascinante, tanto da aver spinto il Dalai Lama, sia pure per ragioni diverse, a creare un centro di ricerca che studia le esperienze mistiche dal punto di vista neurologico e degli effetti medici. Il fatto è che dal punto di vista evolutivo la selezione avrebbe favorito la cooperazione tra gli individui e la definizione di un ordine morale affinché la socialità potesse svilupparsi. E la forma arcaica, come abbiamo visto nel primo percorso, potrebbe essere stata l'affermazione di una proto religione, poi evolutasi con lo sviluppo delle società umane. C'è anche chi, come il genetista Dean Hamer si è spinto fino a ipotizzare la controversa esistenza di un gene di Dio.
Piuttosto, Dawkins, anche sulla scorta dei dati derivanti dal funzionamento dei meccanismi evolutivi, pensa che si tratti di un prodotto indiretto di qualcos'altro, seguendo gli indirizzi della psicologia evolutiva. Lo psicologo dello sviluppo infantile Paul Bloom, in particolare, nel suo Il bambino di Cartesio. La psicologia evolutiva spiega che cosa ci rende umani [Milano, il Saggiatore, 2005, pp.254], sostiene infatti che i bambini tenderebbero per natura a un atteggiamento mentale dualistico (un conto è la cosa, un conto sono le sue intenzioni, anzi la sua animazione). Insomma, la realtà è sdoppiata. Così come i bambini sarebbero per natura esseri teleologici, ossia attribuiscono uno scopo a tutto, cosa che molti adulti non smettono di continuare a fare. Mi sembra proprio che si tratti, come ho già in precedenza osservato, di una misura evolutiva necessaria per la sopravvivenza, se si vogliono scoprire per tempo le intenzioni del predatore che ci sta puntando. Dawkins fa invece un parallelo con i comportamenti di altri animali (le falene attratte dalla luce, nel caso specifico) per spiegare il meccanismo, che sarebbe troppo lungo riferire qui, ma che è molto interessante, a proposito del funzionamento dell'evoluzione. In sostanza, dualismo e teleologia ci predisporrebbero alla religione, sia nel senso di credere in un'anima che abita il corpo "anziché esserne parte integrante", sia nel senso che se tutto ha uno scopo, allora deve esserci un Dio. "Senza dubbio – conclude questo capitolo Dawkins – la religione ha molti tratti che favoriscono la sopravvivenza sua e delle sue peculiarità, nel vivaio della cultura umana". Per progetto intelligente o per selezione naturale? Probabilmente per entrambi, risponde l'autore. Laddove il progetto intelligente appartiene però interamente ai capi religiosi e ai profeti, ossia a questa Terra, ossia all'organizzazione culturale della società umana.
Sarebbe interessante approfondire la questione soprattutto sotto il profilo della psicologia evolutiva, nonché degli studi più recenti di antropologia religiosa che utilizzano il cognitivismo, come nel caso del libro di Robert Hinde, Why Gods Persist [London, Routledge, 1999, pp. 304]. Non si tratta di un libro recente ma non è stato tradotto in italiano, nonostante sia un testo fondamentale al quale molti continuano ad attingere, Dawkins compreso. Soprattutto in relazione alla funzione, diciamo così, consolatoria della religione e all'incremento della fiducia e del controllo in presenza di situazioni difficili. In buona sostanza, la religione funzionerebbe come una sorta di training autogeno o di auto assicurazione. Questo naturalmente è solo un aspetto della questione, poiché ci troviamo qui in un vasto campo di studi di origine soprattutto anglosassone che rimettono in questione, da una più avanzata base di conoscenze e di nuove metodologie di indagine, un fenomeno a cui viene sottratta l'aura si sacralità e di mistero ultimo. Un'operazione che viene seguita con attenzione dai teologi, anche se lamentano la non novità di questi tentativi (si risale alla solita denuncia dell'illuminismo) e se accusano questi studi del solito riduzionismo che taglierebbe fuori l'esperienza religiosa più intima, negando anche il ruolo dei teologi stessi. Insomma, una specie di difesa corporativa della propria condizione lavorativa.
Segue poi, nel libro di Dawkins, una parte dedicata all'etica (perché siamo buoni?) che, come ho già detto, riprenderò nel prossimo percorso. L'autore affronta in particolare il tema dell'intolleranza con un confronto tra integralisti cristiani (quelli che Dawkins chiama i talebani americani) e quelli islamici, investendo temi quali l'aborto e l'eutanasia e ai metodi di azione e di propaganda seguiti dai primi. Degli islamici appare qui superfluo riparlare. Gli esempi dell'autore sono tutti tratti dalle cronache e dai movimenti americani, ma non per questo suscitano meno preoccupazione, visto il posto occupato dagli Stati Uniti nella geopolitica. Sono impressionanti le parole di Randall Terrry, fondatore di Operation Rescue, un'organizzazione assai nota arroccata attorno alla Christian Coalition, "impegnata a intimidire i medici che praticano l'aborto". Randall ha incitato così i militanti: "Voglio che vi lasciate sommergere da un'ondata di intolleranza. Voglio che vi lasciate sommergere da un'ondata di odio. Sì, l'odio giova... Il nostro obiettivo è una nazione cristiana. Abbiamo un dovere biblico: siamo chiamati da Dio a conquistare questo paese. Non vogliamo la par condicio. Non vogliamo il pluralismo. Il nostro obiettivo deve essere semplice. Dobbiamo essere una nazione cristiana edificata sulla legge di Dio, sui Dieci comandamenti. Non ci sono scuse". Dawkins commenta che l'ispirazione è di "creare quello che si può solo definire uno Stato fascista cristiano". Una sorta di progetto parallelo a quello che alcuni commentatori occidentali hanno definito come fascismo islamico, riferendosi confusamente agli integralisti. Su questo punto della definizione dell'estremismo religioso islamico sarà bene fare riferimento all'articolo di Timothy Garton Ash (la Repubblica del 22 novembre 2007), il quale contesta il termine di islamofascismo, molto usato soprattutto in ambito americano, e suggerisce la più corretta e pregnante definizione di estremisti o terroristi jihadisti.
Anche Dawkins, come Sam Harris, ritiene che la fede religiosa non possa essere rispettata, come dire, a prescindere. Come ad esempio nel caso dei terroristi dell'11 settembre, visto che "queste persone credono veramente in ciò in cui dicono di credere". E, come Harris, ritiene che il più largo e accogliente contenitore in cui può prosperare l'integralismo sia costituito proprio dalla fede moderata, che favorirebbe il fanatismo. Cosicché - osserva – "finché accetteremo il principio secondo il quale la fede religiosa va rispettata in quanto tale, sarà difficile negare rispetto alla fede di Osama bin Laden e dei terroristi suicidi".
Il saggio di Dawkins continua poi con un impressionante capitolo su Infanzia, abusi e fuga dalla religione. "Sono convinto – scrive tra l'altro – che non è esagerato parlare di abuso di minore quando insegnanti e preti spingono i bambini a credere per esempio che se non si confessa un peccato mortale si bruci all'inferno per l'eternità". Ma forse qui il lettore potrà più agevolmente fare ricorso alla propria memoria infantile, se ha ricevuto un'educazione religiosa. D'altra parte, ritorna qui il tema del multiculturalismo di cui ho parlato nell'ottavo percorso, commentando il libro di Amartya Sen sulla questione dell'identità. Secondo Dawkins non si possono esaltare gli "strani costumi religiosi delle varie etnie e giustificare le crudeltà commesse nel loro nome". Come le pratiche atroci e barbariche dell'infibulazione, dell'escissione del clitoride, ad esempio, che "metà delle brave persone liberali e perbene vorrebbe abolire, ma l'altra metà rispetta" perché si tratta di un'altra cultura e "ritiene che non si debba interferire se loro vogliono mutilare le loro bambine". Dawkins denuncia che si tratta di una pratica corrente in Inghilterra, sulla quale le autorità chiudono un occhio per evitare problemi con le comunità interessate. Ma, sul sito medici&salute, si denuncia che in Italia vi sarebbero tra le quattro e le cinquemila bambine che rischiano l'infibulazione.
Sarebbe davvero opportuno che nelle scuole, piuttosto che finanziare la segregazione culturale di quelle religiose o l'insegnamento di una religione in quelle pubbliche, si potesse insegnare la comparazione tra le religioni, con l'obbligo di informare che c'è una parte non piccola della popolazione mondiale che non è di nessuna religione. Non sarebbe un modo corretto di lasciare liberi i futuri cittadini di fare una scelta cosciente? Meglio ancora, visto lo stato disastroso della cultura scientifica esistente in Italia, causa non ultima del nostro declino, sarebbe bene riprendere la recente proposta di Umberto Veronesi e Piergiorgio Odifreddi che "al posto dell'ora di religione a scuola ci vorrebbe l'ora di pensiero scientifico". (la Repubblica del 29 novembre 2007).
Nell'ultimo capitolo Dawkins ritorna sul tema dello statuto della religione dal punto di vista neurobiologico e psicologico. "La religione – si chiede – colma forse una lacuna intrinseca" esistente nel nostro cervello? Nel passato si riteneva che la religione svolgesse quattro importanti funzioni: 1. spiegazione del mondo e dell'esistenza, oggi soppiantata dalla scienza; 2. esortazione come etica, messa seriamente in discussione dall'etica laica; 3. consolazione di fronte alle difficoltà della crescita e a quelle dell'età adulta; 4. ispirazione, come soddisfazione dell'emotività e della nostra esigenza di elevazione.
Ora, scrive l'autore, avendo trattato ampiamente i primi due punti nel corso del libro, non rimane che affrontare gli ultimi due. Il terzo punto rinvia subito al tema della formazione della coscienza. È frequente che i bambini si inventino un amico immaginario, un alter ego, una compagnia permanente, una voce interiore percepita come altro da sé. "Pur esistendo solo nell'immaginazione, un essere appare del tutto reale a un bambino, e gli dà un conforto e un consiglio reali" – scrive Dawkins, chiedendosi se la credenza negli dei ancestrali si sia evoluta da questa esperienza di sdoppiamento, di proiezione esterna della propria autocoscienza. E qui l'autore, con tutte le cautele del caso, cita un libro, che ha fatto molto discutere, di Jiulian Jaynes, uno psicologo americano che scrisse Il crollo della mente bicamerale e l'origine della coscienza [Milano, Adelphi, 1996, 2002, pp. 582], nel quale si ipotizza che prima del 1000 dell'Evo Antico "gli esseri umani non si rendessero conto che la seconda voce [...] proveniva dalla loro stessa mente, e credevano fosse quella di un dio. Il pregio dell'ipotesi di Jaynes è di affrontare il problema dell'emersione della coscienza dal punto di vista evolutivo, che comprenderebbe anche una spiegazione dei mutamenti della religiosità umana. In un articolo ora disponibile in italiano La coscienza e le voci della mente, Jaynes aveva anticipato la sua teoria. "Secondo dati raccolti sia da me che da altri ricercatori (Singer & Singer, 1984) almeno un terzo dei ragazzi moderni attraversa questa esperienza – scriveva Jaynes, a proposito dell'amico immaginario - che sembrerebbe implicare vere e proprie allucinazioni verbali. Nei rari casi in cui il compagno di giochi immaginario prosegue la sua esistenza oltre la fase infantile, esso cresce con il bambino e, nelle situazioni di stress, dà indicazioni sul da farsi. È inoltre possibile che proprio questa sia stata l'origine del dio personale nell'era bicamerale: un compagno immaginario che cresce con l'individuo, in una società le cui aspettative incoraggiano il bambino ad ascoltare voci, in età adulta come nell'infanzia". È necessario spiegare che l'era bicamerale era quella in cui non c'era ancora introspezione o coscienza della propria coscienza, per cui essa sembrava provenire da un'altra persona.
Dawkins si mostra piuttosto scettico in proposito, dando la preferenza all'ipotesi già illustrata della religione come "prodotto secondario psicologico". Però mi piacerebbe approfondire la questione anche alla luce delle funzioni dei neuroni-specchio esistenti nel nostro cervello, che sembrano rivestire un ruolo sempre più importante, man mano che la ricerca progredisce. Per esempio, a proposito delle visioni riportate in alcune situazioni di pre-morte, nelle quali i pazienti riferiscono di essersi visti abbandonare il proprio corpo e di guardare la scena dall'alto, cosa che viene di continuo citata come indizio dell'esistenza di un'anima o di un'individualità extracorporea che sarebbe dentro di noi, Vilayanur S. Ramachandran, uno dei neuroscienziati più accreditati, ha sostenuto in una conferenza tenutasi nello scorso mese di agosto che "di recente è stato dimostrato che se a un paziente cosciente viene stimolato il lobo parietale durante un'operazione neurochirurgia, si ha a volte un'esperienza di "fuori del corpo" - come se egli fosse un ente staccato che guarda il proprio corpo dal soffitto. Propongo che questo fenomeno sia interpretato come una disfunzione nel sistema dei neuroni specchio nello svincolo parieto-occipitale, causata dalla stimolazione dell'elettrodo". Peraltro, proprio Ramachandran nel 1997 annunciò di aver individuato nel lobo temporale del cervello la sede in cui si elaborano le esperienze mistiche (una specie di modulo di Dio). Il che, come ha subito chiarito lo scienziato, non ha nulla a che vedere con la dimostrazione dell'esistenza o meno di Dio: "Qualcuno può dire che l'uomo, unico nel creato, ha il privilegio di avere nella propria testa una macchina in grado di metterlo in contatto con il divino, ma altri potrebbero vederla in senso opposto: Dio è tutto nella testa di chi crede". Comunque, la chimica del cervello ci è in gran parte ancora ignota ma sarebbe bene che teologi e filosofi fossero un po' più prudenti, se non modesti, nelle loro apodittiche affermazioni e interpretazioni.
Tornando a Dawkins, l'autore passa poi in rassegna quelle che chiama le pretese consolatorie della religione e le contraddizioni che gli esseri umani vivono tra l' attesa di un ipotetico paradiso e il timore della morte.
L'ultimo argomento, quello dell'ispirazione, dipendendo "dal gusto e dal giudizio personale", obbliga Dawkins a ricorrere non alla logica ma alle metafore, che tuttavia, nella sua scrittura, si rivelano ancora una volta affascinanti. Come quando cita il biologo Lewis Wolpert (che ha posizioni diverse da Dawkins sul ruolo della religione) per dire "che la stranezza della scienza moderna [è] solo la punta dell'iceberg"; o parla del nostro mondo come di un Mondo Intermedio, cioè quel mondo che i nostri sensi sono in grado esplorare, "in cui gli oggetti importanti per la nostra sopravvivenza non [sono] né molto grandi né molto piccoli". E sul quale il nostro cervello, frutto anch'esso dell'evoluzione, lavora attraverso un modello, differente da quello in possesso di un animale volante o di un predatore o di un'ape che deve scegliere il fiore su cui posarsi. Insomma, senza gli strumenti forniti dalla scienza, noi concepiremmo il mondo solo attraverso la feritoia di un burka, e invece "la scienza spalanca la stretta finestra attraverso la quale siamo soliti contemplare lo spettro delle possibilità". La scienza, il resto è incontrollabile fantasia. Naturalmente la fantasia è importante e necessaria per la nostra sopravvivenza e anche per la nostra felicità; ma, per riprendere il discorso di Amleto:

"Vi sono in cielo e in terra, Orazio, assai più cose
di quanto ne sogna la tua filosofia."

Esattamente, annota Dawkins, delle "più cose" di cui si sta occupando la scienza moderna, in primo luogo la fisica, con le sue ipotesi apparentemente assurde e controintuive, oggetto di una revisione e di un approfondimento continui e non di verità imprescrutabili, per cui "un evento chimico quasi impossibile come la nascita della vita può verificarsi ove si disponga di un numero sufficiente di anni planetari", per non parlare del fatto "che esiste uno spettro di universi possibili ciascuno con la sua serie di leggi e costanti, e che per necessità antropica noi ci troviamo in uno dei pochi posti ospitali".
A conclusione di questa parte dei percorsi, mi sembra che l'ipotesi di Daniel Dennett – di cui ho parlato nel primo percorso - che la religione vada studiata come fenomeno naturale, come un frutto del processo evolutivo, ne esca tutto sommato confermata. Al di là delle diverse interpretazioni ancora aperte sul suo significato e sui meccanismi neurobiologici che la determinano. Il che è importante anche per gli aspetti etici, e anche politici, che vedremo nel prossimo Labirinto.

(continua al Labirinto n. 15)

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